Vai al contenuto

Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica

Il significato della «giustizia resa ai santi dell’Altissimo» (Dn 7,22) nell’interpretazione di Giovanni e di Padri greci

Giovanni Manabu Akiyama

University of Tsukuba, Giappone

Scarica l’articolo in pdf

Introduzione

L’avvenimento della Pentecoste è conosciuto principalmente per il passo degli Atti degli Apostoli (At 2,1-4). Anche l’icona della discesa dello Spirito Santo è dipinta nella tradizione bizantina in base a questa descrizione negli Atti. Ma la festa della Pentecoste in realtà si festeggia con l’icona che rappresenta un uomo coronato nella parte inferiore-centrale. Mi sembra che la significazione oppure l’identificazione di questo uomo non sia stabilita. Sarà possibile spiegare che questo anziano sia “il vegliardo” nel Libro di Daniele (Dn 7,9.13.22). In questa relazione vorremmo anzitutto dimostrare che la festa della Pentecoste oppure la discesa dello Spirito Santo rivela il compimento della “vittoria e giustizia dei santi dell’Altissimo” descritta nel Libro di Daniele (Dn 7,22). In questo libro profetico ed escatologico compare «uno simile a un figlio d’uomo» che «viene con le nubi del cielo» (Dn 7,13). Gesù Cristo usa questo titolo di «Figlio dell’uomo» nel Vangelo secondo Giovanni, oltre che negli altri Vangeli, quando afferma di Sé: «il Padre gli ha dato il potere di giudicare (κρίσιν ποιεῖν), perché è Figlio dell’uomo» (Gv 5,27). Potremmo presumere quindi che l’icona della Pentecoste rappresenti il giudizio escatologico, accogliendovi i temi descritti nel Libro di Daniele.

È noto, però, che una delle caratteristiche più tipiche del quarto Vangelo sia “l’escatologia del già realizzato” (Cantalamessa 22007: 212): il modo di pensare che tutto si è compiuto nella figura di Gesù crocifisso, poiché secondo l’evangelista Giovanni la croce è veramente la gloria. In altre parole, secondo questo apostolo, l’Antico Testamento si è realizzato compiutamente per la crocifissione di Gesù, dunque non c’è più niente da aggiungervi. Questa inclinazione di escatologia è stata rappresentata bene, p.es., nel modo della celebrazione di Pasqua dei “quartodecimani”, che l’hanno festeggiata il 14 del mese di Nisan, lo stesso giorno dei Giudei, sulla base della descrizione del quarto Vangelo: secondo loro, Gesù è veramente “l’Agnello di Dio” (Gv 1,36; 1Cor 5,7). Mi sembra che questo punto di vista escatologico valga quando interpretiamo sia i Vangeli che l’Antico Testamento (Akiyama 2016): la croce comprende tutto, anche la risurrezione. Tutte le tappe della redenzione infatti, non soltanto la passione e la morte di Gesù, ma anche la Sua ascensione e la discesa dello Spirito Santo dopo la risurrezione, convergono sulla figura di Gesù crocifisso testimoniato dal quarto evangelista, perché malgrado la Sua morte sulla croce (Gv 19,33), sangue e acqua, il sangue dell’Agnello di Dio, uscirono dal Suo fianco non appena un soldato Gli colpì il fianco (Gv 19,34).

È noto in realtà che il Vangelo secondo Giovanni è scritto fin dall’inizio dal punto di vista successivo alla risurrezione di Gesù: Gesù descritto in questo Vangelo è Gesù risorto (p.es., Croce 1998: 44). Se possiamo trovare Gesù risorto anche nella figura di Gesù crocifisso, allora potremo trovarvi l’identità onnipotente di Dio trinitario: la figura di Gesù, dell’Unigenito Dio crocifisso, non soltanto manifesterà l’invio dello Spirito Santo, ma anche indicherà Dio Padre. Gesù infatti dice di se stesso: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Gesù risorto sulla croce che incorpora la Trinità Santa sarà quindi onnipotente, trascendendo la mortalità, la temporalità e la località. Questo sarà il significato della frase che il Signore Dio dice nell’Apocalisse: «Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente» (Ap 1,8). L’Agnello “in piedi come immolato” (Ap 5,6) che giunse e prese il libro dalla destra di Colui che sedeva sul trono (Ap 5,7) infatti non indicherà altro che Gesù risorto sulla croce, perché le gambe di Gesù sulla croce, secondo il quarto Vangelo, “non sono spezzate” (Gv 19,33).

In questa relazione quindi vorremmo anche dimostrare che il punto di vista di “Gesù risorto sulla croce” sia valido nell’interpretazione specialmente del Libro di Daniele. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù in effetti dice: «Ora è il giudizio (κρίσις) di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,31-32). Quindi, se possiamo avere veramente il punto di vista dell’“escatologia del già realizzato”, non si troverà più nessun “mondo” dopo la risurrezione ovvero la vittoria di Gesù. Gesù invece incoraggia i discepoli con i verbi seguenti: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Come potremmo fare compatibili questi due passi contrastanti? Il nostro problema sarà quindi: “Quale era il «giudizio» di questo mondo per mezzo dell’Unigenito Dio, Gesù”? In questo processo vorremmo fare riferimento al Vangelo secondo Giovanni e ai padri greci, specialmente a Clemente Alessandrino.

1 Le icone della Pentecoste


PIC PIC


Prima di tutto, riferiamoci all’icona della Pentecoste. Ambedue le icone riprodotte sopra sono della tradizione bizantina.2

Prendiamo per prima in considerazione l’icona di sinistra: è dipinta una casa, e dentro vi siedono in cerchio i dodici apostoli. Sotto di loro c’è un arco, nel centro del quale è posto un vecchio raffigurato a metà figura e coronato. Quest’uomo sostiene con le mani un rotolo bianco con dodici strisce che rappresentano i dodici apostoli; nel buio accanto all’uomo appare un titolo ὁ κόσμος (“il mondo”). Sopra ciascun apostolo invece si separa e si posa «qualcosa di simile a lingue di fuoco» (At 2,3).

Come abbiamo menzionato sopra, mi sembra che il significato e l’identità dell’uomo a mezza figura che è rappresentato nella parte inferiore-centrale dell’icona, vecchio e coronato, non sia ancora stabilita: secondo la maggioranza dei ricercatori moderni, quest’uomo simbolizza il mondo, cioè impersona il capo del mondo pieno di peccato. Secondo Evdokimov, ad esempio, questo uomo è «un prigioniero del principe di questo mondo» (Evdokimov 21981: 313). È vero che nel buio accanto a lui appare un titolo ὁ κόσμος. La spiegazione che l’anziano di questa icona sia il capo del mondo si basa probabilmente sul passo del quarto Vangelo summenzionato (Gv 12,31).3 Ma se veramente “sarà gettato fuori”, mi sembra che “il principe” non si debba affatto raffigurare nell’icona. Inoltre, poiché porta un rotolo bianco con dodici strisce che rappresentano i dodici apostoli, potremmo immaginare che sia qualcuno divino, ovvero Dio stesso. Allora il titolo di “mondo” indicherà propriamente soltanto il buio.

2 “Il vegliardo” e il “Figlio d’uomo”

Sarà possibile piuttosto spiegare come questo anziano sia «il vegliardo» (ὁ παλαιὸς τῶν ἡμερῶν) nel Libro di Daniele.4

Nel capitolo settimo di questo libro profetico si legge: «Io (Daniele) continuavo a guardare, quand’ecco furono collocati troni e un vegliardo si assise. La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente» (Dn 7,9). In questo brano, che è scritto originalmente in aramaico, appare «il vegliardo»5.

Colui che è «uno simile a un figlio d’uomo» (ὡς υἱὸς ἀνθρώπου) compare poi: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14). Questi, «uno simile a un figlio d’uomo», si identifica invece con “i santi dell’Altissimo” che appaiono in seguito: «Io intanto stavo guardando e quel corno muoveva guerra ai santi e li vinceva, finché venne il vegliardo e fu resa giustizia (κρίμα; cfr. κρίσις in LXX) ai santi dell’Altissimo e giunse il tempo in cui i santi dovevano possedere il regno» (Dn 7,21-22). In questo passo “quel corno” significa quello che è spuntato come l’undecimo e l’ultimo, intorno alle dieci corna. Secondo la Bibbia di Gerusalemme, queste «dieci corna» sono dei re della dinastia seleucide, l’ultimo corno invece significa Antioco IV Epifane6 (Frati predicatori 2009: 2125).

Questo “corno undecimo” ovvero “la quarta bestia” (Dn 7,23) infatti vinceva i santi (Dn 7,21). Questa vicenda è spiegata poco oltre: «(quel corno) proferirà parole contro l’Altissimo e insulterà i santi dell’Altissimo»; “I santi gli saranno dati in mano per un tempo, tempi e metà di un tempo” (Dn 7,25). Tuttavia «si terrà il giudizio (κριτήριον; cfr. κρίσις in LXX) e gli sarà tolto il potere», poi «(quel corno) verrà sterminato e distrutto completamente» (Dn 7,26). Allora «il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno» (Dn 7,27). La visione che ha visto il profeta qui è quindi quella di giudizio escatologico secondo le interpretazioni patristiche (McKay 1999). Si dice che infatti «la corte (κριτήριον) sedette e i libri furono aperti» (Dn 7,10): questa visione potrebbe coincidere con quella descritta nell’Apocalisse.7

Gesù stesso usa il titolo del «Figlio dell’uomo» spesso nel Vangelo secondo Giovanni (13 volte; p.es. Gv 5,27, citato sopra) più che negli altri Vangeli. Nel Libro di Daniele, invece, «uno simile a un figlio d’uomo», che si identifica con «i santi dell’Altissimo», è vinto dal «corno undecimo» una volta (Dn 7,21), ovvero «i santi» saranno dati in mano di questo corno per qualche tempo (Dn 7,25). Ma più tardi «si terrà il giudizio e il potere di questo corno sarà tolto e verrà sterminato e distrutto» (Dn 7,26). Questa descrizione nel Libro di Daniele sarà chiarita dal punto di vista di Gesù crocifisso: anche Gesù stesso patì sulla croce, morì (Gv 19,33), ma poi dal Suo fianco uscì sangue e acqua (Gv 19,34); l’«uno simile a un figlio d’uomo» nel Libro di Daniele invece viene «con le nubi del cielo», ma anche questa descrizione corrisponderà al fatto che, secondo noi, Gesù è risorto sulla croce. Quindi, se potessimo applicare alla figura di Gesù crocifisso «uno simile a un figlio d’uomo», il vegliardo in questo libro sarà senza dubbio Dio Padre.

3 Clemente Alessandrino, fr.24 e i padri greci

Clemente Alessandrino fa riferimento al profeta Daniele nel frammento 24 che è conservato nella traduzione latina di Cassiodoro: «dicit Daniel de populo “et venit in conspectu domini”, non hoc dicit, quoniam vidit deum; hoc enim impossibile est, ut quisque non mundo corde videat deum; sed hoc dicit, quia cuncta quaecumque faciebat populus, in conspectu erant dei et manifesta illi constabant; hoc est, quoniam nihil absconditum est a domino» (Stählin-Früchtel-Treu 21970: 209,3 e seguenti).8 È certo che la citazione dal Libro di Daniele qui si basa sul settimo capitolo di questo libro profetico (Dn 7,13-14). Clemente invece modifica qui il testo originale, cambiando “uno simile a un figlio d’uomo” in “popolo”, “il vegliardo”, invece, in “Signore”, poi in “Dio”. Sarà significativo che Clemente manifesta qui il punto di vista della “personalità corporea”. Se applichiamo questo punto di vista di Clemente anche alla spiegazione dell’«uno simile a un figlio d’uomo» che si realizzerà nel «Figlio d’uomo», Gesù stesso, l’«uno simile a un figlio d’uomo» sarà la comunità dei dodici discepoli e apostoli, cioè la Chiesa appunto nata: la Chiesa infatti si identifica con il corpo di Cristo risorto (Ef 1,23; Rm 12,4; 1Cor 12,12). Allora potremo interpretare l’«uomo coronato» nell’icona di Pentecoste ancora come Dio Padre.

Fra i primi padri ecclesiastici, Ippolito ha identificato “il vegliardo” come Dio Padre.9 Giovanni Crisostomo invece, nell’orazione In Danielem (PG 56, 230-233), identificando “il vegliardo” soltanto come “Dio” (PG 56,231D: Θεός), interpreta l’incontro di «uno simile a un figlio d’uomo» e il vegliardo come una relazione stretta tra Cristo e il Padre. Secondo Crisostomo, i doni dati a colui che è “uno simile a un Figlio di uomo” significano da una parte la forza di fare giudizio (McKay 1999: 150), d’altra parte “l’uguaglianza di stima” (PG 56,232D: ὁμοτιμία) del Figlio al Padre Dio.

4 La comunità sospesa sulla croce

Quindi, se ipotizziamo propriamente che l’anziano nell’icona rappresenti il vegliardo nel Libro di Daniele, potremmo supporre che l’icona della Pentecoste rappresenti la scena del giudizio finale, in cui la comunità cristiana, cioè il corpo risorto di Gesù Cristo stesso si incontra con Dio Padre, e riceve da Lui «un potere eterno che non finirà mai» (Dn 7,14). Potremmo vedere così Gesù risorto sulla croce dietro all’icona di Pentecoste.

Clemente Alessandrino invece manifesta questo stato della comunità cristiana, dicendo nel libro quinto degli Stromati: «(Il Logos) non senza quell’“albero” è giunto a nostra conoscenza (γνῶσις); la nostra vita fu sospesa (ἐκρεμάσθη) perché avessimo fede» (Str. 5,11,72,3).10 In questo brano il verbo κρεμάννυσθαι (o κρέμασθαι) deriva senz’altro dall’immagine di Gesù crocifisso. Nel libro quarto degli Stromati invece, citando San Paolo che si vanta perché «il mondo è crocifisso per me ed io lo sono per il mondo» (Gal 6,14), lo interpreta nel senso che l’apostolo, pur essendo ancora nella carne, “vive ormai come cittadino del cielo” (Str 4,3,12,6). Quindi per Clemente, la nostra vita sulla terra è già trasportata sulla croce, e viviamo, nella fede che Gesù crocifisso vive, già nella vita risuscitata sulla croce. Clemente infatti dichiara questa visione anche nel Protrettico: «Egli (i.e. Gesù) crocifisse la morte in vita, e appese l’uomo al cielo, dopo averlo strappato alla rovina, trapiantando la corruzione nell’immortalità e trasformando la terra in cielo» (Prot 11.114.4).11 Secondo Clemente quindi la nostra vita sulla terra è già quella che si svolge in cielo, nel corpo di Cristo risorto sulla croce.

5 Giovanni 1,18

Abbiamo già detto che il Vangelo secondo Giovanni fin dall’inizio è scritto dal punto di vista di Gesù risorto sulla croce. Vorremmo dire che questo punto di vista sarà sostenuto dalla lettura del passo Gv 1,18 (μονογενὴς θεὸς ὁ ὢν εἰς τὸν κόλπον τοῦ πατρὸς ἐκεῖνος ἐξηγήσατο). Mi sembra che il significato di questo passo biblico non sia come si legge secondo la traduzione odierna,12 ma piuttosto: “l’Unigenito Dio, colui che è ὁ ὤν, ci fece entrare ἐξηγήσατο dentro il seno del Padre εἰς τὸν κόλπον τοῦ πατρὸς sotto quella forma ἐκεῖνος (i.e. di crocifissione)”. Vorremmo trovare nell’aggettivo indicativo ἐκεῖνος la funzione significante la croce. Proviamo la nostra ipotesi sulla base dell’evangelista Giovanni e di Clemente.

Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù dice: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che “Io sono”» (Gv 8,28). In questo passo il verbo “innalzare” significa la crocifissione di Gesù; la frase «Io sono» invece senz’altro riferirà al nome di Dio rivelato a Mosè (Es 3,14: «Io sono colui che sono»). Generalmente è considerato che il nome di Cristo secondo l’evangelista Giovanni sia “l’Unigenito di Dio” (Frati predicatori 2009: 2524). Ma potremmo dire che sia piuttosto «Io sono» (Simonetti 1994: 301).13 Sarà chiarito che la nostra ipotesi è vera anche da Gv 12,28: «“Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”». La risposta di Dio in questo passo indica prima di tutto la rivelazione del nome di Dio a Mosè (Es 3,14) e indicherà poi quella per mezzo di Gesù crocifisso (Gv 19,34) sulla base del passo citato sopra (Gv 8,28).

D’altra parte Gesù manifesta: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Questo passo significa l’onnipotenza di Gesù risorto sulla croce; la Cui onnipotenza si estende sopra tutti gli uomini, senza riguardo all’epoca: cioè, anche Mosè sarà attirato a Gesù, a «Colui che è», risorto sulla croce.

Sullo sfondo del contesto di Gv 1,17-18 si trova invece chiaramente la figura di Mosè: «Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto». La frase “nessuno ha mai visto Dio” si riferirà probabilmente al fatto che Mosè desiderava vedere Dio.14 Quindi, se leggiamo «l’Unigenito Dio, colui che è, ci fece entrare dentro il seno del Padre sotto quella forma di crocifissione», potremmo supporre che questo passo si riferisca all’avanzamento di Mosè «nella tenebra (εἰς τὸν γνόφον) dove era Dio» (Es 20,21): era veramente Gesù risorto sulla croce, “Colui che è”, che attirava Mosè verso il seno del Padre.

6 Il «seno» del Padre

Mosè, nel libro dell’Esodo, riuscì una prima volta a ricevere le due tavole della Testimonianza (Es 31,18; 32,15). A causa dell’inobbedienza del popolo invece, cioè per causa del “vitello d’oro” prodotto dal popolo (Es 32), Mosè scagliò dalle mani le tavole, spezzandole ai piedi della montagna (Es 32,19). L’alleanza tra Dio e il popolo dovette quindi essere rinnovata ancora una volta (Es 34). La seconda e ultima volta, quando scese dal monte Sinai, le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle sue mani (Es 34,29). In questo momento la pelle del suo viso era diventata raggiante (Es 34,29; 34,35: δεδόξασται; Es 34,30: δεδοξασμένη ἦν). Ma questa volta Mosè, costretto ad entrare «nella tenebra» (Es 20,21), non poté vedere il volto di Dio, nonostante la sua richiesta (Es 33,18: Δεῖξόν μοι τὴν σεαυτοῦ δόξαν), perché Dio dice: “nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20).

Secondo Clemente, la «tenebra» (γνόφος) significa “l’incredulità e l’ignoranza dei più”.15 Nell’interpretazione del Vangelo secondo Giovanni invece Clemente spiega che il seno del Padre corrisponde all’invisibile e ineffabile.16 Secondo Clemente inoltre “entrare nelle tenebre” significa “entrare nella meditazione impenetrabile e senza luce intorno all’essere”.17 Secondo noi invece, era Gesù risorto sulla croce che attirava Mosè verso il seno del Padre. Il “seno del Padre”, l’invisibile e ineffabile, potrebbe quindi coincidere con la tenebra, cioè “l’incredulità e l’ignoranza dei più” in cui Mosè «è costretto ad entrare», nella meditazione impenetrabile e senza luce intorno all’essere, cioè intorno all’intenzione di Dio.

7 L’“epektasis” di di Nissa

Gregorio di Nissa invece sviluppa il misticismo delle “tenebre” nel libro secondo della Vita di Mosè sulla base di Gv 1,18.18

Il testo biblico letto da Gregorio (ὁ μονογενὴς θεός, ὁ ὢν ἐν τοῖς κόλποις τοῦ πατρὸς) si differenzia dal nostro (Mann 2003: 404): mi sembra che Gregorio quindi abbia potuto sviluppare di più la contemplazione sulla teologia di incarnazione. Secondo Gregorio invece Mosè “va sempre più addentro” nelle tenebre. Questo dinamismo è nominato “l’epektasis” dal cardinale Daniélou (Mateo-Seco – Maspero 2006: 243-247). Se adottiamo la nostra lettura di Gv 1,18, sarà più comprensibile non soltanto il dinamismo di Gregorio, ma anche la peregrinazione spirituale di Mosè.

8 La Pentecoste

Ritorniamo qui al testo del capitolo secondo degli Atti degli Apostoli (At 2,1-4).19 Benché la scena della discesa dello Spirito Santo sia dipinta nell’icona di Pentecoste, non si trova qui nessuna descrizione del “vegliardo”, neanche la nota del “buio”. Il pittore dell’icona quindi ha inserito questi elementi.

La figura di Gesù risorto sulla croce invece sarà valido anche qui a chiarire l’iconologia della Pentecoste. Poiché Gesù sulla croce ha manifestato che il Suo corpo è veramente risorto per lo zampillo dello Spirito Santo dal Suo fianco, la comunità nuova, cioè il corpo di Cristo risorto, si può dipingere nella stessa composizione. Gesù risorto è onnipotente escatologicamente, il pittore dell’icona della Pentecoste quindi deve esprimere qui la visione escatologica. Aggiungendo gli elementi del Libro profetico di Daniele, il pittore così rappresenta il vegliardo del Libro di Daniele come Dio Padre, mentre vi dipinge il buio, perché la scena del libro profetico si sviluppa “nelle visioni notturne” (Dn 7,13). Ma potremmo considerare qui l’esperienza di Mosè insieme: il vegliardo corrisponde al Padre Dio che Mosè desiderava vedere, il buio nel quale Mosè si dovette immergere invece significa il seno del Padre Dio.

9 La “giustizia”

Come abbiamo già detto, Mosè, quando scese dal monte Sinai, portava le due tavole della Testimonianza nelle sue mani (Es 34,29). In questo momento la pelle del suo viso era diventata raggiante (Es 34,29; 34,35; 34,30). Potremmo considerare questo raggio di Mosè la gloria (δόξα) di Dio, la quale Mosè stesso Gli richiese precedentemente (Es 33,18: “Mostrami la tua gloria δόξα!). Non poté vedere la gloria di Dio Mosè stesso (Es 33,20), ma potremmo dire che per tramite di Mosè il popolo ha potuto vederla: il popolo è divenuto “testimonianza” della gloria di Dio, mentre Mosè non soltanto è riuscito ricevere le tavole della Testimonianza, ma anche è divenuto “mediatore” tra il popolo e Dio.

Mi sembra che questo raggio di Mosè, ovvero la gloria di Dio stesso corrisponde appunto al sangue e acqua sgorgato dal fianco di Gesù sulla croce, perché Gesù è glorificato (δοξασθῇ) sulla croce (Gv 12,23; cfr. Gv 7,39).

Quindi, anche lo Spirito Santo che discese sugli apostoli (At 2,3-4) corrisponderà nello stesso modo a quel raggio di Mosè, ovvero lo zampillo di sangue e acqua di Gesù sulla croce, cioè la gloria di Dio: questo Spirito che fece gli apostoli parlare in altre lingue significa la vita eterna e nuova, data dal Padre Dio. Quando potremmo trovare nell’icona della Pentecoste il compimento del giudizio descritto nel Libro di Daniele, la «giustizia» resa a «uno simile a un figlio dell’uomo» ovvero «ai santi dell’Altissimo» potrebbe coincidere con lo Spirito Santo. La «giustizia» (Dn 7,22) appare κρίσις nella traduzione di LXX. Nel testo originale di Dn 7,22 invece compare il vocabolo aramaico «dīn»; secondo il Dizionario dell’Anchor Bible: “nell’Antico Testamento la radice aramaica “dyn” e l’ebraica “špṭ” sono usate in parallelo in modo che suggeriscano affinità in significato”.20 Mi sembra importante che quando la radice špṭ si usa specialmente in relazione tra due persone, nella frase di “bên … ûbên …”, si riferisce generalmente alla ristaurazione di šalôm (“pace”) che ha prevalso sul precedente conflitto o disputa (Mafico 1992: 1105). La fonte di questa spiegazione può risalire a Gen 16,5 (“Il Signore sia giudice tra me e te!”), in cui nel testo originale ebraico si usa l’imperfetto del verbo špṭ (“yišpôṭ”), nella traduzione greca invece si usa l’imperativo del verbo κρίνειν (κρίναι). Vorremmo tradurlo quindi: “Ricostruisca la pace il Signore tra me e te!”. Anche in Dn 7,22 si usa il vocabolo κρίσις nella traduzione di LXX il quale deriva dalla stessa radice con il verbo κρίνειν, vorremmo concludere che la “crisi” significa nella tradizione bizantina “la giustizia”, ovvero la relazione che si trova fra il Padre e il Figlio l’Unigenito in principio (Gv 1,1). Lo Spirito Santo dunque è il riconciliatore della relazione rotta tra Dio Padre e gli uomini.

10 Il “mondo”

Potremmo quindi dire che Cristo ha ricostruito la relazione originale e pacifica tra Dio Padre e gli uomini per mezzo della croce. Questa manifestazione è compiuta quando Cristo è risorto sulla croce: Gesù sulla croce infatti, con lo zampillo di sangue e acqua sgorgata dal Suo fianco, vinse la morte (Gv 12,31-32). Secondo la nostra lettura di Gv 1,18, dentro la figura di Gesù crocifisso si trova Dio Padre nascosto, nel Cui seno Gesù risorto sulla croce ci fece entrare. Potremmo vedere qui la relazione immediata tra il Padre e lo Spirito Santo per tramite dell’Unigenito Figlio, Gesù Cristo. Vorrei porre l’attenzione anche sul fatto che nella liturgia bizantina la celebrazione di Pentecoste occupa due giorni consecutivi: ad esempio, secondo il calendario della comunità greco-cattolica ungherese, la domenica celebriamo la discesa dello Spirito Santo e il lunedì successivo la Trinità santissima (Hajdúdorogi Egyházmegye 2009: 455-475).

Ora vorremmo chiederci: perché in questa icona si descrive “il mondo” in colore nero? Nel corpo di Cristo crocifisso mi sembra che non si trovi nessuno spazio per il mondo. Secondo Clemente infatti, sia il seno del Padre sia Dio stesso è invisibile e ineffabile. Potremmo presumere che nell’intimo di Gesù crocifisso, al di là della ferita del Suo fianco si trovi il Padre che invia lo Spirito di nascosto: la discesa dello Spirito è visibile nell’esterno, Colui che invia lo Spirito, il Padre, invece si trova nell’interno. Mi sembra che questa situazione del seno del Padre sia espressa nel colore nero nell’icona della Pentecoste.

Oppure, potremmo richiamare qui alla mente che secondo Clemente «la “tenebra” è in realtà l’incredulità e l’ignoranza dei più» (Str 5,12,78,3). Mosè, cercando di ricevere da Dio la legge e i comandamenti (Es 24,12), entrò in mezzo alle tenebre (Es 24,18). Il popolo invece si dedicava a fabbricare il vitello d’oro (Es 32). Le leggi che Mosè ricevette infine da Dio conservano traccia di questo processo. In questo senso le due tavole della legge si potrebbero dire “la testimonianza”. L’incredulità ovvero l’inobbedienza di popolo non lascia più alcuna traccia nelle tavole, cioè è già divenuta “nulla”; Mosè invece in realtà dovette fare esperienza di queste “tenebre”.

Anche Gesù sulla croce è trafitto al Suo fianco da uno dei soldati con una lancia (Gv 19,34): questa offesa ricevuta dal “mondo” può essere considerata come una passione, ma allo stesso tempo questa offesa ha provocato lo zampillo dello Spirito Santo, la testimonianza della nascita alla vita eterna. Con questa vita potremmo dire che la reminiscenza della passione di Gesù è immediatamente incorporata nel Suo interno, cioè nel “seno” del Padre.

Nello stesso modo «uno simile a un figlio d’uomo» ovvero «i santi dell’Altissimo» devono “essere vinti” (Dn 7,21), e “essere dati” nella mano della quarta bestia “per un tempo, più tempi e la metà di un tempo” (Dn 7,25). Ma poi si terrà il giudizio, sarà tolto il potere alla bestia (Dn 7,26), “finché venne il vegliardo e fu resa giustizia ai santi dell’Altissimo” (Dn 7,22). Quando questo processo è compiuto, il ricordo della passione diverrà “nulla”; mi sembra che il pittore dell’icona abbia rappresentato questa esperienza della passione del popolo, di Mosè e di Cristo, nel colore “nero”. Benché Dio Padre invece, colui che è, rimane invisibile oltre queste tenebre che si trovano fino a Lui, potremmo affermare che Dio stesso si ricorda sicuramente di ciascun nome dei membri di questa comunità.

Conclusione

Nel capitolo decimo del Libro di Daniele “uno con sembianze di uomo” che coincide con l’«uno simile a un figlio d’uomo» “mi toccò (i.e. toccò Daniele), mi rese le forze e mi disse: «Non temere, uomo prediletto, pace a te (εἰρήνη σοι), riprendi forza, rinfrancati»” (Dn 10,18-19). Questo passo ci ricorda appunto le parole che ha detto Cristo, il Figlio dell’uomo, dopo la risurrezione (Gv 20,19; 20,21; 20,26: εἰρήνη ὑμῖν). Vorremmo dire che Gesù risorto sulla croce già coincide c