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Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica

Ne clerici cum feminis commorentur.
La crisi della disciplina e la disciplina come risposta alla crisi

Sincero Mantelli

Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna

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L’ignoto vescovo autore di De singularitate clericorum (d’ora in poi Sing.)1 apre la sua lunga epistola denunciando una grave crisi all’interno della comunità. Alcuni clerici, contrariamente a quanto sarebbe stato loro dovere, danno scandalo (ignominia) coabitando (commoratio) con donne alla maniera di molti (vulgariter).2

Il rimprovero che il vescovo rivolge ai ‘chierici conviventi’ muove non dalla sua personale iniziativa ma da una rivelazione del Signore, che lo ha incaricato di redarguire aspramente chi si trovasse in tale situazione. Alla crisi interna, che minaccia la comunità con tale scandalo, pone rimedio il Signore stesso con una sua iniziativa tesa a riportare i rei all’insegnamento della rivelazione storica contenuta nella Scrittura. Perché qualche detrattore non accusi il vescovo di essere un visionario («ne me somniatorem inrideat quisquam»), egli intende mostrare come il rimprovero che rivolge su incarico del Signore non faccia altro che riportare alla solidità dell’insegnamento ricevuto nelle Scritture («scripturarum addimus firmitatem»). La rivelazione privata in accordo con la sacra Scrittura possiede l’autorità per intervenire a sanare la grave crisi che sta attraversando la comunità («per revelationem Dominum iubere, quod litteris cognoscitur ante iussisse»). Il celibato dei chierici è considerato una realtà assodata dall’autore del testo: si tratta realmente di una prassi acclimatata nella comunità a cui si rivolge? Si rivolge alla grande chiesa o a una comunità scismatica, come hanno argomentato alcuni studiosi? Se la risposta a questi interrogativi ci rimanda alla difficile localizzazione spazio-temporale e attribuzione dello scritto,3 il contenuto del testo che stiamo analizzando ci offre la riflessione di un autore certamente rigorista che, vedendo una falla interna alla chiesa, vuole ristabilire quanto il Signore ha voluto per essa.

L’autore – siamo al paragrafo 2 – intende mettere in guardia coloro che si propongono di custodire il loro proposito di castità. Molti, infatti, presumendo di essere forti e di poter vivere insieme alle donne, sono caduti in rovina. I termini praecipitia ruinarum e exitia mettono in luce una situazione di distruzione per il chierico e di scandalo per la comunità che si configura come una vera e propria crisi. Evitare l’occasione – tema che diventerà classico nella spiritualità cristiana – è il rimedio proposto da Sing. al peccato, che trova terreno fertile nella presunzione di chi pensa di poter convivere con le donne senza soccombere.

Dal terzo al settimo paragrafo si approfondisce questo concetto affermando che è sapiente e prudente temere, piuttosto che aver fiducia nelle proprie capacità di reggere l’assalto tentatore. La donna, poi, appare come la ‘sineddoche storica’ della tentazione: il peccato è entrato nel mondo attraverso Eva e la donna costituisce l’emblema del pericolo spirituale per l’uomo. Anche se alla fine la salvezza verrà attraverso una donna, Maria, concretamente chi si impegna a una vita celibataria deve fuggirne la perniciosa vicinanza. Anche la vergine che abita con il chierico, introdotta nella casa come aiuto materiale e spirituale, diventata sicuramente un pericolo: la troppa fiducia in se stessi e la poca considerazione dell’astuzia del tentatore porteranno entrambi gli asceti alla rovina. Questo ragionamento improntato a saggezza vuole custodire il valore del sacro celibato su una base antropologica, cioè con una chiara visione dell’uomo nella storia della salvezza, e non storicizzando il precetto su base culturale o funzionale.

Verso la fine dello stesso paragrafo l’argomentazione entra nel vivo e l’autore comincia a motivare la scelta solitaria del chierico attraverso il testo paolino di 1 Cor 7 (vv. 32-33). Il chierico non deve essere distratto da attività terrene se vuole contemplare già in terra le realtà celesti: somma occupazione è quella legata alla vita matrimoniale, ma maggiore distrazione e perniciosa per la salute eterna è l’alleanza illecita con una concubina.

Il paragrafo 7 che conclude la positio si apre con una domanda di fondo: «A che scopo chi non vuole sposarsi porta con sé una donna?». Si tratta di smascherare l’incoerenza e il sotterfugio da cui è venuta questa grave crisi del celibato e che ha gettato scandalo nella comunità. La soluzione alla crisi non è l’accoglienza della situazione di fatto o la diminuzione del valore ricevuto dagli apostoli e assunto dai chierici, bensì il riportare alla sua limpidezza l’ideale originario.

Nei paragrafi seguenti, che occupano gran parte dell’opera, infatti, si confutano le teorie dei chierici concubinari e si chiarisce il motivo del celibato. Ci soffermiamo su alcuni passaggi particolarmente esemplificativi della modalità argomentativa del nostro anonimo scrittore.

1. Piacere a Dio e non dare scandalo al fratello

Anzitutto l’autore cerca di far coesistere due argomenti contrastanti: la necessità di piacere a Dio e non agli uomini e l’obbligo di essere di buon esempio e di non scandalizzare il prossimo (§ 8). Particolarmente importante, dopo avere custodito i precetti di Dio in una buona coscienza, è offrire una testimonianza specchiata ai fratelli e anche ai pagani. Egli si preoccupa che tutti, ma soprattutto i chierici, attirino l’attenzione dei pagani per la loro virtù: «Se questo si addice anche ai laici, e cioè di non dare occasione ai pagani (extraneis) di oltraggiare la fede né ai fratelli di incorrere nella fornicazione, a maggior ragione sono tenuti a questo i chierici, che per l’oltraggio della fede o la perdizione dei fratelli subiranno il doppio delle pene. E non avranno nessun sollievo affatto al momento del giudizio del Signore coloro che hanno dato occasione di peccare ai pagani (alienigenis) e ai fratelli». Questo passo mette in luce l’importanza della testimonianza cristiana e particolarmente delle sue guide (clerici) di fronte ai pagani, che sarebbero spettatori e giudici della vita dei cristiani anche in relazione al tema della continenza sessuale.

Quindi l’autore ritorna (§§ 9-10) sul motivo dominante del testo, ossia quello di non presumere delle proprie forze e non cercare sfide superiori a quella che già pone all’uomo la scelta di una vita continente. La donna, infatti, è una grande tentazione e l’averne una vicina e a portata di mano rende quasi impossibile la virtù. Vi è un passaggio molto plastico (§ 10) – in cui fra l’altro si evince che il ruolo delle virgines subintroductae era principalmente quello di essere delle governanti – che evidenzia il rischio quotidiano cui si espone un celibe che convive con una vergine: «Quando nelle faccende domestiche ora scopre le braccia e le gambe mentre tesse la lana, ora essendo accaldata lava le sue membra, ora affaticata si agita o talvolta si dà al riso, ora esibisce le sue attrattive; e che cosa è più velenoso di tutto che l’essere dilettato dal suono della cetra o dal canto? È più tollerabile ascoltare il sibilo di un serpente che il canto di costei». Allo stesso tempo il chierico può divenire occasione di peccato per la sua vergine, che può rivolgergli le sue attenzioni (§ 11).

2. Composizione anticipata della crisi: la sacra liturgia

Nella quarta obiezione, che occupa i paragrafi 13-16, ci imbattiamo in una considerazione che avrà grande importanza per la storia del celibato ecclesiastico, in particolare durante la riforma gregoriana, quando il concubinato dei chierici, detto anche nicolaismo, sarà considerato non solo immorale, ma, cosa ben più grave, ascrivibile all’eresia. A ben vedere, nel nostro testo ciò che è tacciato di eresia è la mancanza di equilibrio tra due estremi opposti:4 tra chi dice che le donne e gli uomini non devono essere insieme nemmeno per il culto e chi osa, al contrario, prendere in casa una vergine dopo essersi votato al celibato. Il testo parla chiaramente di equilibrio (§ 13), che deve escludere questi eccessi: «Non sia mai che le donne siano escluse dappertutto. Hanno il loro posto accanto al marito, ai figli, fratelli, genitori, servi, e soltanto nella casa della preghiera possono stare vicine a tutti i chierici. Non conviene che stiano con altri in una dimora senza che ci siano dei parenti. Questa è la bilancia che sta in equilibrio (haec est libra quae stat)». Segue un’analisi attenta che potremmo definire di ‘psicologia della tentazione’: da una parte si nota che la frequentazione quotidiana è fonte di seduzione, specialmente i momenti di pace, in cui ci si rilassa dai pensieri della vita terrena (§ 14), e dall’altra, in maniera che sfiora la naïveté, si ritiene immune dal pericolo la vicinanza durante le celebrazioni liturgiche.5 La nota psicologica non è priva di interesse: mentre il riposo attiva l’immaginazione e porta a nuovi desideri sensoriali, la concentrazione in una attività che richiede molta attenzione porta a essere selettivi e a sospendere temporaneamente i desideri carnali. Se questo è vero per le attività militari, quelle forensi, di studio e di commercio, a maggior ragione per «il sacro terrore e tremore», che «penetra in tutti gli animi [durante i sacri riti], certamente viene sepolta la natura carnale». La liturgia, secondo il vescovo, è il momento in cui la differenza sessuale viene sospesa, perché si sta compiendo un’attività degna degli angeli: «Tra le attività materiali molti trascurano il piacere del corpo […], quanto più quando non si svolge un’attività carnale degli uomini, ma un’attività spirituale angelica (non carnale opus hominum, sed spiritale geritur angelorum)?». Durante i sacri misteri la differenza sessuale è sospesa e le persone assumono uno status simile a quello degli angeli, al di là dell’età o della dignità, ma regna una somma uguaglianza: «nulla sexus alicuius permittitur considerari distantia». La condizione angelica che caratterizza o dovrebbe caratterizzare i fedeli durante le sacre liturgie («ipsa coniugalitas ignoretur») diventa una condizione permanente nella vita del chierico. Il motivo di questa sospensione è l’uguaglianza di natura per cui – secondo la citazione paolina di Col 3, 11 – non vi è più né maschio né femmina e la motivazione profonda di questa condizione poggia sull’unico battesimo che ci rende figli: «Certamente è cosa onorevole celebrare con le donne tali riunioni, in cui non c’è alcuna differenza di natura (nulla discretio est qualitatis), in cui soltanto è lecito che tutti siano uguali senza alcuna differenza, così che nello stesso battesimo nessuno si vergogna della nudità, là dove si rinnova l’innocenza (infantia) di Adamo ed Eva e non ci si toglie ma piuttosto si riceve la tunica (nec exponit, sed potius accipit tunicam)». Il battesimo, cioè l’essere generati come figli di Dio – idea suggerita fra l’altro anche dal termine infantia –, rende uguali in dignità e sospende i desideri sessuali, almeno temporaneamente, in coloro che celebrano il culto.6

Possiamo a questo punto anticipare l’argomentazione del paragrafo 40, in cui si vede che questa condizione momentanea nei fedeli deve diventare permanente nei chierici. L’innocenza protologica, che i fedeli ritrovano grazie al battesimo nelle celebrazioni liturgiche, deve divenire un habitus permanente nei celibi, che anticipano così nel tempo la condizione angelica dei risorti secondo il passo di Lc 20,35-36. Questa riflessione è introdotta da due immagini che ritraggono il celibato: la singularitas è come un coltello che castra la natura umana («splendido singularitatis cultro castratur humana natura») e introduce gli eunuchi al banchetto nuziale. Con riferimento a Mt 19,12 («Vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli») l’autore forza in senso ossimorico l’immagine dell’εὐνουχία per il regno di Dio associandola alla sponsalità. È preparato un premio nuziale nel regno di Dio per chi rinuncia al coniuge sulla terra: si tratta di un riferimento escatologico – pensiamo alla Gerusalemme celeste pronta come sposa adorna per lo sposo di Ap 21,2 – nel segno dell’anello nuziale, come premio promesso alla singularitas che conduce alla santità («sanctitas promisit anuli sui nuptiale signaculum»). Il celibato diventa la via terrena per anticipare, come segno e richiamo a tutti i fedeli, il destino finale dei risorti, che sarà simile a quello degli angeli, i quali non hanno moglie né marito, ma unificano la loro esistenza nella lode perenne di Dio. Afferma il testo a proposito dell’effetto del casto celibato: «Così che sia l’uomo che la donna sembrino avere dei rapporti fittizi (in conversatione mentiri), dal momento che si astengono dai rapporti sessuali reciproci; oppure rendendoli né maschio né femmina, si gloria di conferire a entrambi un terzo genere (neutrum faciens de duobus tertiam formam conferre gloriatur ambobus), così che prima della risurrezione si impari a contemplare l’immagine della risurrezione come gli angeli». Questo tertium genus permette di vedere in anticipo la condizione dei risorti: non si tratta di un’umanità asessuata, ma trasfigurata e portata anticipatamente a compimento, come l’umanità del Salvatore resa luminosa sul Tabor per preannunciare la gloria che avrebbe seguito l’oscurità del Calvario.

Questo concetto, oltre che in Sing,7 appare anche nel De bono pudicitiae attribuito a Cipriano ma in realtà di Novaziano,8 con riferimento rispettivamente alla sacra virginitas come a un neutrum genus e un neuter sexus.9 Tertulliano aveva anticipato questo concetto parlando degli eunuchi come tertium genus (Ad nationes 1, 20, 4). Anzitutto questa idea si riferisce a Dio, che, diversamente dagli dèi antropomorfi pagani, non è né maschio né femmina, cioè neutrum genus o neuter sexus (cfr. Lactantius, De ira 15, 9; Arnobius, Adversus gentes 3, 8). Da una parte si descrive la condizione di alcuni esseri umani, dall’altra una qualità della natura divina. A ben vedere questi due aspetti non sono separabili. Nel testo pseudociprianeo l’espressione neutrum genus rivela una qualità sovrumana della verginità che la accomuna alla divinità e si lega ad altri epiteti come perseverans infantia e vita angelica. A ciò si connette una totale indifferenza riguardo alla propagazione della specie (funus humanae substantiae: De bono pudicitiae 7 e Sing. 39). Questa riflessione si trova confermata in Cipriano e Ambrogio e considera la verginità come la realizzazione anticipata dello stato della risurrezione (Cyprianus, De habitu virginum 22; Ambrosius, De virginitate 6; cfr. Tertullianus, De cultu feminarum 1, 2, 43). In questo modo l’idealistica sociologia prospettata da Gal 3,28 («Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù») e Col 3,11 («Qui non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti») può trovare una realizzazione nella verginità e nel casto celibato.

In che cosa consista questo carattere ‘neutro’10 della verginità è chiarito dalla seconda parte di Gal 3,28 e Col 3,11 in cui si parla di una intima e integrale unità in Cristo (cfr. Hilarius, Tractatus mysteriorum 5, 6) come risultato della nostra adozione a figli di Dio (Gal 3,26) attraverso il battesimo, che conduce al conseguimento della promessa espressa in 2 Pt 1,4: «Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, essendo sfuggiti alla corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza».11 In questo modo l’uomo è reso partecipe della natura divina e di conseguenza sfugge alla corruzione cui tutto è soggetto. Ogni uomo con il battesimo può entrare nel genus o nella cognatio che lo associa a Dio (Ambrogio e altri), ma entrare nel neutrum genus è qualcosa di più specifico, ha un significato più ristretto: è per coloro che sono entrati in pienezza nella grazia battesimale e nell’immagine della risurrezione (Cyprianus, De habitu virginum 23, 14; Ambrosius, De institutione virginis 3, 16). Ciò avviene dopo la morte fisica oppure quando si anticipa con il celibato lo stato che seguirà la morte. Nella condizione finale non ci sarà bisogno di propagare la specie, perché non saremo più soggetti alla corruzione. La verginità anticipa in terra questa indifferenza al sesso e alla generazione, che offre una sorta di sopravvivenza attraverso la propria discendenza. L’immortalità, paradossalmente, è raggiunta attraverso una spirituale morte, nascita e matrimonio (cfr. Sing. 40: «anuli sui nuptiale signaculum» e «desponsante circumcisione»).

A riprova di questo si nota alla fine del paragrafo 26 un accenno all’arcaica cristologia angelica attestata ad esempio nel Herm. Mand./Sim./Vis.: «Nobis autem in spiritu et virtute Heliae non alium quam Iohannem solum angelus et Dominus Christus insinuat».12 Il paragrafo si era aperto col ribadire che la temporanea convivenza con donne da parte del Signore, di Elia o dell’apostolo Giovanni non intaccava minimamente la scelta celibataria, ma, piena di austerità («non risus, non iocus dicitur adfuisse»), questa familiarità era dettata unicamente dalla missione assegnata loro da Dio. La scelta celibataria, solitaria, accomuna questi tre personaggi e Cristo è detto ‘angelo’ con riferimento all’umanità portata al suo compimento escatologico già nel tempo della vita terrena, come argomentato a proposito del passo di Lc 20,35-36.

Nel Vangelo di Tommaso si afferma che i vergini entreranno nella stanza nuziale: «Gesù disse: “In molti si affollano davanti alla porta, ma sarà il solitario ad entrare nella camera nuziale”».13 Questa riflessione ci rimanda a Sing. 40 dove si afferma che l’anello nuziale di Cristo verrà dato a chi custodisce il sacro celibato.14

Tornando alla quarta obiezione l’autore conclude (§ 16) invitando a sottomettersi alla giustizia di Dio come servi che ubbidiscono al padrone prima che a se stessi. Considerando che Dio è giusto o ordina le cose in maniera più giusta degli uomini, i chierici non devono temere di riunirsi per le adunanze liturgiche con le donne, mentre devono avere alloggi sempre separati da esse.

Prima di passare oltre l’autore si attarda (§ 17) brevemente a considerare che vi possono essere per il chierico altre occasioni di incontro con le donne in ambienti domestici: in questi casi esorta a tenere un contegno austero e a suscitare in esse un senso di riverenza («severitas non desit, quae sub clerico feminam possit adstringere»).

3. Oltre le ragioni pratiche e i pretesti

Anche le ragioni di opportunità pratica sono respinte recisamente dal vescovo (§ 19): egli ritiene che, anche qualora la donna risultasse più acconcia ai bisogni della casa, non si debbano mai subordinare le esigenze spirituali a quelle materiali. Potremmo dire che anche le circostanze storiche o materiali non possono mai ledere e nemmeno ammortizzare l’esigenza evangelica del celibato. L’argomentazione si fa stringente quando l’autore afferma che i benefici immediati di una coabitazione sono il grimaldello del demonio per far entrare tentazioni e scandali; infatti alla fine non può mai giovare veramente ciò che Dio vieta.

Nella settima obiezione (§ 20) i sostenitori della coabitazione dei chierici con donne si spingono a portare esempi scritturistici quali Elia, gli apostoli e persino san Giovanni, che prese con sé la Madre del Signore. La replica è secca: si invocano esempi sublimi a cui non è lecito paragonarsi e si ammette la possibilità di imitarli come pretesto per portare con sé le donne (§ 21). All’interno di questa argomentazione un passo merita di essere analizzato più attentamente (§ 23): «Non nego che debbano essere seguiti coloro che tutti abbiamo riconosciuto come maestri [si riferisce agli esempi biblici citati sopra], ma io combatto contro coloro che, desiderando distorcere (depravare) i racconti degli uomini virtuosi ai loro mali, ritengono che la Legge è a loro favore, come tutti coloro che si affrettano a perire, così che sotto il pretesto (obtentu) dei santi vogliono celare (esse celata) i propri misfatti e con la scusa dell’imitazione (sub imitatione) dei santi commettono azioni contrarie alle loro». La crisi del celibato non è una critica aperta alla singularitas, cioè allo status monachicus del chierico, ma una modalità surrettizia di mantenere una connivenza con il peccato sub specie virtutis come denota chiaramente il lessico di questo passo. La citazione paolina seguente, infatti, «prodit et pubblicat», cioè fa uscire allo scoperto e rende visibile a tutti l’inganno: l’atteggiamento costante dell’autore è quello di far emergere la realtà, è uno sforzo per rendere manifesto ciò che è celato, secondo il precetto evangelico (Lc 12,2).15

Degno di nota è, ancora una volta, il senso di misura che si trova in quest’opera ispirata a rigore evangelico e morale: dopo aver smascherato l’errore di chi invoca modelli biblici per convivere con donne, afferma che questi esempi sono stati offerti come concessione, per combattere un errore di segno opposto. La severità con cui si combattono i chierici concubinari non deve sfociare nell’eccessivo rigore, questa volta erroneo, di chi ritiene debbano essere condannate totalmente le creature del Signore. Si tratta di quegli eretici, previsti anticipatamente dalla sapienza divina nel corpo scritturistico, che «eliminano le nozze e tentano di separare coloro che Dio ha unito, contro il principio della natura e contro il Vangelo». In questo modo l’autore ci fa sapere che il suo rigorismo non sfocia nell’estremismo degli encratiti, marcioniti, montanisti, novaziani, manichei e priscillianisti che negavano la liceità del matrimonio. Non si evince dal testo l’opposizione a una setta in particolare, ma si vuole evitare il ripudio delle nozze che sfocia in una visione negativa della realtà creata da Dio («ne nimio rigore in totum Domini fabrica damnetur», § 25).16

4. Caritas o infanda familiaritas?

All’obiezione successiva, secondo cui la convivenza sarebbe motivata dalla carità (§ 29), il vescovo risponde che questo pretesto non può dare fondamento all’infanda familiaritas dal momento che non si può separare la carità dalla castità. Due precetti del Signore non possono essere in contraddizione: in generale possiamo dire che l’autore mostra come vi siano un ordine e una coerenza che legano i precetti divini e che non è possibile contrapporli, o sceglierne uno a scapito dell’altro.

Al paragrafo 33, dopo aver notato la fedeltà alla continenza di alcuni coniugi che si impegnano nel celibato in contrasto alla subdola lascivia dei chierici concubinari, nota che alcuni, per evitare di lottare contro gli assalti della carne, si evirano. Rimanda la discussione sulla liceità di questo gesto, ma l’esempio gli serve per mettere in risalto la folle superbia di coloro che pretendono di custodire la verginità avendo una donna a portata di mano. A questo punto l’autore fa riferimento a esempi di celibato al di fuori della chiesa, di modo che i chierici non avvertano con troppo sollievo il fatto di venire giudicati solamente da altri cristiani. Questo dice che la crisi non è solamente interna, ma anche i giudei e i pagani sono spettatori e giudici dei chierici concubinari. Il popolo della Legge pratica la dolorosa circoncisione pensando di sottomettersi alla volontà divina e i pagani riferiscono gli usi dei ‘galli’ che volontariamente mutilano se stessi per piacere ai falsi dèi. Pagani e giudei mettono in crisi e giudicano con la loro condotta la scandalosa incapacità dei chierici di vivere la singularitas, che hanno scelta come risposta alla volontà divina.

5. Obbedienza ai precetti divini

Il contraddittorio con i chierici concubinari prosegue e l’autore costantemente smaschera la loro ricerca di un pretesto per tenere con sé delle donne (§ 36: «contradictionum latebras quaerunt, ne umquam feminis careant»). L’ultimo tentativo di giustificazione riprende la sentenza dell’apostolo Paolo: «Chi sei tu per giudicare il servo altrui?» (Rm 14,4). Da qui scaturisce la confutazione conclusiva agli argomenti degli avversari da parte del vescovo. Alla citazione degli avversari l’autore replica mostrando il contesto dell’affermazione paolina: l’apostolo, all’interno della disputa sui cibi mondi e immondi, afferma che si deve lasciare libertà di coscienza riguardo ai giorni di astinenza dalla carne e dal vino senza giudicare il fratello. Paolo lascia liberi i fratelli riguardo a ciò cui l’autorità divina non ha posto vincoli e, tuttavia, rimprovera quanti apertamente si oppongono ai precetti divini. A questo proposito l’autore parla chiaramente di legge ecclesiastica (ecclesiasticum ius), di autorità divina (auctoritas divina) e di tribunali ecclesiastici (ecclesiastica tribunalia), che non possono lasciare impunite le trasgressioni della legge ordinaria, secondo la sentenza paolina che invita a separarsi da quanti vivono senza disciplina e non secondo la tradizione (2 Ts 3,6). Il testo non lascia dubbi sul fatto che il vescovo e con lui la sua comunità ecclesiale non possono accettare una ‘morale della situazione’ e che non tutti gli aspetti della vita cristiana si possano storicizzare e reinterpretare alla luce del contesto. Esiste un’autorità divina che ha dato delle leggi sulla base delle quali la chiesa deve esprimere un giudizio: la crisi del celibato ecclesiastico non deve portare a una reinterpretazione della disciplina, bensì a un rinnovamento in base alla volontà immutabile di Dio.

L’ultima sezione del testo, pertanto, è consacrata a un’ampia parenesi in cui vengono ribadite in forma esortativa le evidenze acquisite in precedenza (§§ 37-46). Il primo riferimento è alla persona dell’autore, che parla con la forza dell’autorità e non solo della persuasione («non tantum persuasione sed etiam potestate») e insiste anzitutto sulla forza del carattere episcopale, che rende il suo intervento superiore alle argomentazioni dei chierici. Ma il principio di autorità ecclesiastica si lega ad altre componenti, prima fra tutte la coerenza razionale dei ragionamenti: occorre evitare il modo surrettizio di presentare e giustificare la crisi in atto e andare a evidenze probanti che smascherino i colpevoli («ergo auditiones simplices oboedientia vestra suscipiat et versipellem contradictionum vitate fallaciam»). All’amore per la verità si aggiunge un invito alla prudenza, ovvero alla capacità di trovare mezzi adatti a perseguire il fine. L’impegno assunto di una vita casta si può raggiungere solamente attraverso un’effettiva singularitas ovvero la lontananza dalla tentazione costituita dalla donna.17

Nel motivare ed esortare il vescovo evidenzia come il celibato si leghi al ministero sacerdotale che i chierici sono chiamati a compiere dinanzi a Dio e in favore del popolo cristiano. Il principio guida è molto chiaro: «presso il Signore non rovinino ciò che celebrano o presso il popolo non rendano inefficace ciò che predicano» (§ 38). Questo passo, oltre a darci conferma che i chierici in questione sono dei presbiteri, o per lo meno dei diaconi, motiva il celibato in base all’ufficio sacerdotale e sembra non aver bisogno di argomentare tale affermazione: i compiti sacri richiedono una sacra purezza.

Ciò che segue è una grande esaltazione del celibato e una sua fondazione in chiave antropologica: la scelta celibataria vissuta con integrità è via di perfezione per raggiungere la salvezza e recuperare lo splendore umano offuscato dal peccato. Nei paragrafi 39-40 si ritrovano le espressioni che abbiamo incontrato precedentemente a proposito dell’εὐνουχία come stato che anticipa la vita angelica dei risorti («status qualitatis angelicae»). Di fronte alla crisi del celibato non si vanno a cercare motivi di opportunità culturale o storica, ma si offre un giudizio rinnovato andando all’essenza del celibato, via voluta da Dio perché l’umanità si allontani dal peccato e si incammini verso il destino a cui il Creatore l’ha preordinata.

Il casto celibato è l’unica via alla santificazione di chi non convola a legittime nozze (§ 41): occorre custodirne la buona fama evitando che coabitazioni sospette ne mettano in dubbio l’integrità presso la comunità e si deve prevenire le tentazioni evitando contatti inopportuni che espongano alla caduta. A ben vedere, quest’ultima esortazione, ripetuta in maniera ossessiva nel corso di tutta l’opera, non è dettata semplicemente da spirituale buonsenso ma da una teologia della grazia. Al termine del paragrafo 42 si afferma: «Infatti chiunque osa esercitarsi nella virtù esponendosi a perniciose tentazioni, non ha l’aiuto dello Spirito Santo (nam quicumque perniciosis conatibus audet exercere virtutem, iuvamen non habet Spiritus sancti)». La grazia, cioè la vita di Dio in noi mediante la comunicazione dello Spirito Santo, ordina l’esistenza in modo da piacere a Dio e da ridare alla creatura piena dignità di figlio (§ 43): «Secondo il suo piano, dunque, e non grazie al nostro arbitrio è concessa la potenza dello Spirito Santo e secondo le sue regole le battaglie sono condotte a buon fine».

Questo si traduce alla fine non in vuote proclamazioni di intenti, ma nella richiesta di una disciplina a cui Dio accorda la forza dello Spirito Santo: «Vi prego per quanto posso e anche al di sopra di quanto posso che siano questi gli impegni dei chierici: di mantenere la separazione propria dell’irreprensibile celibato, affinché o essi stessi attraverso le donne o le donne attraverso di loro non siano provocati a compiere atti vergognosi (rogo vos quantum valeo et ultra quam valeo haec sint studia omnium clericorum, ut singularitatis inaccusabilis secessione fungantur, ne aut ipsi per feminas aut feminae per illos ad ignominiosa ludibria provocentur)».

Dentro la crisi di un aspetto sostanziale della vita del chierico e della chiesa l’autore ritiene di poter ridare forza al precetto non solo motivandolo, ma soprattutto ristabilendo l’autorità della prassi, consapevole che è il gesto a trasformare il cuore.

1Ps-Cyprianus, De singularitate clericorum, ed. W. Hartel, in S. Thasci Caecili Cypriani, Opera Omnia, CSEL 3, 3, Geroldi, Vienna 1871; 173-220. Per la traduzione ci siamo serviti, con alcune modifiche, di Il celibato dei chierici, in Pseudo-Cipriano, Trattati, ed. C. Dell’Osso, Città Nuova, Roma 2013, 219-271.

2Sing. § 1. Il testo prende le mosse dalla prassi delle virgines subintroductae, nata dell’esigenza di mutua assistenza fra un chierico votato al celibato e una vergine, anche in vista di dare prova della propria continenza sessuale. Per una comprensione generale di questa forma di vita vd. H. Achelis, Virgines subintroductae, Hinrichs Verlag, Leipzig 1902, che riporta tutti i testi relativi all’istituzione delle virgines subintroductae; H. Dodwell, Dissertationes Cyprianicae, III, E Theatro Sheldoniano, Oxonii 1684; Histoire des Conciles, éd. Ch. – J. Hefele, Letouzey et Ané, Paris 1907, t. I: 201 n. 2; 236 n. 4; 536-539; P. de Labriolle, Le mariage spirituel dans l’antiquité chrétienne, «Revue historique» 137 (1921) 204-225; R. E. Reynolds, Virgines Subintroductae in Celtic Christianity, «Harvard Theological Review» 61 (1968) 547-566; A. Guillaumont, Le nom des «Agapètes», «Vigiliae Christianae» 23 (1969) 30-37; B. Lohse, Askese und Mönchtum in der Antike und in der alten Kirche, R. Oldenbourg, München – Wien 1969, 131-133, 154-157, 161f.

3Autore, cronologia e luogo di composizione rimangono finora un enigma irrisolto. Nel 1903 Adolf von Harnack scalza sulla base della tradizione manoscritta l’attribuzione a Cipriano di Cartagine e riprende il suggerimento di Gustav Morin, che aveva visto in Macrobio, vescovo donatista a Roma negli anni 363-375 un pretendente alla paternità dell’opera. A. von Harnack, Der pseudocyprianische Traktat de singularitate clericorum, ein Werk des donatistischen Bischofs Macrobius in Rom, Hinrichs Verlag, Leipzig 1903 TU 24/3. Poco dopo Friedrich von Blacha contrasta questa ipotesi ritenendo l’opera più antica, degli inizi del III secolo e la attribuisce al presbitero romano Novaziano a motivo della forte impronta rigorista. F. von Blacha, Der pseudocyprianische Traktat “de singularitate clericorum”, ein Werk Novatians, Universität Breslau 1904 Kirchengeschichtliche Abhandlungen 2). Prosper Schepens nel 1922/23 ritiene Sing. opera di un autore cattolico e orienta la sua ipotesi di attribuzione a papa Lucio (253/54). P. Schepens, L’épître De singularitate clericorum du Pseudo-Cyprien, «Recherches de Science Religieuse» 12 (1922) 178-210, 297-327; 13 (1923) 47-65. Hugo Koch, criticando sia Harnack che Blacha, propone un vescovo africano della fine del III secolo sotto l’influsso di Cipriano di Cartagine. H. Koch, Cyprianische Untersuchungen, A. Marcus und E. Weber, Bonn 1926, 426-472. Infine nel 1946 Bengt Melin sostiene che l’autore di Sing. sia il medesimo dell’Ep. 4 pseudo-ciprianea, che J. Duhr identifica con Bachiarius, monaco spagnolo vissuto a Roma fra il 383 e il 400 e autore di alcuni trattatelli. B. Melin, De tractatu De Singularitate Clericorum et epistula quarta pseudocyprianea ab uno atque eodem scriptis, in Studia in Corpus Cyprianeum, Almqvist & Wiksell, Uppsala 1946, 211-232. Queste ipotesi con precisazioni e approfondimenti sono riprese dalla critica successiva. Lo status quaestionis più recente e aggiornato si trova in J. Doignon, § 591.1. Pseudo Cyprien, De singularitate clericorum, in Nouvelle histoire de la littérature latine. Vol. V. Restauration et renouveau. La littérature latine de 284 à 374 après J. C., édd. R. Herzog, P. Lebrecht Schmidt, version française sous la direction de G. Nauroy, Brepols, Turnhout 1993, 559-562. Cfr. S. Gennaro, Introduzione, in Scriptores ‘Illyrici’ minores, Brepols, Turnhout 1972 CCSL 85, XIX-XXII, in cui il curatore del Liber ad Renatum ravvisa in Sing. una fonte di questo scritto, opera di un discepolo di Girolamo, «Asterius episcopus Ansedunensis», vissuto tra IV e V secolo. Cfr. J. Machielsen, Clavis Patristica Pseudepigraphorum Medii Aevi, Brepols, Turnhout 1994 CCSL II/B), n. 3066; H. J. Frede, Kirchenschriftsteller. Verzeichnis und Sigel, Herder, Freiburg 19954 Vetus Latina 1/1), 425 n. 62.

4Già Tertulliano aveva argomentato contro percorsi estremi in ambito coniugale, denunciando sia l’encratismo dei marcioniti sia il lassismo di chi convalida le seconde nozze. Cfr. infra.

5In realtà, al paragrafo 15 si prende in considerazione la possibilità che qualcuno, «peggiore del diavolo, sia colpito dalle fattezze delle donne» durante le liturgie, ma di questa colpa non sarebbe responsabile l’assemblea, «perché si raduna per celebrare le realtà celesti, non quelle terrene». Anche questa remota possibilità rafforza la tesi di fondo del vescovo: se temiamo per la nostra virtù dove il demonio è atterrito dai sacri riti, a maggior ragione dovremo essere prudenti dove il tentatore ha piena facoltà di agire.

6Cfr. E. Cattaneo, La preghiera liturgica come esperienza di uguaglianza tra uomo e donna nello Pseudo-Cipriano De singularitate clericorum, in La preghiera nel tardo antico. Dalle origini ad Agostino, Studia Ephemeridis “Augustinianum”, Roma 1999, 237-248.

7§ 40, 26.

8Novatianus, De bono pudicitiae 7, 9 (ed. G. F. Diercks, Brepols, Turnhout 1972 CCSL 4).

9Per le considerazioni che seguono vd. J. Massingberd Ford, The Neutrum Genus of the Pseudo-Cyprianic Literature, Studia Patristica 6 = TU 81, Akademie-Verlag, Berlin 1962, 58-61.

10Occorre porre attenzione alla traduzione, perché in italiano ‘neutro’ assume il significato di indefinito, mentre qui probabilmente indica una condizione che non è né quella dell’uomo né quella della donna (né l’uno né l’altro) ed è specifica di chi sceglie la verginità perpetua. Si tratta di una considerazione che non va confusa con i gender studies contemporanei, anche se ha un lessico che può avvicinarsi. A riprova di questo sta il fatto che si argomenta contro la convivenza di uomini e donne per custodire la castità: significa che non vengono meno il maschile e il femminile nella scelta verginale.

11Testo importante per i padri latini (Ambrosius, De incarnatione 6, 28 s.; Epistula 29, 3; Expositio Evangelii secundum Lucam 10, 16; Tertullianus, Adversus Marcionem 2, 27, 4; Adversus Hermogenem 42).

12Cfr. J. Daniélou, Origene. Il genio del cristianesimo, Arkeios, Roma 1991, 213 ss.; Idem, Teologia del giudeo-cristianesimo, Edizioni Dehoniane, Bologna 1998, 236-244; S. Mantelli, La visione di Isaia nella controversia origenista. Note sull’In Habacuc di Gerolamo, «Adamantius» 19 (2013) 185-202.

13Si tratta del logion 75: L’Évangile selon Thomas, texte copte établi et traduit par A. Guillaumont, H. – Ch. Puech, G. Quispel, W. Till et Y. ‘Abd al Masih, Presses Universitaires de France, Paris 1959, 40-41. Cfr. Guillaumont, Le nom des « Agapètes », 36 n. 29: « Il est évident que, dans cet écrit, le mot μοναχός n’a pas que ce sens ; celui-ci n’est pas exclusif, comme on le verra ci-dessous, du sens de “unifié”, qui a été maintes fois relevé : voir notamment », M. Harl, A propos des Logia de Jésus. Le sens du mot monaqc, «Revue des études grecques» 73 (1960) 464-474, et A. F. J. Klijn, The ‘single one’ in the Gospel of Thomas, «Journal of biblical Literature» 81 (1962) 271-278».

14Guillaumont, Le nom des « Agapètes », 35-36.

15Al paragrafo 28 l’autore dovrà affrontare anche l’obiezione degli angeli caduti a motivo delle donne. Cfr. Il celibato dei chierici, in Pseudo-Cipriano, Trattati, 252 n. 34.

16Il testo parla di «haeretici qui nuptias auferunt» con espressione vicina all’incipit del De monogamia di Tertulliano (1, 1): «Haeretici nuptias auferunt, psychici ingerunt».

17Questo principio di pratica saggezza è condensato nell’espressione forse proverbiale che si rifà al grande re saggio Salomone (cfr. Sir 11,32): «tenuis quidem scintilla servata maiora conflat incendia». Questa sentenza, che si troverà anche in Dante (Paradiso 1,34: «poca favilla gran fiamma seconda»), rivela l’attenzione ascetica del vescovo, che indica insieme all’ideale del celibato anche la strada per raggiungerlo, cioè la lontananza dalle occasioni di impurità («avertite occasiones impuras»).