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Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica

Il nuovo senso delle parole: giudice e confessore negli atti dei martiri 1

Christian Gnilka

Universität Münster, Germania

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Quando Cristo fu portato innanzi a Pilato, il procuratore gli chiese se Egli fosse il re dei Giudei. Cristo rispose di sì e i sinottici sottolineano che questa fu la sua unica risposta e che il procuratore ne restò assai stupito.2 Col suo “sì” l’accusato riconosceva che nell’accusa portata contro di lui c’era qualcosa di vero; che in qualche modo il titolo di “re” gli si confaceva. Ma in che modo questo titolo gli si confacesse il procuratore romano non comprese, sicché una nube di equivoco avvolge questo scambio di parole. In Giovanni leggiamo la spiegazione: «Il mio regno non è di questo mondo».3 Già gli esegeti antichi hanno considerato con attenzione il tenore esatto di queste parole, sottolineando che la regalità di Cristo sussiste anche qui, in questo mondo, senza però essere di qui, di questo mondo.4 Come dice Pascal,5 essa appartiene ad un altro ordine. Quando il giudice ripete la propria domanda, ottiene di nuovo una risposta affermativa: «Tu lo dici, che io sono re».6 Una formulazione che secondo Agostino è ben ponderata: Cristo non nega di essere re, ma non ammette neppure di esserlo nel senso in cui Pilato intende questa parola.7 Questa spiegazione, se si guarda alla sostanza della cosa, è certamente nel giusto. Si potrebbe dire che tra il concetto di “re”, preso nella sua accezione corrente, e ciò che la regalità di Cristo è, sussista una relazione essenziale, che col suo duplice “sì” il Fondatore del cristianesimo esplicitamente riconosce ed approva. Ma anche il Vangelo di Giovanni non lascia dubbi sul fatto che tale relazione resti completamente ignota al procuratore. Infatti, proprio dopo le parole sulla verità che in Giovanni seguono il ripetuto “sì” e conducono all’essenza della regalità rivendicata dall’interrogato,8 Pilato interrompe l’interrogatorio con quella famosa domanda in cui si manifesta il caratteristico scetticismo del romano colto:9 «Che cos’è la verità?». L’incomprensione si traduce poi in atto nella crudele derisione a cui i soldati sottopongono l’accusato.10 Tuttavia nelle trattative con i Giudei lo stesso Pilato parla così insistentemente del “re (dei Giudei)”, del “vostro re”,11 che – osserva Agostino – vien da pensare che la Verità stessa, alla quale il romano aveva chiesto che cosa essa sia, gli avesse inciso questa parola nel cuore come un’iscrizione.12 E nel rifiuto di Pilato di modificare il titulus della croce – quod scripsi, scripsi13 – lo stesso esegeta riconobbe l’azione misteriosa di una voce interiore che, silenziosamente e tuttavia forte, ordinava al romano ciò che molto tempo prima era stato annunciato nei Salmi: Ne corrumpas tituli inscriptionem!14 Egli, che da bambino fu perseguitato quale neonato re dei Giudei, morì sulla croce con il titolo di Re dei Giudei.

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Come la passione di Cristo rappresenta il modello del martirio, così anche nel “sì” col quale Egli risponde a Pilato è già racchiusa una notevole caratteristica della letteratura delle passioni, o anzi un tratto fondamentale del pensiero e della parola cristiana in genere. Negli interrogatori dei martiri emerge continuamente un peculiare conflitto semantico: il cristiano riprende un concetto impiegato dal giudice, ma lo usa in un senso nuovo, che il pagano non comprende. Si tratta regolarmente di significati che rinviano alle realtà spirituali legate all’essenza della nuova religione; sotto questo aspetto, in quegli interrogatori il cristianesimo viene acquistando una fisionomia propria, che lo distacca nettamente dallo sfondo della cultura nella quale veniva crescendo. Certo, anche altrimenti la religione cristiana ha determinato grandi mutamenti nell’ambito del discorso parlato e scritto: ha dato vita a nuove forme letterarie, altre ha trasformate o respinte ai margini. Il mondo antico non conosceva né l’istruzione religiosa del popolo15 né il canto del popolo nel culto; la predica e l’inno sacro sono novità cresciute dal cuore stesso della religione cristiana; e lo stesso potrebbe dirsi per molte altre cose. Ma la trasformazione più ampia, perché penetra in tutti gli ambiti dell’espressione linguistica, è però quella peculiare spiritualizzazione della lingua. Con ciò non intendo quello che intende la scuola olandese quando parla di una lingua speciale del cristianesimo.16 Non si tratta di una «forma colloquiale» del latino o del greco «fondata in una differenziazione sociale»,17 di parole forestiere e nuove, del fatto che certe espressioni vengano evitate e altre preferite, della terminologia del culto, dei significati “tecnici” di senso religioso o addirittura di fenomeni sintattici. Si tratta di qualcosa di più ampio, di più generale. Si tratta del fatto che molto, o forse tutto quello che può essere espresso nella lingua degli uomini, può, per così dire, diventare trasparente per realtà più alte; realtà, con le quali le cose visibili e le attività usuali stanno come in un rapporto di analogia. La pretesa di portare in luce il vero significato delle parole non era certo rimasta sconosciuta alla cultura antica. Si pensi ad esempio a Orazio:18 la virtù insegna agli uomini a non usare le parole in maniera sbagliata – [Virtus] populum… falsis Dedocet uti Vocibuseqs. Essa insegna che re non è colui che siede sul trono, ma colui che ha vinto la cupidigia. Questa è dottrina stoica. Gli stoici volevano restituire il loro vero significato alle parole “ricco”, “felice”, “libero”.19 Solo il saggio è libero, felice, ricco – e quindi anche re: μόνος ὁ σοφὸς βασιλεύς. Solo il saggio infatti possiede saldamente la conoscenza del bene, è libero dalle passioni, è atto a regnare; egli soltanto quindi è veramente sovrano e re, anche se non esercita il potere.20 Ma basta gettare uno sguardo su queste frasi per accorgersi di come esse non abbiano quasi nulla in comune con quella spiritualizzazione della lingua che è il portato del cristianesimo. Nelle sue ragioni, nella sua natura, nei suoi effetti essa è qualcosa di completamente diverso. Per lo stoico le parole acquistano il loro vero significato quando vengono applicate ad un uomo, e precisamente all’uomo ideale; ma ciò restringe per molti versi le possibilità di questo uso del linguaggio. Per il cristiano, invece, il più profondo significato della parola si fonda nel fatto che Dio per la sua infinita bontà si è compiaciuto di dare la propria rivelazione nella lingua degli uomini, che ha adattato la Sua parola alla parola degli uomini.21 Per questa ragione la lingua della Sacra Scrittura è così ricca di simboli: «car les choses de Dieu étant inexprimables, elles ne peuvent être dites autrement» (Pascal).22 Così le parole della Scrittura diventano come trasparenti, aprendo uno sguardo sulla natura di Dio e sulla Sua promessa. E siccome il Fondatore comparve rivendicando di essere il compimento di queste promesse e di rendere visibile nella propria persona il divino, appunto per questo Egli potè dire: io sono il pane della vita, la resurrezione e la vita, la porta, il buon pastore, la verità e la vita – e re: βασιλεύς εἰμι. Chi legge il Nuovo Testamento, conosce bene questo modo di esprimersi; ma chi sia di casa nella letteratura cristiana, specialmente nella letteratura esegetica dei secoli successivi, farà fatica a raffigurarsi un tempo in cui questo linguaggio appariva straniero o addirittura incomprensibile. Sono gli atti dei martiri che ci fanno capire quanto grande fosse la sorpresa del mondo antico di fronte al linguaggio spirituale, mistico della nuova religione.23 Gli interrogatori dei martiri non ci mostrano la rivoluzione semantica nella sua origine, ma ci fanno vedere che essa ha avuto luogo: con la collisione dei diversi significati della stessa parola e con l’incapacità del pagano di intendere il nuovo senso cristiano. La collisione è determinata dalla situazione. Di fronte al seggio del giudice spesso il confessore vuol dire qualcosa di più della semplice confessione “sono cristiano”; vuole dire che cosa significhi essere cristiani. Vuole difendere la propria religione, forse vuole conquistare il giudice, fortificare o ammaestrare i presenti. Ma di rado e solo per poco il magistrato accetta di farsi coinvolgere in una disputa, e bisogna ammettere che, nella sua posizione, egli non può procedere altrimenti. Un dibattimento giudiziario non è una disputa filosofica. All’accusato non resta dunque altro che rilanciare con le sue risposte le palle che il giudice gli getta con le sue domande. La messa a confronto dei concetti è per lo più l’unica possibilità di difesa e ammaestramento che resti al cristiano davanti al tribunale. È per questa ragione che il contrasto di pensiero si concentra in questa contrapposizione di concetti.

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Scelgo, per iniziare, un esempio nel quale questa dislocazione dei piani di significato è subito abbastanza chiara, forse perchè la passione in questione, il Martyrium S. Pionii, mostra già un certo grado di elaborazione artistica.24 Il custode del tempio della Nemesi cerca, assieme ad alcuni altri, di convincere il martire, che patì sotto Decio a Smirna: «È bello vivere (τὸ ζῆν) e guardare questa luce.» Pionio risponde: «Certo, anch’io dico che la vita (τὸ ζῆν) è bella, ma la vita alla quale noi aspiriamo è migliore; ed anche la luce è bella, ma la vera luce».25 Qui possiamo osservare il caratteristico procedimento della ripresa dei concetti. Alla vita terrena Pionio contrappone la vita eterna, alla luce del sole la luce della salvezza; τὸ φῶς τὸ ἀληθινόν richiama qui il prologo del Vangelo di Giovanni.26 I benintenzionati interlocutori pagani di Pionio non capiscono cosa il martire voglia dire e di certo non sono neppure in grado di capire, sicché appare giustificata esclamazione che Pionio rivolge ad uno di essi, che si era mostrato particolarmente insistente: tu, piuttosto, stammi a sentire! «Perché quello che tu sai, lo so anch’io; ma quello che io so, tu non lo sai».27 Queste parole colgono molto bene la situazione. Tutti gli interrogatori e i dialoghi della letteratura passionistica mostrano continuamente la stessa dissimetria: il cristiano comprende ambedue le lingue, il pagano solo la propria. Così anche qui il pagano che cerca di persuadere Pionio non ha compreso che cosa significhi “vivere” nel senso cristiano, poiché subito dopo osserva: «Ma a che vi servono questi discorsi, quando non è possibile che voi viviate (ὁπότε οὐκ ἔξεστιν ὑμᾶς ζῆν)?»28 Bisogna inoltre considerare che dalla collisione dei concetti può sprizzare talvolta una scintilla d’arguzia. Pionio si augura di riuscire a convertire i pagani. Questi scoppiano a ridere e replicano: «Mai potrai far sì che noi ci facciamo bruciare vivi (ζῶντες)». Ma il martire risponde: «Molto peggio è bruciare da morti (ἀποθανόντας καυθῆναι) ». E adesso è per la compagna di Pionio, la cristiana Sabina, la volta di sorridere.29 Essa ha compreso il gioco di significati che si cela nell’espressione ἀποθανόντας καυθῆναι: il duplice riferimento alla cremazione del cadavere e alla pena infernale.30 La retorica antica avrebbe classificato questo caso come iocus cum amaritudine, come sarcasmo, il quale appartiene alle figure di parola e si basa appunto sul gioco di significati di singole parole. Questo tipo di arguzia caratterizza lo stile di molta letteratura polemica contro il culto degli dei e qui, nel dictum di Pionio, ha raggiunto per così dire la sua espressione classica.31 Durante la tortura il proconsole Quintilliano esorta il martire a mostrarsi ragionevole. Pionio replica: «Io non sono irragionevole ma temo il Dio vivente (ζῶντα θεόν)». Di nuovo il proconsole: «Molti altri hanno sacrificato e vivono e hanno la mente a posto (καὶ ζῶσι καὶ σωφρονοῦσιν)».32 Ovviamente Pionio aveva parlato del “Dio vivente” nel senso pieno e profondo della Sacra Scrittura, aveva pensato al Dio che vive di eternità in eternità, al Dio, in contrasto con gli idoli, vero e vivente, al Dio che dà la vita eterna e che ha insediato Cristo a giudice dei vivi e dei morti.33 Ma con “vita” il magistrato può intendere solo l’esistenza terrena, con dio “vivente” solo un dio che garantisce la vita terrena e che bisogna temere tutt’al più perché ha il potere di porre termine alla vita terrena. Il contrasto attraversa tutto l’interrogatorio, sino alla fine: «Perché corri alla morte?» chiede il giudice, e il torturato risponde: «non alla morte, ma alla vita». Ma il magistrato non riprende più lo spunto e pone termine all’inchiesta dicendo: «Poiché corri alla morte, verrai bruciato vivo». E di questo tenore è la sentenza, che viene formulata e letta in latino.34 Qui dunque uno dei cardini nel confronto con i pagani è il più profondo significato della parola “vita”; sotto questo aspetto sussiste senz’altro un certo parallelismo con l’interrogatorio davanti a Pilato, che s’incentra sul concetto di “re”. In ambedue i casi l’oscurità dell’incomprensione non viene rischiarata. Pilato interrompe l’interrogatorio con una osservazione sprezzante, Quintilliano persevera immobile nei suoi schemi mentali. In un’altra passione, negli acta Apollonii, si giunge almeno alla chiara consapevolezza e constatazione della mancata comprensione. Dopo un diverbio simile sul senso di “vita”, il proconsole dichiara con franchezza: “non capisco quello che tu dici”, e da un filosofo, un cinico, il martire deve accettare la qualifica di σκοτεινόλογος “uomo dal linguaggio oscuro”.35

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Non sempre i dialoghi sono così caratterizzati dal conflitto dei concetti. Spesso questo emerge solo in singoli punti. I tre martiri di Pergamo patirono verosimilmente sotto Marco Aurelio. Ad uno di questi, Papilo, fu chiesto:36 «Hai figli (τέκνα ἔχεις)?» Papilo rispose: «Sì, molti, grazie a Dio (καὶ πολλὰ διὰ τὸν θεόν)!» E certo per il proconsole Papilo sarebbe rimasto il padre di una prole numerosa se tra i presenti non vi fosse stato uno, meglio informato, che esclamò: «Dice di aver figli nel senso della sua fede, della fede dei cristiani (κατὰ τὴν πίστιν αὐτοῦ τῶν Χριστιανῶν λέγει τέκνα ἔχειν)!» Vale a dire: la parola τέκνα possiede un nuovo senso, diverso dall’accezione comune, un senso cristiano. Papilo parla di “figli” come l’Apostolo quando si rivolge ai Galati: «figlioli mei (τεκνία μου), io soffro di nuovo per voi le doglie del parto finché Cristo non prenda forma in voi».37 Il proconsole che guida l’interrogatorio sa ora, grazie all’interruzione, che il cristiano non ha dato la sua risposta nel senso in cui gli era stata posta la domanda; tuttavia non comprende la risposta o perlomeno non tiene conto del suo significato. Egli accusa il martire di aver mentito: «Perché menti, affermando di aver figli?» Papilo si difende: «Vuoi sapere che non mento ma dico la verità? In ogni provincia, in ogni città io ho figlioli in Dio (τέκνα κατὰ θεόν)». Se ora in un simile scambio di battute vedessimo soltanto un gioco ozioso col quale il confessore tiene a bada e annoia il giudice paziente,38 daremmo prova d’aver capito ben poco della venerazione cristiana per i martiri. Quando infatti il cristiano si trova davanti al giudice pagano, non è egli che parla, ma lo spirito di Dio in lui. Così aveva promesso Cristo,39 e così la Chiesa antica concepiva la confessione del martire. A tutte le sue parole, sia che le avesse pronunciate nell’aula del tribunale oppure sul banco di tortura, veniva attribuito un valore quale neppure gli ultima verba del maggiore campione di virtù avevano mai posseduto per l’antichità precristiana.40 Perciò è in un senso pieno che Papilo insiste di aver detto la verità: i suoi numerosi figlioli sono appunto un fatto, un fatto spirituale, ma non per questo meno vero e reale. Quando il martire si decide a riferire la sua risposta “in quell’ora” alla realtà più alta, a utilizzarla per formulare una gioiosa confessione e per incoraggiare tutti coloro che lo comprendono, tutto ciò è in ogni caso molto di più di un ingegnoso gioco di parole. Se poi possediamo il testo autentico dell’interrogatorio, non è un problema che per il momento debba collocarsi in primo piano, poiché, chiunque lo abbia redatto, questo è il modo in cui il testo vuole essere letto.

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Vi sono del resto autori famosi che ci offrono testimonianze analoghe. Eusebio, lo storico della Chiesa, in uno scritto specialmente dedicato ai martiri palestinesi del suo tempo descrive la passione del suo venerato maestro Pamfilo, che fu imprigionato sotto Massimino e decapitato il 16 febbraio 309. Con Pamfilo patirono altri cinque cristiani egiziani, ad uno dei quali Eusebio dedica un’attenzione particolare. Questi non voleva più riconoscere altra patria se non la patria celeste.41 Quando perciò il giudice Firmiliano gli chiese quale città fosse la sua patria (πατρίς), la sua risposta fu “Gerusalemme”. Ovviamente, come spiega Eusebio, il martire intendeva la città di cui Paolo dice che essa è nostra madre e la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste.42 Ma il magistrato romano non comprese, perché – racconta Eusebio – «il suo animo era indirizzato alla terra e verso il basso» (e inoltre, dobbiamo aggiungere, già da due secoli la Gerusalemme terrena si chiamava allora Aelia Capitolina). Il giudice volle quindi sapere che città fosse, dove si trovasse, e ricorse alla tortura per strappare la verità. Il cristiano da parte sua assicurò di aver detto la verità. Infine aggiunse che la città di cui parlava era la patria di coloro che adorano il vero Dio (τῶν θεοσεβῶν πατρίδα), e che nessun altro vi ha diritto di cittadinanza, e che essa si trova in Oriente, là dove sorge il sole. Eusebio annota: «Così egli filosofò di nuovo secondo la propria maniera di pensare (κατὰ τὸν ἴδιον νοῦν ἐφιλοσόφει)» – una bella osservazione, che dice con molta chiarezza come il conflitto dei linguaggi abbia realmente la sua radice in diverse visioni del mondo, che nell’interrogatorio vengono a collidere e si concentrano in una sola parola, πατρίς. Il cristiano non vuole riconoscere nessuna patria terrena o almeno con la parola πατρίς non vuole designare un luogo terreno, perché per lui questa parola è, per così dire, già “occupata”, investita di un senso più alto che la santifica. Quello che cent’anni più tardi Agostino volle raggiungere con il suo capolavoro apologetico: di indirizzare l’amor di patria degli uomini alla civitas e alla patria celesti,43 questo cristiano lo ha già compiutamente realizzato per se stesso. Firmiliano non molla e intensifica la tortura, perché sospetta che i cristiani vogliano fondare una città nemica e rivale di Roma. Il martire non recede dalle sue dichiarazioni, viene condannato e giustiziato. Un amante delle arguzie potrebbe dire che va alla morte per via di un’ambivalenza linguistica; ma sarebbe una maniera assai superficiale di caratterizzare l’essenza del confronto. Dal conflitto semantico la vicenda acquista un carattere di dramma (δραματουργία) che Eusebio ha notato ed espressamente rilevato.

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Anche le passioni latine ci presentano chiari esempi del fenomeno che stiamo indagando. Istruttiva sotto questo aspetto è già la testimonianza più antica, che nel contempo è anche il primo documento cristiano redatto in latino: la Passio Scillitanorum. Il testo dell’interrogatorio di questi martiri originari di Scillium nell’Africa proconsolare, che furono interrogati e decapitati a Cartagine il 17 luglio 180, rientra tra le fonti che sembrano mantenersi abbastanza vicine al verbale autentico del dibattimento, o che almeno si basano su un tale documento.44 Nello scambio di domanda e risposta risuona inconfondibile la lotta delle antitesi. Qui mi limito a citare un solo passaggio del duello oratorio.45 Il proconsole Saturnino: «Potete ottenere la grazia del nostro signore, dell’imperatore (domni nostri imperatoris), se rimettete giudizio (si ad bonam mentem redeatis)». Sperato, che parla a nome di tutto il gruppo, replica: «Noi non abbiamo fatto nulla di male, né con atti né con parole (numquam malefecimus… eqs); al contrario, sebbene male trattati, abbiamo reso grazie, «perché noi veneriamo il nostro imperatore (quoniam imperatorem nostrum observamus)». Già qui balza agli occhi come il cristiano dia ai concetti bona mens e imperator un altro senso, perchè naturalmente con “il nostro imperatore” egli allude a Christus Basileus,46 e del tutto consapevolmente intende bona mens in un senso più profondo. A sua volte Saturnino si rende conto che queste espressioni hanno un senso religioso, poiché così prosegue: «Anche noi siamo religiosi e la nostra religione è semplice (et nos religiosi sumus et simplex est religio nostra). Giuriamo per il genio del nostro signore, l’imperatore, e preghiamo per la sua salvezza; e questo dovete fare anche voi». In queste parole Sperato scorge subito la fertile opportunità di una replica: «Se mi stai ad ascoltare tranquillo, io ti annuncerò il mistero della semplicità (… dico mysterium simplicitatis)». Nella bocca del pagano simplex aveva un significato affatto banale: facile da fare. Quel che si richiede sono due atti di culto, nient’altro. Il cristiano congiunge mysterium e simplicitas in un ossimoro, riunendo in esso i due aspetti della semplicità e della profondità. La versione greca dice: ἐρῶ τὸ τῆς ἀληθοῦς ἁπλότητος μυστήριον. In una delle due redazioni latine recenziori leggiamo: dicam mysterium Christianae simplicitatis.47 Sono tentativi di chiarire. Una parafrasi potrebbe suonare così: «Sì, c’è una semplicità della religione, ma una semplicità del tutto diversa da quella che tu pensi; una semplicità che tu non conosci e alla quale è necessario farsi iniziare». Presumibilmente Sperato ha in mira principalmente l’antitesi di monoteismo e politeismo; negli Acta martyrum tutto, infatti, è in funzione della confessione dell’Unico Dio. In confronto ai contorti sentieri del politeismo, coi suoi culti e le sue regole innumerevoli, la fede nel Dio Unico è di liberatoria semplicità. In ogni caso Sperato aveva da dire qualcosa che richiedeva tempo; e in generale in questo testo è ben riconoscibile lo scopo che attraversa tutte le antitesi: trovare agganci per l’opera di ammaestramento. Come risulterà nel prosieguo dell’interrogatorio, i cristiani di Scillium avevano recato con sé a Cartagine una scatola con le lettere di Paolo e, probabilmente, anche con i vangeli. Questa – sia detto per inciso – è la prima testimonianza di una traduzione latina della Bibbia.48 Senz’altro essi volevano essere ben attrezzati in vista di una disputa. Ma il magistrato non vuole che si arrivi a tanto. Seccamente egli respinge l’offerta di farsi istruire sul mysterium simplicitatis: Initianti tibi mala de sacris nostris aures non praebebo. Forse qui egli si riallaccia a sua volta all’espressione mysterium che prima il cristiano aveva impiegata: initiare potrebbe avere una nota religiosa.49 Si tratterebbe allora di un ulteriore anello nella catena degli equivoci, dato che, ovviamente, l’offerta da parte del martire, di dare testimonianza del mysterium simplicitatis, coi misteri pagani nulla aveva a che vedere.

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Osservato da un punto di vista retorico, quello che gli accusati fanno con le domande dei giudici negli atti dei martiri, il modo in cui questi ascoltano e rispondono alle domande, è la reflexio (ἀνάκλασις), è “la realizzazione dialogica della distinctio (del gioco dei diversi significati di una parola) e si fonda sul fatto che ognuna delle due parti in dialogo assegna allo stesso corpo di parole un significato differente, in base al proprio interesse di parte. Il secondo attore “rigira” il senso delle parole del primo attore, usa cioè una parola del primo attore con un significato che egli non aveva inteso” (H. Lausberg).50 Nei processi ai martiri, questa figura retorica diviene il mezzo di una grande battaglia spirituale. Essa origina in questa battaglia come da se stessa e non vi viene introdotta artificialmente. Da qui deriva la frequenza con cui si incontra l’ἀνάκλασις in atti di diversa provenienza e di diverse epoche. Essa nasce dalla necessità dell’apologia e del dovere all’evangelizzazione, scaturisce dalla visione del mondo e della vita totalmente “altra” del cristiano, genera dall’essenza della sua religione. Che questo mezzo venga coscientemente utilizzato e plasmato nell’elaborazione letteraria delle passioni, non è una contraddizione, ma costituisce invece un emblematico esempio della χρῆσις, dell’uso cristiano del patrimonio di forme e idee antiche.51 Così il poeta Prudentius, nella sua poesia sul martire Romanus, usa la tecnica delle battute, che era stata sviluppata nel dramma, specialmente dal Seneca tragico, per smascherare questo tratto fondamentale della letteratura passionistica.52

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Arrivati a questo punto dobbiamo abbandonare questo nostro ragionamento e rivolgerci a considerazioni di carattere più generale. Gli atti dei martiri che si possano considerare storicamente attendibili costituiscono un gruppo relativamente ristretto di testi di varia natura: lettere, atti processuali, annotazioni dei martiri stessi, racconti e via dicendo. La loro varia e difforme natura prova che essi non sono sorti in conformità ad un programma esteriore ma che sono nati, per così dire, dall’interno: dal desiderio di conservare il ricordo dei martiri e di diffonderlo oltre i limiti del luogo del martirio, perché, com’è detto nella Passio Perpetuae, con la memoria dei fatti Dio venga onorato e l’uomo fortificato.53 È certo però che anche questi preziosi esemplari della più antica letteratura passionistica, nella forma in cui li possediamo, hanno già subito una certa elaborazione. Siamo anche in grado di seguire come nel corso del tempo i testi fossero sottoposti ad un processo di progressiva trasformazione. Ma anche il desiderio di modellare stilisticamente il materiale degli atti, anche questo desiderio che fonti più tarde ci danno a vedere scaturisce dallo stesso bisogno e persegue lo stesso scopo del sobrio resoconto. Solo che la via seguita è un’altra. Per dar forma alla verità, per farla risuonare occorre impiegare quanto di più alto e di meglio la parola degli uomini è in grado di offrire. E ciò significa qui: far emergere quanto più chiaramente, convincentemente e completamente possibile il senso racchiuso nella sofferenza dei martiri e l’insegnamento che le loro parole impartiscono. Si tratta di un metodo che, raccontando, spiega; che, riproducendo i fatti, nel medesimo tempo li colora. Anche se in tal modo il valore storico come fonte possa risultare oscurato, la fisionomia spirituale di ciò che il confessore fece, e specialmente di ciò che egli disse, può talvolta risaltare più chiaramente di quanto consentirebbe il verbale. Molti autori, quando raccontano dei martiri, spesso possono rifarsi solo a oscure notizie. Secoli interi spesso li separavano dagli avvenimenti; gli atti, se c’erano, erano smarriti o distrutti;54 i racconti erano passati di bocca in bocca, si erano mischiati l’uno con l’altro e avevano dato vita ad una tradizione leggendaria. Con la fine delle persecuzioni scaturiscono ovunque da questo fondo oscuro le leggende. Il passaggio alla forma scritta si compie in luoghi diversi e per motivi diversi – ad esempio in prediche e vite, oppure in inni ed epigrammi.55

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Dall’altro lato siamo in possesso di testimonianze di alto valore dell’autentica formulazione. Il nostro sapere su queste pratiche viene arricchito da una nuova lettera di Agostino, che giunge come un vento fresco tra le vecchie foglie. L’ultimo dei 29 pezzi della corrispondenza agostiniana, che riemersero alla luce circa 35 anni fa, è una lettera a Paolino di Milano, il biografo di Sant’Ambrogio.56 Paolino aveva inviato al vescovo di Ippona degli atti dei martiri – sia delle narrazioni, sia degli atti in senso stretto, cioè protocolli processuali (gesta forensia) – con la richiesta ad Agostino, che questi potesse elaborare il materiale nel suo stile proprio. Questi però rifiuta, perché in un caso considera il suo lavoro come superfluo e nell’altro addirittura dannoso. La lettura dei semplici protocolli gli aveva, infatti, procurato un’immensa gioia e temeva che la sincera commozione che aveva provato durante la lettura potesse venire indebolita da una riproduzione narrativa dei contenuti. Paolino, prosegue, deve aver frainteso un colloquio che egli aveva avuto con lui su questa faccenda; ha espresso il suo interesse per delle dichiarazioni che non sono rintracciabili nei gesta forensia. Questo tipo di indicazioni aggiuntive, che integrarono in modo gradito le conoscenze sui martiri, sarebbero potute venir date da Ambrogio, e anche lo sconosciuto redattore degli Atti di Cipriano avrebbe potuto contribuire con alcuni dettagli che mancavano nei gesta forensia. Egli però non è nella condizione di fare ciò e ripete: “se io solo raccontassi con parole mie quello che leggo nei gesta publica, ne deformerei più che chiarirne il contenuto” (decolorare id potius quam illustrare conabor).” Così alta era la stima del grande retore e letterato verso i sobri rapporti dei protocolli ufficiali! Ma già la sola richiesta che Paolino rivolse al vescovo di Ippona ci richiama alla coscienza, che c’è anche un altro metodo per servire la verità.

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E così ci troviamo di fronte al problema di come il conflitto semantico, che abbiamo osservato sulla scorta delle passions historiques, si rifletta nella tradizione leggendaria. Se effettivamente questo conflitto costituiva una caratteristica fondamentale nel confronto tra martiri e persecutori, allora dovrebbe essere possibile scoprirlo anche nei testi più tardi, o anzi: possiamo fondatamente sperare che proprio in questi testi esso si delinei con particolare evidenza, poiché è sempre la pianta pienamente sviluppata che fa meglio vedere che cosa fosse racchiuso nel seme. Possiamo aspettarci che i risultati gettino luce sugli inizi. E la nostra aspettativa non viene delusa; resta però una fortuna singolare il fatto che essa si avveri come meglio non ci si augurerebbe: con la passione di san Lorenzo, di un martire che dal tempo dei grandi Padri della Chiesa godette della venerazione dei secoli quasi come nessun altro dei santi romani, e che come pochi ispirò il culto, la letteratura e l’arte della Chiesa.

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Le primissime notizie su Lorenzo risalgono a Damaso, Ambrogio e Prudenzio. Qui possiamo trascurare gli epigrammi di Damaso,57 poiché non dicono nulla sull’interrogatorio e le parole del martire, cioè proprio su quell’aspetto del martirio di cui ci stiamo occupando. Il primo che ne parli è Ambrogio nel De officiis,58 che fu composto dopo il 386:

“Infatti, a chi gli chiedeva i tesori della Chiesa (Lorenzo) promise di mostrarli. Il giorno seguente condusse i poveri. Interrogato dove fossero i tesori promessi, indicò i poveri dicendo: «Questi sono i tesori della Chiesa». E sono veramente tesori quelli in cui c’è Cristo, in cui c’è la garanzia di Cristo.59 In fine l’Apostolo dice (2 Cor 4,7): “Abbiamo codesto tesoro in vasi di coccio.”60 Quali tesori più preziosi ha Cristo di quelli nei quali ha detto di trovarsi? Così infatti sta scritto (Mt 25,35): “Ho avuto fame, e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete, e mi avete dato da bere; ero pellegrino, e mi avete ospitato.” E più sotto (Mt 25,40): “Ciò che avete fatto ad uno di questi, l’avete fatto a me.” Quali tesori più preziosi ha Gesù di quelli nei quali ama mostrarsi? Tali tesori mostrò Lorenzo e vinse perché nemmeno il persecutore potè sottrarglieli. Ioachin, che durante l’assedio custodiva l’oro invece di distribuirlo per procurare cibo, si vide spogliato dell’oro e trascinato in schiavitù (4 Reg 24,10ff.). Lorenzo, che aveva preferito distribuire ai poveri l’oro della Chiesa piuttosto che metterlo da parte per il persecutore, ottenne, per la singolare accortezza della sua interpretazione, la ricca corona del martirio”.

La caratteristica eminente della confessione cristiana, di cui abbiamo seguito la traccia, risalta qui con grande nettezza. La discussione s’incentra sul concetto di “tesoro” (thesaurus, thesauri), che nel passo citato compare otto volte. Con “tesoro” il diacono intende qualcosa di completamente diverso dal persecutore e la sua interpretazione viene confermata da Dio, che appunto per questo lo premia col martirio. Ma ciò significa: in questa interpretazione non si estrinsecano un gioco di pensieri e l’ingegnosità umana; piuttosto, il santo coglie uno stato di cose oggettivo, un’analogia che esiste nella realtà e che l’uomo si scopre, ma non inventa. La cosa più preziosa (il tesoro, l’oro) sono i poveri, perché in essi la Chiesa ha Cristo. Decisive sono le parole del Signore sul Giudizio Universale che vengono qui citate: «Poiché io ho avuto fame, io ho avuto sete, io ero pellegrino».

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Più volte Giovanni Crisostomo ha dato risalto a questa equiparazione mistica dei poveri con Cristo. In una delle sue prediche il Boccadoro dice:61

Vuoi onorare il corpo di Cristo? Allora non distogliere lo sguardo da esso, quando è ignudo. Non onorarlo qui (nella chiesa) con vestimenti di seta, mentre fuori stai a vedere come perisca per il gelo e la nudità. Poiché colui il quale disse: “Questo è il mio corpo” (Mt 26,26) e col fatto confermò la parola (τῷ λόγῳ τὸ πρᾶγμα βεβαιώσας), disse anche (cfr. Mt 25,42): “Avevo fame, e non mi avete saziato” e (Mt 25,45): “Quello che non avete fatto al più piccolo di costoro, non lo avete fatto a me”.

Le frasi del Padre della Chiesa greco provano come dobbiamo tener lungi da noi l’idea che si tratti di un mero gioco di parole. Crisostomo non esita a ricorrere a quelle parole che si trovano nel centro della religione cristiana e del suo culto, per imprimere nell’animo il riferimento ad una realtà (πρᾶγμα) che è presente in ambedue i detti del Signore – senza che da ciò si debba concludere che egli non abbia distinto le due realtà! Per la stessa ragione, nel mantello che aveva dato al povero ignudo alla porta di Amiens, può mostrarsi a S. Martino Cristo stesso. La visione è un mezzo speciale per rendere visibile quella realtà. Questa concezione è espressa anche nel passo famoso della Vita di San Martino: “Martino, il quale ancora non è che un catecumeno, mi ha rivestito con questa veste” dice il Signore agli angeli.62 Si vede qui come le parole assumano nuovi significati perché compaiono nuove cose. Nel poeta biblico Giovenco si trova un verso che potrebbe servire di motto a tutto questo capitolo della storia della lingua e dello spirito: Accipite ergo, novis quae sit sententia rebus.63 E con questo verso si potrebbero intitolare anche molti discorsi dei martiri; perchè questo è ciò che essi vogliono dire, ciò che vogliono annunciare ai loro giudici. Come Sperato, il portavoce dei martiri scillitani, riprendendo un’espressione del proconsole parla del mysterium simplicitatis, così anche Lorenzo (o Ambrogio) avrebbe potuto richiamarsi al mistero del (vero) tesoro oppure al mysterium paupertatis.64

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E tuttavia in questo racconto di Ambrogio, pur così conciso e disadorno, notiamo un tratto singolare, una peculiarità la quale sì fa emergere il nocciolo del conflitto semantico, ma suscita d’altro canto l’impressione che questo conflitto sia stato oggetto di una posteriore elaborazione: il conflitto sul senso delle parole si manifesta in una azione. Il martire, dopo che ha promesso di portare i tesori, viene provvisoriamente rilasciato e ciò che poi in realtà presenta, sono i poveri. È difficile credere che una cosa del genere fosse possibile nel 258, durante la persecuzione di Valeriano. Certo è comunque che nel martirio di Lorenzo l’elemento drammatico nella lotta per il senso delle parole, che era stato notato già da Eusebio, compare in una forma nuova. Un elemento drammatico è dato anche dal fatto che Lorenzo esce “vincitore” dalla lotta in quanto sottrae al persecutore i beni materiali della Chiesa, avendoli impiegati già da tempo a pro’ dei poveri, i veri tesori. Qui è presente l’idea dei tesori in cielo (secondo Mt 6,19 e seguenti.), che si associa al nocciolo vero e proprio dell’analogia, l’equiparazione di Cristo coi poveri. Il fatto che il senso spirituale della parola thesaurus (thesaurizare) fosse già presente nel Nuovo Testamento, ha senza dubbio favorito la “accorta interpretazione” del diacono. Forse sembrerà cosa troppo audace, se ora ritorniamo da qui alla passione di Cristo in Giovanni; i fatti sono completamente diversi. Un certo parallelismo c’è però nella circostanza che in ambedue i casi la differenza dei piani di significato nel pensiero e nel linguaggio, come anche l’equivoco che ne risulta, assumono forma di azioni e di scene: l’esibizione dei ‘tesori’ da un lato, il ‘re’ incoronato di spine e l’ecce homo dall’altro.

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Ambrogio ha intessuto la presentazione dei tesori anche nell’inno a Lorenzo (Apostolorum supparem).65 La scena qui doveva essere breve; essa richiede nondimeno tre delle otto strofe e contiene tutti gli aspetti essenziali. Così, grazie ad Ambrogio, una tradizione che verosimilmente era passata di bocca in bocca acquista nella poesia forma d’arte e viene fissata per iscritto; ma grazie ad Ambrogio essa ritorna anche, nell’inno cantato, al popolo, approfondendo ed ampliando la propria efficacia;66 e grazie ad Ambrogio essa assurge d’altra parte ai vertici della letteratura. I canti del vescovo hanno infatti ispirato anche gli artistici inni di Prudenzio. L’inno che egli dedica a Lorenzo adotta la strofa ambrosiana,67 ma con i suoi 584 versi supera di molto l’ampiezza dell’inno ambrosiano regolare, con le sue otto strofe di quattro versi ciascuna. La maggiore ampiezza di questa poesia d’arte consente all’autore di sviluppare in tutte le direzioni il nocciolo drammatico della vicenda; ottanta strofe occorrono a Prudenzio per questo scopo.68 Per prima cosa egli crea i presupposti di un duello vero e proprio, procurando al martire un vero antagonista, nella persona del prefetto della città. L’avidità di denaro e di onori del prefetto introducono fin dall’inizio un elemento di tensione e di movimento nella vicenda. Richiamandosi alla parola del Signore: “Date a Cesare quel che è di Cesare” (Mt 22,21) il prefetto reclama la consegna del denaro e conclude con la pretesa: Nummos libentes reddite Estote verbis divites.69 La risposta del diacono mira a confermare l’affermazione secondo cui la Chiesa è ricca:70 essa, dice Lorenzo, è più ricca dell’imperatore stesso.71 Uno dopo l’altro si susseguono i nomi a designare tesori di ogni sorta; le aspettative s’ingigantiscono. Il termine fissato è di tre giorni, e per tre giorni Lorenzo corre per la città, radunando i poveri e gli ammalati, che egli conosce perchè da sempre li mantiene coi mezzi della Chiesa.72 Alla fine il tempo stringe; anche il terzo giorno è già quasi passato, quando finalmente li ha tutti schierati davanti alla chiesa e ha registrato i loro nomi. Lorenzo fa venire il prefetto, gli promette che ora potrà vedere portici ricolmi di tesori. La tensione è al massimo. Il prefetto accorre – e resta di stucco. Grida supplichevoli di mendicanti lo accolgono. Egli rivolge il suo sguardo irato su Lorenzo, ma prima ancora che possa ritrovare la parola il martire approfitta dell’occasione per tenere la sua predica.73 E una predica di missione. Quando alla fine Lorenzo invita il prefetto ad accogliere i poveri alla stregua di tesori e ad arricchire con essi la città di Roma, il fisco imperiale ed anzi anche se stesso, s’intuisce come la collera a lungo accumulatasi del persecutore dei cristiani sia sul punto di esplodere.

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Assai significativo è però il modo in cui dà sfogo alla propria rabbia: si sente beffato con giochi di parole!74 Quello che abbiamo definito il conflitto semantico, raggiunge in Prudenzio la sua piena, artistica espressione:

313 Ridemur, exclamat furens
       praefectus, et miris modis
315 per tot figuras ludimur,
       et vivit insanum caput!

       Impune tantas, furcifer,
       strophas cavillo mimico
       te nexuisse existimas,
320 dum scurra saltas fabulam?

       Concinna visa urbanitas
       tractare nosmet ludicris?
       egon cachinnis venditus
       acroma festivum fui?

«Veniamo derisi» esclama il prefetto furibondo, «in una maniera strana ci si fa gioco di noi con tante figure di parola – eppure vive ancora, quel pazzo! Impunemente, furfante,75 credi forse di aver tessuto con canzonatura da commediante tante astuzie, mentre tu come un buffone recitavi la tua commedia? Ti è parsa un’arguzia di bel garbo, trattarmi con scherzi? ed io, offerto in vendita alle risate, sono stato un bel numero?»76

Qui tutto alita lo spirito del mimo. Nel martire il prefetto vede il burlone che tesse le fila, e se stesso nella parte dello stupido.77 Per lui il mysterium paupertatis non è una realtà, e di conseguenza il dramma è una farsa. Egli ha sì compreso come le cose acquistino un altro significato, ma nella dislocazione del senso non può vedere che un trucco linguistico. Allora come oggi giocare col duplice significato delle parole era una delle maniere più diffuse per ottenere effetti comici, nella vita quotidiana, nell’oratoria e, più ancora, sulla scena.78 Perciò l’accorta ermeneutica spirituale per la quale Ambrogio celebra il santo consiste per il prefetto romano unicamente in una serie di metafore premeditate e di astute ambivalenze, quali egli conosce appunto dallo spettacolo comico della sua epoca. All’inizio egli aveva preteso che i cristiani limitassero i loro possessi alle parole di cui sono notoriamente ricchi;79 ed ora scopre in sé la vittima di tale ricchezza. Il conflitto dei significati, che conosciamo dai verbali degli interrogatori storici, in Prudenzio viene, per così dire, compiutamente messo in scena. In un unico punto si accende l’antitesi delle visioni del mondo e divampa in chiara fiamma.80

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Come sappiamo da Agostino,81 a Cartagine, in occasione della festa di San Lorenzo, fu data lettura del trattato di Cipriano Ad Fortunatum (De exhortatione martyrii), perchè allora gli atti di questo martire mancavano. Ma nelle sue prediche per la festa Agostino non esitò a trattare la storia di San Lorenzo, pur precisando che essa si basava sulla tradizione: opes Ecclesiae ab illo a persecutore quaerebantur, sicut traditur.82 La tradizione viene trasmessa dai Padri del quinto secolo, viene ulteriormente sviluppata negli atti posteriori e continua ad essere coltivata nel Medioevo, in particolare nella poesia innodica.83 Non è per noi una sorpresa quando alla fine vediamo Lorenzo e i suoi poveri calcare le scene. Il miracle francese del Quattrocento lo ha portato sul palcoscenico. Base del trattamento drammatico è la Legenda Aurea,84 ma già la drammaturgia dell’antico poeta cristiano aveva preparato questo trattamento. Se osserviamo bene questa evoluzione, essa, in fondo, non è che il dispiegarsi di quel “sì” che il Fondatore aveva detto al cospetto del suo giudice: “Sì, io sono re”. Naturalmente non nel senso che questa parola del Signore abbia avuto dappertutto un’efficacia diretta, e neppure per il fatto che la passione di Cristo fu sempre il modello di ogni martirio. Ma sempre o almeno spesso la situazione era simile, la confessione era possibile solo usando in modo nuovo la lingua. I fenomeni linguistici che abbiamo osservato sono testimoni di una profonda commozione, provocata dall’ingresso della nuova religione nel vecchio mondo, sono testimoni di una crisi che progressivamente interessò tutti i campi del pensiero e della vita,85 sono come disse Friedrich von Schlegel, testimoni “jenes denkwürdigsten Geisteskampfs, welchen die Menschheit je dargebothen und in sich durchkämpft hat”.86 Nata dalla religione, e dunque, per sua natura, affatto non letteraria e oltre letteraria, passata nella sfera della cultura scritta e ivi coltivata, la spiritualizzazione della lingua resta comunque un contrassegno del pensiero, della lingua e della scrittura cristiane nel senso più ampio.

Addendum

La dottrina stoica secondo la quale solo il saggio sarebbe libero, felice, ricco, egli solo re (SVF 3, frg. 617), l’ha “trasferita” al pensiero cristiano, secondo la terminologia dei Padri, Clemente Alessandrino. Questi ha dato a questo principio un nuovo fondamento e lo ha reso trasparente nella sua verità: tutte le cose sono dominio di Dio; se noi adempissimo questo precetto, se noi amassimo Dio (Mt 22,37) e venissimo da Lui amati, allora tutte le cose diverrebbero dominio dell’uomo, perché le cose degli amici sono comuni (Plat. Phaedr. 279 C – e oltre). Da ciò ne consegue che “solo il cristiano è timorato di Dio e ricco e razionale e nobile e per questo immagine e somiglianza di Dio” (Clem. Alex. protr. 122,2/4). Vgl. Aug. civ. 4,3 (p. 150,12ss. D.): bonus etiamsi serviat, liber est… eqs.

1Per la traduzione italiana ringrazio il sig. Bruno Argenton () e il dott. Massimiliano Passerini. Una versione molto più ampia di questa relazione si trova nel volume Prudentiana II. Exegetica, München/Leipzig 2001, 322-363. Cito questo volume in forma abbreviata.

2Mt 27,11-14; Mc 15,2-5; cfr. Lc 23,2-3.

3Gv 18,36.

4Aug. in Ioh. tract. 115,2 (CCL 36, 644); cfr. Ioh. Chrys. in Ioh. hom. 83,4 (PG 59, col. 453).

5L’edizione da me utilizzata: Pascal, Les Pensées, Nouvelle Édition annotée par Adolph Espiard, Paris s.d., Bibliothèque Larousse, “Quatrième section, preuves de la religion” 156-158.

6Gv 18,37.

7Aug. in Ioh. tract. 115,3 (CCL 36, 645).

8Gv 18,37.

9Cfr. M.-H. Lagrange, Évangile selon Saint Jean, Paris 1927, 477.

10Gv 19,2-3.

11Gv 18,39; 19,14. 15. 19-22.

12Aug. in Ioh. tract. 115,5 (CCL 36, 646): avelli tamen ex eius corde non potuit Iesum regem esse Iudaeorum, tamquam hoc ibi, sicut in titulo, ipsa veritas fixerit, de qua quid esset interrogavit.

13Gv 19,22.

14Aug. in Ioh. tract. 117,5 (CCL 36, 653); cfr. tit. psalmi 56 et 57.

15Cfr. Aug. civ. 2,6. 19. 28 (60,8 ss.; 76,32 ss.; 95,1 ss. dombart).

16Cfr. Mohrmann, Nach vierzig Jahren: Études sur le latin des chrétiens, vol. 4, Roma 1977, 111-140.

17Ibidem, 136.

18Hor. carm. 2,2, 17-24.

19Crisippo scrisse Περὶ τοῦ κυρίως κεχρῆσθαι Ζήνωνα τοῖς ὀνόμασιν: Diog. L. 7,122 = SVF 3, frg. 617.

20Ivi frg. 617-622; cfr. Max Pohlenz, Die Stoa, Göttingen 31964, 155 ss.

21Ioh. Chrys. in Gen. hom. 17,1 (PG 53, col. 134), citato: Conc. Vaticanum II, Dei Verbum 13: Acta Apostolicae Sedis 58 (1966) 824; cfr. Prudentiana II, 487-489.

22Pascal, Les Pensées, (v. nota 5), 114.

23Mysterium viene spesso chiamato dai Padri il senso spirituale della Sacra Scrittura, cfr. per es. Sedulius, opus paschale 5,17 (CSEL 10, 286,19 ss.): quae sit etiam huius ratio sacramenti (i.e. tituli crucis), absurdum non videtur inquiri, nec enim fugit a magno mysterio, quicquid gestum manifestatur in Christo.

24Cfr. M. Delehaye, Les Passions des martyrs et les genres littéraires, Bruxelles 21966, 11 e seguenti. Per una nuova critica del testo v. O. Zwierlein, Die Urfassungen der Martyria Polycarpi et Pionii und das Corpus Polycarpianum, vol. 2, Berlin/Boston 2014 = “Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte” 116, 37-101.

25Mart. Pion. 5,3-4: H. Musurillo, The Acts of the Christian Martyrs, Oxford 1972, 142.

26Gv 1,9.

27Mart. Pion. 6,1 (p. 144 Musurillo).

28Ivi 6,5.

29Ivi 7,3-5.

30Sembra che questo duplice riferimento sia sfuggito a A. Hilhorst, Commento al Martyrium Pionii, in: A.A.R. Bastiaensen etc. (a cura di), Atti e passioni dei martiri, Milano 1987, 453-477, ivi 461.

31Cfr. Ch. Gnilka, Satura tragica: Prudentiana II, 249-262. Ma il sorriso di Sabina proviene da un sentimento molto diverso, cfr. Prudentiana II, 580-581.

32Mart. Pion. 20,2-3 (p. 162 Musurillo).

33Ap 4,9 etc.; Gv 6,57-58; At 10,42.

34Mart. Pion. 20,5-7 (p. 162 Musurillo).

35Act. Apollon. 30-33 (p. 98 Musurillo).

36Mart. Carpi 28-32 (p. 26 Musurillo).

37Gal 4,19; cfr. 1 Cor 4,15-17.

38Con questo malinteso ci sorprende Musurillo, op. cit. p. XV: “Papylus … gratiously annoys the patient proconsul by an ambiguous answer”.

39Mt 10,19-20.

40Cfr. Ch. Gnilka, Sieben Kapitel über Natur und Menschenleben = Chrêsis. Die Methode der Kirchenväter im Umgang mit der antiken Kultur IX, Basel 2005, 191-192.

41Euseb. mart. Pal. 11,9-13 (GCS 9,2, 937-938.).

42Gal 4,26; Eb 12,22; cfr. Mt 23,9. Per il fondamento biblico e patristico della spiritualizzazione del concetto πατρίς cfr. Prudentiana II, 581.

43Cfr. F. Klingner, Rom als Idee: Römische Geisteswelt, München 51965, 665.

44Cfr. H.A. Gärtner, Die Acta Scillitanorum in literarischer Interpretation: Wiener Studien 102 (1989), 149-167.

45Act. Scill. 1-5 (p. 86 Musurillo, H.).

46Cfr. mart. Conon. 3,2 s. (p. 188 Musurillo): ἐγὼ γὰρ πείθομαι τῷ μεγάλῳ βασιλεῖ Χριστῷ.

47Il testo greco: J. Armitage Robinson, The Passion of S. Perpetua, Appendix: Texts and Studies 1,2, Cambridge 1891, 113-117, ivi p. 113,16 s; il testo latino della recensione più recente: Th. Ruinart, Acta martyrum, Regensburg 1859, 132-134. Cfr. Tert. apol. 47,4 nam et si qua simplicitas erat veritatis, eo magis scrupulositas humana fidem aspernata nutabat.

48Act. Scill. 12 (p. 88 Musurillo): Saturninus proconsul dixit: Quae sunt res in capsa vestra? Speratus dixit: Libri et epistulae Pauli viri iusti. Mi sembra adesso, che et non è esplicativo (“libri, cioè le epistole di Paolo”), ma piuttosto copulativo (“libri e le epistole di Paolo”). Così comprendono la frase anche le due redazioni posteriori: quatuor evangelia (= libri) Domini nostri Iesu Christi et epistolas sancti Pauli et (“cioè”) omnem divinitus inspiratam Scripturam (Robinson, The Passion, 120; cfr. Ruinart, Acta, 133). Per la differenziazione tra libri ed epistulae v. per es. Aug. retract. prol. 1 opuscula mea sive in libris sive in epistulis sive in tractatibus (CSEL 36, 7).

49Initiare però nel senso tecnico del culto di solito viene costruito col dativo: si dice initiare Cereri, Bacchis, mysteriis (ThLL 7,1, col. 1649, 79 e seguenti.; 1650, 59 e seguenti.); cfr. Prudentiana II, 335,57.

50H. Lausberg, Elemente der literarischen Rhetorik, München 21976, 95, § 292.

51Per la terminologia e il metodo dell’ usus iustus (= χρῆσις) v. Ch. Gnilka, Chrêsis. Die Methode der Kirchenväter im Umgang mit der antiken Kultur I. Der Begriff des rechten Gebrauchs, II ed. ampliata, Basel 2012, passim; II. Kultur und Conversion, Basel 1993, 191 s.v. Chrêsis.

52Prudentiana II, 583.

53Pass. Perp. 1,1 (p. 106 Musurillo); cfr. Pass. Marian. 1,3 (p. 194 Musurillo); Euseb. hist. eccl. 5, praef. 2 (GCS 9,1, 400).

54Cfr. Prud. perist. 1,73-78: O vetustatis silentis obsoleta oblivio! Invidentur ista nobis, fama et ipsa extinguitur, Chartulas blasfemus olim nam satelles abstulit eqs.

55Cfr. H. Delehaye, Les Légendes hagiographiques, Bruxelles 41955, 12 e seguenti., 57 e seguenti.

56Aug. epist. 29 Divjak (CSEL 38, 137-138.).

57Damas. carm. 33. 331. 58 Ferrua.

58Ambr. off. 2,140 s. (vol. 2, 72 e seguente Testard); cfr. anche ivi 1,205-207 (vol. 1, 196 e seguente Testard).

59In quibus Christi fides est: il testo qui pone qualche problema, v. Prudentiana II, 349,120.

60Ambrogio prende la voce dell’ apostolo in un senso piuttosto libero, ma non sconveniente, v. Prudentiana II, 349,121.

61Ioh. Chrys. in Mt. hom. 50,3 (PG 58, col. 508), cfr. ivi 4 (col. 509). I poveri che dai Padri vengono identificati con Cristo, di solito sono i poveri e umili cristiani, i fratelli nel senso stretto. Ma questa distinzione non sempre è mantenuta: Prudentiana II, 350,122. Cfr. Conc. Vaticanum II, Lumen gentium 8: Acta Apostolicae Sedis 57 (1965), 12.

62Sulp. Sev. Mart. 3,3 s. (Sources Chrét. 133, p. 258).

63Iuvenc. 2,213 (CSEL 24, p. 51).

64Cfr. Hilar. in psalm. 138,31 (CSEL 22, p. 766) occultum igitur hoc mysterium fuit, quod esset Christus in nobis revelatum autem est Christum esse in nobis, in pauperibus spiritu (cfr. Mt 5,3)… eqs.

65Ambr. hymn. 14: A.S. Walpole, Early Latin Hymns, Cambridge 1922 (repr. Hildesheim 1966) = hymn. 15: W. bulst, Hymni Latini antiquissimi …, Heidelberg 1956 = hymn. 13: J. Fontaine (a cura di), Ambroise de Milan, Hymnes, Paris 1992.

66S. Mazzarino, Storia sociale del vescovo Ambrogio, Roma 1989 = “Problemi e ricerche di storia antica” 4, 100: “Egli (Ambrogio) sentiva che questa era dunque, almeno in un certo senso, poesia ‘popolare’”. Cfr. ivi: “democratizzazione della cultura”.

67Prud. perist. 2 (CSEL 61, 296-317).

68Ivi 2,37-356.

69Ivi, 2,107-108.

70Ivi, 2,113-132.

71Ivi, 2,117-120.

72Ivi, 2,157-160.

73Ivi, 2,185-312.

74Cfr. Ambr. Hymn. 13,27: Avarus inlusus dolet. Questo momento del racconto è allargato e elaborato da Prudenzio.

75Per la parolaccia furcifer v. Ilona Opelt, Die lateinischen Schimpfwörter und verwandte sprachliche Erscheinungen, Heidelberg 1965, 200. 203. 212 etc.

76Bella la traduzione di M. Lavarenne (Prudence, tome 4, Paris 41963, 41): “ j’ai fait un numéro très drôle?”. Festivum acroama è chiamato Verres: Cic. Verr. II 4,49.

77Cfr. L. Friedländer, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms, vol. 2. Leipzig 101922, 114-115; H. Reich, Der Mimus, vol. 1, Berlin 1903, 578 e seguenti.

78Cfr. supra.

79Per l’ambiguum come mezzo dello scherzo v. la teoria retorica: Cic. de or. 2,253-256; Quintil. inst. 6,3,46-52.

80Come tutto il poema di Prudenzio sia sviluppato da questa idea, l’ha ben osservato F. Kudlien, Krankheitsmetaphorik im Laurentiushymnus des Prudentius: Hermes 90 (1962) 104-115, ivi 106.

81Aug. serm. Denis 13,2 (ed. G. Morin: “Miscellanea Agostiniana” 1, Roma 1930, 56).

82Aug. serm. 302,9,8 (PL 38, col. 1388).

83Cfr. Prudentiana II, 361,168.169; 362,170.

84Cfr. Prudentiana II, 362,171.172.

85E perciò una crisi che penetra molto più profondamente e si estende molto più ampiamente rispetto alle crisi sociali e politiche o militari, le quali vengono trattate – anche con riguardo all’epoca tardoantica – in un libro recente: L. Gilhaus et al. (a cura di), Elite und Krise in antiken Gesellschaften, Stuttgart 2016 = Collegium Beatus Rhenanus vol. 5.

86Friedrich von Schlegel, Geschichte der alten und der neuen Literatur, Vorlesungen gehalten in Wien im Jahre 1812, Erster Theil, Wien 1815, 134-135 (cito la prima edizione).