Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica
Crisi e legittimità a Roma
Alfredo Valvo
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
L’occasione di trattare il tema della crisi nel periodo tardoantico sembra propizia per riprendere una questione di carattere strettamente istituzionale rimasta aperta: quella della legittimità del potere di Costantino, dei suoi avversari e dei suoi successori. E come altre questioni, in apparenza formali o secondarie, anche quella della legittimità nell’esercizio del potere sembra svanire di fronte alla lotta per il primato ingaggiata fra i tetrarchi, i loro figli e i Cesari designati.1
Dividerò quanto ho da dire in tre parti: la prima verterà sull’analogia fra l’iscrizione dell’arco di Costantino a Roma e i capitoli iniziali delle Res Gestae di Augusto (1 e 2), da cui emergono, ancora al tempo di Costantino, l’imitatio Augusti e il modello di una nuova legittimità; la seconda sulle origini della legittimità, inizialmente monarchica e poi repubblicana; infine la terza sulla questione irrisolta e pendente della legittimità da Augusto in poi.
Un documento epigrafico ben noto, sulla cui attendibilità e ufficialità non esistono dubbi trattandosi dell’iscrizione onoraria incisa sull’arco di Costantino, consente di comprendere meglio l’intenzione recondita di chi stese il testo e soprattutto di chi lo ispirò, aprendo un nuovo spiraglio sulla questione della legittimità. Il testo è ripetuto al centro dei lati lunghi dell’attico monumentale dell’arco, eretto in occasione dei decennalia dell’ascesa al trono dell’imperatore (315) e della nuncupatio votorum per i dieci anni successivi. Il testo dell’iscrizione è il seguente:2
Imp(eratori) Caes(ari) Fl(avio) Constantino Maximo / P(io) F(elici) Augusto S(enatus) P(opulus)q(ue) R(omanus) / quod instinctu divinitatis mentis / magnitudine cum exercitu suo / tam de tyranno quam de omni eius / factione uno tempore iustis / rem publicam ultus est armis / arcum triumphis insignem dicavit // Liberatori Urbis // Fundatori quietis // Sic X sic XX // Votis X votis XX.
Altre iscrizioni sono presenti sulle pareti interne del fornice centrale: Liberatori Urbis e Fundatori quietis, e al di sopra dei fornici laterali (sulla facciata nord: Votis X votis XX e sulla facciata sud: Sic X sic XX): queste ultime si riferiscono ai decennalia e ai vicennalia, ossia ai festeggiamenti per i dieci anni di regno compiuti e per i dieci successivi.
Il testo non pone problemi significativi di interpretazione; al massimo, preso alla lettera, esso comporta qualche forzatura nell’interpretazione di alcuni passi, come dimostra una breve analisi del lessico impiegato.3 Il testo, del quale si offre subito una traduzione fin dove possibile letterale, contiene allusioni alla vittoria su Massenzio (28 ottobre 312), definito tyrannus, mentre i suoi fautori sono sbrigativamente definiti factio. La vittoria di Costantino fu resa possibile per ispirazione della divinità (instinctu divinitatis) e per il suo grande coraggio.4 Con il suo esercito egli ebbe ragione in una volta sola del tiranno e dei suoi fautori; con giuste armi vendicò lo stato. Il Senato e il Popolo romano dedicarono questo arco in memoria dei suoi trionfi al Liberatore della Città, a colui che ha posto fine ad un periodo di crisi lungo e sanguinoso (il riferimento anche alle guerre civili dell’età triumvirale è implicito) e ha posto i fondamenti della pace.
L’attenzione degli Studiosi5 si è concentrata soprattutto sull’espressione instinctu divinitatis, nella quale è stata letta una implicita conferma della scelta di Costantino di abbandonare gli dei patrii per abbracciare il dio dei cristiani; non sembrano, invece, essere stati altrettanto considerati evidenti punti di contatto con i primi due capitoli delle Res Gestae di Augusto il cui testo è il seguente:
(1, 1) Annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi.
(2) Qui parentem meum trucidaverunt, eos in exilium expuli iudiciis legitimis ultus eorum facinus…
Nell’epigrafia costantiniana emerge il tema della riconquistata libertà: Costantino è chiamato restitutor publicae libertatis (ILS 674, 677, 687, 691, 742) accanto ad espressioni dello stesso tenore come libertatem tenebris servitutis oppressam… luce inluminavit (ILS 688), reddita libertate (ILS 689) eccetera. Linguaggio e temi di propaganda sono vicini a quelli augustei, riassunti nei capitoli 1 e 2 delle Res Gestae.
Alla vindicatio in libertatem, tema condiviso tanto dal testo costantiniano quanto da quello augusteo (e dalla propaganda popularis di età repubblicana), Ottaviano fece ricorso per giustificare la sua iniziativa di arruolare un esercito (R.G. I 1) privato consilio et privata impensa… per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi, tema questo dominante della sua propaganda. Stessa giustificazione troviamo nell’iscrizione di Costantino: cum exercitu suo / tam de tyranno quam de omni eius / factione… ultus est. Il possessivo suo ha un significato ambiguo: può indicare semplicemente l’esercito comandato da Costantino, ma risulta del tutto pleonastico, e anche non privo di una certa negatività; l’enfatico suo richiama l’iniziativa di Ottaviano di arruolare un proprio esercito privato consilio et privata impensa.
L’impressione che l’iscrizione dell’arco richiami da vicino le Res Gestae è suffragata anche dal ricorso alla terminologia augustea del cap. 2 delle Res Gestae: iudiciis legitimis ultus eorum facinus. L’espressione iudicia legitima è un preciso riferimento alla lex Pedia del 43 a.C., che aveva istituito un tribunale speciale per perseguire i cesaricidi ed è sostituita nell’iscrizione costantiniana da arma iusta, equivalente a bellum iustum, nonostante la sostanziale improprietà come sinonimo di questa espressione e le rare occorrenze, pressoché tutte letterarie.
L’espressione iustis rem publicam ultus est armis è un accostamento alla ultio di Cesare: a questa si sostituisce la ultio della res publica, atto inedito di pietas. La diversità di situazioni e pure il ricorso alla ultio, evocativo della ultio di Cesare, spostano ancora una volta l’attenzione da Costantino ad Augusto, favorendo l’impressione di continuità fra il vincitore di Ponte Milvio, salutato liberatore della Città, e il fondatore del Principato, al quale si poteva attribuire lo stesso merito. La factio è sempre riconoscibile: si tratta dei senatori che avevano sostenuto Massenzio, sebbene Costantino dopo la vittoria di Ponte Milvio avesse rispettato i senatori che gli erano stati avversi. Il termine è da confrontare anche con un passo di Cicerone: est factio, sed vocantur illi optimates (de re publ. III 12, 20).
In definitiva credo che nell’iscrizione dell’arco di Costantino si possa riconoscere l’attualizzazione dell’esordio delle Res Gestae, la parte più polemica e di maggior peso politico del testamento augusteo (capp. 1-2), se il Senato e il popolo romano del tempo di Costantino non trovarono di meglio che ispirarsi al documento sul quale poggiava il Principato. In altre iscrizioni dello stesso contenuto, nelle quali a Costantino è riconosciuto il merito di aver sconfitto tutte le fazioni che avevano soffocato la libertà con le tenebre della schiavitù (cfr. CIL VIII 7006; XIV 131; VIII 11299: ornamenta libertatis restituta et vetera civitatis insignia), non si ricorre alle Res Gestae: l’argomentazione è più articolata e così pure l’esposizione del contenuto.
La conclusione di quanto detto fin qui è che ancora al tempo di Costantino rimanevano intatte consistenza e validità delle ragioni addotte da Augusto per giustificare la conquista del potere, e le Res Gestae, richiamate come riferimento ideologico senza rivali, rimanevano il documento della legittimità dell’Impero.
Veniamo ora al secondo punto: l’origine della legittimità del potere, utile per una comprensione generale del problema anche se cronologicamente ci porterà lontano dal tardoantico.
Già in età monarchica, agli albori dello stato romano e della sua organizzazione politica, ai patres, gli anziani, era riconosciuto un potere assoluto all’interno delle singole gentes. Al nome pater non era annessa solamente la funzione generativa, ma la paternità era strettamente connessa anche con l’autorità e col diritto.
Se nel vasto campo delle crisi si possono annoverare le guerre interne ed esterne, non si può ignorare quanto sia più realistico, nel mondo antico, considerare normale lo stato di guerra ed eccezionale quello di pace che non viceversa (Augusto, in R.G. 13, si gloria di aver chiuso per ben tre volte il tempio di Giano per un periodo di tempo così lungo quale non fu mai registrato prima di allora). Anche Roma, sebbene vittoriosa in molte circostanze, attraversò momenti di crisi profonda all’interno, come la lotta per la parificazione degli ordines e l’incendio gallico, e, all’esterno, le sconfitte presso l’Allia e il Cremera, a Canne e non solo. Nei momenti bui di crisi politiche o militari Roma maturò solidità e unità grazie ai patres, che fino dall’età monarchica avevano partecipato alla gestione del potere come consiglio degli anziani. Finita la monarchia, la legittimità del potere venne tutta nelle mani dei patres delle antiche genti.
La solidità del sistema di governo romano si deve in buona parte al superamento di momenti critici che videro le istituzioni romane scricchiolare di fronte a eventi o addirittura periodi nei quali la sopravvivenza stessa delle istituzioni e dell’intero sistema rischiò di essere spazzata via. Se Roma non avesse reagito con determinazione forse sarebbe rimasta una insignificante aggregazione di pastori, come ce n’erano tante nel centro della penisola, prive di una identità comune, che invece si può riconoscere nella condivisione di alcune istituzioni comunitarie romane, prima fra tutte il ius gentium, condizione di ogni possibile integrazione.
La condivisione del territorio, il progressivo incremento di presenze organizzate (da intendere come gruppi umani che si riconoscevano nel nomen comune), interessi economici ed altre circostanze di questa natura non impedirono che si trovasse un modus vivendi in grado di rendere possibili la convivenza e l’unità d’intenti.
Il quadro che meglio si confà ad una situazione di tal genere sembra essere stato quello di una comunità composita, di diverse provenienze, con tradizioni consolidate dalla presenza autorevole di capi con seguiti clientelari, forse uniti da vincoli religiosi comuni: questa potrebbe essere l’interpretazione più accreditata dell’iscrizione di tardo VI secolo a.C. rinvenuta presso l’antica Satricum; questa iscrizione, pur essendo un testimone solitario, è anche uno dei più antichi e prospetta una situazione complessivamente chiara di condivisione del culto di Marte presso il santuario di Mater Matuta.6
La tradizione, come si diceva, conosce una molteplicità di provenienze e una sostanziale autonomia di ogni gruppo (gens) nel rispetto di alcuni diritti: dunque la prima forma di diritto testimoniata dalle fonti è il diritto gentilizio, che trova numerosi riscontri in tempi assai più recenti (ad esempio, nel processo a Pisone che si può leggere in Tacito Annali III 12, confermato dal recente ritrovamento del S.C. de Cn. Pisone patre conservato per via epigrafica).7
La difficoltà che poteva sorgere nella unificazione dei diritti gentilizi non costituì un motivo di crisi ma piuttosto un’occasione di crescita verso una unità più grande fondata sul diritto comune.
I protagonisti di questo passaggio furono i patres familias, che divennero i depositari del potere che amministrarono sotto varie forme – la più significativa e importante delle quali fu la gestione dell’imperium – rimanendo, nonostante l’esautoramento progressivo in età imperiale, un organo rappresentativo fino alla fine dell’Impero: imago sine re avrebbe detto Velleio, ma essenziale per la legittimità dello stato romano. Credo che si possa affermare che l’accordo fra i capi delle gentes sia stato l’humus sul quale nacque lo stato romano.
Accenno soltanto ad altri episodi che confermano quanto detto circa la legittimità del potere seguita ad una crisi: ad esempio, il dominio etrusco nel VI secolo a.C. fino alla formazione dello stato repubblicano, alla testa del quale furono posti due magistrati rivestiti di imperium; a questa carica accedevano per diritto i patres e i loro discendenti. Nella ‘grande Roma dei Tarquini’, come la definì Giorgio Pasquali, i patres conservarono il potere del quale già godevano sotto la monarchia e lo accrebbero con l’incremento delle loro prerogative. Fu questo sicuramente un momento decisivo per la storia di Roma.
Un altro episodio fu l’impoverimento seguito al ritiro degli Etruschi da Roma e dalle rotte commerciali marittime. La crisi fu determinata dallo sgretolamento del potere monarchico ma, ancora una volta, furono i patres a pilotare il cambiamento, come rivela la prassi dell’auctoritas patrum, che estendeva a tutti la portata dei provvedimenti legislativi assunti dalla plebe, e la carica di interrex, conservata fino alla fine dell’età repubblicana, che in assenza dei consoli defunti o decaduti dalla carica prima del tempo veniva eletto fra i senatori consolari per un periodo di cinque giorni finché non fossero stati convocati i comizi ed eletti i suffecti: in sintesi si potrebbe dire imperium ad regem rediit.
Ai provvedimenti di cui sopra è da aggiungere la ‘consegna’ dell’imperium, ai magistrati che dovevano esercitarlo, da parte dei comizi curiati, fin dall’origine rappresentativi delle élites militari e anch’essi rimasti nella tradizione e nella prassi per secoli. I patres continuarono a disporre dell’imperium anche quando i comizi curiati ebbero perso d’importanza, a dimostrazione che il potere continuava a rimanere nelle mani di chi rivestiva il comando militare, prima sotto la guida del rex e dopo sotto la guida di chi disponeva legittimamente dell’imperium. Questa osservazione, scontata in apparenza, trova riscontro nella lex de imperio o de potestate Vespasiani (è l’antica lex regia) che, riconoscendo la legittimità del potere rivestito dai ‘buoni’ principi giulio-claudi (Gaio e Nerone, infatti, ne sono esclusi), autorizzava Vespasiano a compiere tutti gli acta in precedenza compiuti da Augusto, princeps senatus dal 28 a.C., dal suo figlio adottivo Tiberio e dai legittimi successori per nascita o per adozione, fino a ricongiungersi nella genealogia ad Augusto, che aveva assommato in sé ogni potere legittimo, risolvendo così la crisi definitiva della res publica, dove il potere, non la legittimità del suo esercizio, era trasmissibile per via dinastica e non più secondo la volontà popolare e neppure del Senato.
L’ultimo caso che consideriamo, uno dei più importanti, è la stesura delle XII tavole (metà del V secolo a.C.). Essa completa l’integrazione delle varie gentes a livello giuridico, rendendo possibile dotare l’intera civitas di uno strumento uguale per tutti. Si tratta infatti di norme di procedura e di diritto che, messe per iscritto su pressione di coloro che erano esclusi dalla amministrazione della giustizia, appannaggio del solo patriziato, costituiscono una base di uguaglianza che prelude, e in parte realizza, i fondamenti di convivenza civile del tempo. Il contenuto codificava in parte gli antichi mores in parte aggiornava e proporzionava le pene alla colpa; si potevano finalmente porre questioni giuridiche e questo non era più precluso ad alcuno. La stesura delle leggi trascendeva il significato ‘democratico’ e strutturava in modo diverso, più moderno e attuale (valido in parte anche oggi nei principi basilari), il nuovo stato romano dopo la fine del dominio etrusco e l’avvenuto assestamento degli ordines (classi, ceti, per lo più contrapposti), e stabiliva un principio di uguaglianza fra tutti (e solo) coloro che godevano della cittadinanza romana. La crisi fra patrizi e plebei generò, attraverso il riconoscimento della legittimità dei patres, depositari del diritto ma non più soli nell’interpretazione di esso, una solidità che si rifletteva positivamente in molti aspetti della vita associata, il più importante dei quali era quello militare.
La questione della legittimità del potere attraversa tutta la storia di Roma. L’avvio del processo di legittimazione delle istituzioni è progressivo e segue all’accordo fra i patres delle antiche genti, che superarono antiche barriere sulle quali era fondato il diritto gentilizio di ciascuna gens.
Per concludere il discorso avviato rimane centrale, ancora una volta, il testamento politico di Augusto. Quasi alla fine del lungo documento, cap. 34, 1 e 2, Augusto trae le conclusioni di quanto precede: per consensum universorum potitus rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli, e prosegue (par. 3) post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt. La sostanza di tutto quanto precede è che lo stato era tornato nelle mani di uno solo, che ne aveva fatto ciò che aveva voluto, a suo piacimento, e l’auctoritas consegnava ad Augusto un potere che poggiava solidamente sulla tradizione degli antichi patres. All’interno del Senato, infatti, l’auctoritas era riconosciuta prevalentemente ai senatori più capaci di persuadere gli altri e quindi esponenti dai quali dipendevano le decisioni di maggior peso. Tacito, nella Germania (11), facendo riferimento al Consiglio degli anziani in parallelo con il Senato di Roma, così sintetizza: auctoritate suadendi magis quam iubendi potestate. Ma Augusto, nei passi citati, mette in contrasto l’auctoritas con la potestas e ciò, nell’idea romana di legittimità, era più vicino al potere degli antichi patres che alla volontà popolare.
Augusto giustifica abilmente la sua posizione di fronte al popolo attribuendogli il consenso della sua azione politica. Più difficile il compito del successore, Tiberio, che, come pare dimostrabile anche dal testo epigrafico del S.C. de Cn. Pisone patre, del 20 d.C., si appoggiò politicamente sull’esercito, nuovo bastione dell’Impero, valorizzando apertamente fides e pietas delle legioni (dopo Augusto le legioni furono tutte caratterizzate dagli epiteti pia e fidelis).8 Tiberio ebbe un compito difficilissimo da portare a termine e finché poté (in pratica fino all’anno 30, dopo il tentativo di Seiano di impadronirsi del potere e il conseguente inizio dei processi di lesa maestà) ebbe per il Senato la maggior considerazione e il più grande rispetto, nonostante, scrive Tacito (Ann. I 7, 1): at Romae ruere in servitium consules patres eques quanto quis inlustrior, tanto magis falsi ac festinantes.
Che il Senato nelle intenzioni di un vecchio repubblicano come Tiberio meritasse la più alta considerazione e costituisse addirittura l’unica alternativa possibile alla volontà popolare, che si esprimeva nei comizi, è dimostrato da quanto scrive ancora Tacito (Ann. I 15, 1): Tum primum e campo comitia ad patres translata sunt. Oggi sappiamo, grazie a recenti e recentissimi ritrovamenti epigrafici come le tabulae Hebana e Siarensis, come la elezione o meglio la scelta dei magistrati cum imperio dipendesse direttamente dal Principe; le leggi note per via epigrafica dimostrano, se si può dir così, l’inutilità del voto popolare. A seguito di ciò tutta l’attività legislativa ed elettiva esercitata dal popolo venne trasferita per competenza al Senato: nessuna dimostrazione più chiara del ruolo svolto dal Senato e dell’impossibilità di ignorarne la funzione di legittimità che esso garantiva. L’imperatore continuò a rivestire la carica di princeps senatus e ad accedere in Senato furono solo i figli dei senatori, finché anche la legislazione ordinaria entrò a far parte dell’attività del Senato.
Ma sebbene tutto apparisse in continuità con l’ordine repubblicano, come aveva voluto far credere Augusto, e la legittimità fosse custodita dal Senato, il succedersi delle nuove dinastie, come la dinastia Flavia, estrometteva il Senato da ogni interferenza nel ‘diritto’ di successione, che Vespasiano, secondo Svetonio (Vesp. 25), avrebbe interpretato così: «o i suoi figli sarebbero stati i suoi successori o non lo sarebbe stato nessun altro».
1Per tutti valga la vastissima opera Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto editto di Milano 313-2013, 3 voll., Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2013, in particolare il contributo di G.L. Gregori, L’epigrafia costantiniana. La figura di Costantino e la propaganda imperiale, 517-541.
2CIL VI 1139, cfr. pp. 3071, 3778, 4328, 4340; VI 31245; ILS 694; AE 1983, 18; 2002, 32 add.; 2002, 148 add.; 2003, 267 add.; 2007, 51 add.
3P. Liverani, L’arco di Costantino, in A. Donati, G. Gentili (curr.), Costantino il grande. La civiltà al bivio fra Occidente e Oriente, Silvana, Milano 2005, 65.
4Interpretazione alternativa in Liverani, Ibidem.
5Riprendo qui una parte di ciò che ho scritto in un lavoro precedente: Costantino e Augusto, in G. Cuscito (a cura di), Il bimillenario augusteo, Atti della XLV Settimana di Studi Aquileiesi, Aquileia 12-14 giugno 2014, Trieste 2015 (Antichità Altoadriatiche, vol. 81, 245-247).
6 CIL I2 fasc. IV, 2832a.
7AE 1996, 885, con testo, traduzione francese e commento, pp. 285-305 [P. Le Roux] = CIL II2 5, 900.
8Vd. A. Valvo, La politica a Roma dopo Augusto, in G. Negri e A. Valvo (a cura di), Studi su Augusto. In occasione del XX centenario della morte, Giappichelli Editore, Torino 2016, pp. 139-144.