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Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica

Cottidie obsidemur. Vivere da cristiani in un mondo non cristiano: la proposta di Tertulliano

Leonardo Lugaresi

Università di Bologna

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1. Introduzione: il cristianesimo come gruppo minoritario e il suo rapporto con il mondo esterno

Per collocare adeguatamente l’opera diTertulliano nel suo contesto storico e culturale e meglio comprenderne le finalità e il senso, occorre considerare che il cristianesimo è stato, almeno per tutti i primi tre secoli della sua storia, quello che in termini sociologici può essere definito come un gruppo minoritario, cioè un’aggregazione di persone, «differenziate da altre all’interno di una data società […] che vedono se stesse come gruppo dotato di una sua specificità e vengono percepite dall’esterno come tali, con una connotazione negativa».1

Un gruppo, inoltre, che ha avuto per gran parte del periodo considerato dimensioni molto ridotte, anche se in forte crescita: per quanto sia arduo tentare di quantificare la consistenza numerica delle comunità cristiane in rapporto all’intera società imperiale romana – e non solo per il «radicato sdegno degli storici nei confronti delle cifre» che viene loro rimproverato dal sociologo RonaldStark,2ma anche perché i materiali su cui basare un approccio quantitativo al problema, del tipo di quello tentato dallo studioso americano,3sono oggettivamente molto scarsi –, possiamo essere abbastanza sicuri che ancora all’inizio del IV secolo, quandoCostantino decise di “aprire” al cristianesimo assumendolo come cultura di riferimento per il suo progetto politico,4la sua sia stata una scommessa politicamente audace perché puntava tutto su un’entità che era sì certamente rilevante in termini socioculturali, ma ancora nettamente minoritaria nel quadro complessivo dell’impero romano. Come si è detto, numeri è quasi impossibile darne,5tuttavia si può ricordare, a titolo di esempio (per quello che può valere), che a metà del III secoloOrigene, polemizzando conCelso, ammette che i cristiani nel mondo sono ancoraπάνυ ὀλίγοι,6mentreGregorio il Taumaturgo, secondo quanto riferisce il suo panegiristaGregorio di Nissa, più o meno nello stesso periodo, al suo arrivo a Neo-Cesarea nel Ponto vi trova solo diciassette fedeli.7Un riferimento un po’ più affidabile e significativo lo abbiamo forse in una notizia che ci dàEusebio sulla consistenza del clero romano al tempo di papaCornelio (251-253), che ci permette di farci l’idea di una comunità di dimensioni certamente non esigue ma comunque assai ridotte rispetto all’insieme della popolazione dell’Urbe.8In sostanza, quel che si può dire senza tema di smentita è che il cristianesimo dei primi tre secoli dal punto di vista storico-sociologico si presenta come un gruppo decisamente minoritario, irregolarmente distribuito sul territorio dell’Impero, segnato da un ritmo di crescita che si mantiene costantemente alto (o addirittura si accentua), in funzione della spinta missionaria che lo caratterizza per tutto l’arco del periodo considerato.9

Di solito, quando si studia la vicenda dello sviluppo del cristianesimo nel mondo greco-romano si tende ancora a comprenderla prevalentemente secondo la categoria dellacristianizzazione,10e questo sia prima che dopo la cosiddetta “svolta costantiniana”.11È in tale prospettiva che ci si interroga principalmente sulle ragioni e sui modi grazie ai quali il cristianesimo ha “conquistato” il mondo romano,12e dalla stessa impostazione deriva la preminenza che da tempo hanno assunto e tuttora mantengono nel dibattito storiografico tematiche come quella del “conflitto tra cristiani e pagani”,13o come la questione della ellenizzazione del cristianesimo contrapposta alla cristianizzazione dell’ellenismo.14Questo tipo di interpretazione corre però il rischio di un anacronismo, nella forma di una proiezione a ritroso di impostazioni e problematiche che si applicano in modo più appropriato, semmai, solo al periodo successivo alla svolta costantiniana. In altre parole, siccome nel corso del IV-V secolo in effetti è accaduto che l’impero romano sia diventato cristiano, si tende a leggere tutta la vicenda precedente in funzione di questo esito, in una sorta di “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte) scarsamente consapevole e perciò fuorviante.

Pare invece più corretto e fecondo di risultati un approccio alla storia cristiana dei primi tre secoli che sia principalmente interessato a cercare di capire come un gruppo minoritario gestisca il problema della sua sopravvivenza in un contesto culturalmente e socialmente estraneo, se non ostile, che inevitabilmente esercita su di esso una sorta di pressione osmotica intensa e permanente. È appunto a questo senso di “assedio” che si riferisce la citazione tertullianea, «cottidie obsidemur, cottidie prodimur» (Apol. 7,4), richiamata nel titolo di questo articolo. In particolare, è di grande interesse cercare di vedere come il modo di affrontare tale problema abbia inciso sulla capacità di questo gruppo minoritario di non interrompere i rapporti con il mondo esterno ed anzi di esercitare a sua volta una crescente influenza su di esso, sino ad acquisire all’interno della società una posizione di rilievo, assai superiore alla propria consistenza numerica.

Siamo abituati a pensare che la condotta di gruppi minoritari in condizioni simili a quelle dei primi cristiani – poche migliaia (e poi decine di migliaia) di individui, raggruppati in piccole comunità disperse nell’immenso territorio dell’impero, con una forte coscienza della propria diversità rispetto al contesto socio-culturale in cui sono inseriti e di cui subiscono continuamente l’influenza ma senza marcatori di identità facilmente percepibili come la lingua, i codici di abbigliamento e di alimentazione o l’insediamento in porzioni di territorio separate dagli altri –15tenda normalmente a polarizzarsi su una di queste due direttrici opposte: o verso una crescente assimilazione ai modelli culturali prevalenti nell’ambiente di appartenenza (acculturazione), per cui i membri del gruppo finiscono per agire, parlare e pensare nella maggior parte dei casi come tutti gli altri, conservando solo alcuni elementi di diversità riferibili a settori delimitati dell’esistenza (tipicamente le pratiche del culto se si tratta di una minoranza religiosa);16oppure, al contrario, proprio per reagire al pericolo dell’assimilazione sentito come esiziale per la propria sopravvivenza, verso un atteggiamento di crescente chiusura rispetto al mondo esterno, nei confronti del quale il gruppo mette in atto una sorta diarroccamento identitario, che lo preserva sì dall’influenza della cultura dominante ma comporta però, di regola, anche una drastica riduzione della sua capacità di rapporto con quel mondo: la chiusura delle reti sociali degli appartenenti al gruppo stesso porta infatti alla pratica impossibilità di comunicare ad altri la propria esperienza di vita e di diffondere le proprie credenze. In termini cristiani, si ha una riduzione, se non addirittura un azzeramento, della spinta missionaria. Una manifestazione estrema di questo atteggiamento, che si potrebbe anche classificare come una terza opzione, è quella che sfocia nel tentativo di uscire completamente dal contesto socioculturale in cui si è inseriti, attuando una qualche forma disecessione, collettiva (con la conseguente la ricerca di una nuova patria, una “terra promessa”), oppure individuale (attraverso l’anacoresi, la “fuga nel deserto”).

Anche senza bisogno di analisi e prove dettagliate, che non è possibile fornire in questa sede, è del tutto evidente, a chi conosca anche solo un po’ la storia del cristianesimo antico, che lungo il corso dei primi tre secoli i cristiani non hanno fatto nessuna delle cose che abbiamo appena detto: non si sono assimilati, perché – nonostante i fiumi d’inchiostro che si sono versati a proposito della presunta ellenizzazione del cristianesimo – se davvero fosse avvenuta una piena e completa assimilazione del cristianesimo all’ellenismo noi oggi non staremmo qui a parlare di esso come una realtà ancora esistente e ben distinta dall’eredità culturale greco-romana; non si sono separati e autoreclusi in un mondo a parte e non hanno assunto la logica della setta17(almeno per quanto riguarda il cristianesimo mainstream: tendenze settarie vi sono state, ma hanno sempre preso, appunto, la via di neo-formazioni che, significativamente, hanno esercitato la loro critica separatrice anzitutto nei confronti della “grande chiesa” compromessa con il mondo;18tanto meno hanno sognato e men che mai progettato un’uscita dal mondo romano, cioè, per dirla con un’immagine scritturistica, una fuga collettiva dall’Egitto (se non in termini allegorici).19I cristiani, come popolo, non hanno mai preso in considerazione la via della secessione: proprioTertulliano, come vedremo, la ipotizza, ma solo per assurdo, come mera possibilità evocata in una sorta di “esperimento mentale”. Certo, a partire dalla fine del III secolo, col monachesimo si avrà nell’esperienza ecclesiale una forma di allontanamento dallapolise di scelta del “deserto” che parrebbe configurarsi come un esempio di questa opzione: essa però riguarda un’élite di individui ed è una “presa di distanza critica” più che un abbandono della città; il monaco esce sì dal contesto sociale urbano, ma mantiene con esso un rapporto molto stretto ed incisivo, perché intrattiene (a volte, suo malgrado, stando alle fonti agiografiche) una relazione con gli altri cristiani che “restano nel mondo” e fa della sua stessa esistenza anacoretica un parametro di giudizio per tutti coloro che continuano a vivere nello spazio urbano.

Esiste però una quarta modalità di rapporto che un gruppo minoritario può intrattenere con il mondo che lo circonda (e che lo “assedia”), ed è quella di entrare con esso inuna relazione fortemente critica– dove per critica si intende la capacità riflessiva di un soggetto di pensare se stesso in rapporto con l’altro e di comunicare all’altro tale riflessione in modo da innescare in lui un processo riflessivo analogo –20e di esercitare, anche in forza della propria capacità di mantenere compattezza e coerenza di comportamenti rispetto ai giudizi così elaborati, un’influenza culturalesulla società, che alla lunga può arrivare a metterne in crisi l’assetto generale (anche se questo, almeno nel caso del cristianesimo antico, non è l’esito di una precisa intenzione programmatica, ma piuttosto la risultante di una condotta che mirava anzitutto a salvaguardare la propria identità).21La domanda fondamentale che ci dovremmo porre, dunque, non è: «come hanno fatto i cristiani a conquistare l’impero romano?», bensì: «come hanno fatto a vivere da cristiani in un mondo completamente non-cristiano», cioè da loro percepito come estraneo e/o ostile aCristo?

Di nuovo, senza bisogno di ricorrere ad analisi e prove dettagliata, appare abbastanza pacifico che il cristianesimo è stato effettivamente capace di realizzare, nell’arco di alcuni secoli, un vero cambiamento di paradigmi culturali (visione del mondo, modelli di comportamento, forme espressive), acquisendo una posizione via via sempre meno marginale nello spazio pubblico e incidendo in misura crescente sul discorso che in esso si svolge. Il cristianesimo nel mondo antico è così passato – nell’arco di circa tre secoli – dallo stigma diexitiabilis superstitioinvisa a tutti22e didementiaincompatibile con i requisiti minimi di partecipazione alla vita civile23al riconoscimento della sua piena plausibilità come fondamento religioso e culturale dell’impero rifondato daCostantino, senza bisogno che i cristiani fossero diventati nel frattempo la maggioranza (e neppure una cospicua minoranza) della popolazione.24

Senza avere ovviamente la pretesa di affrontare nell’insieme tutta quanta la vastissima problematica che si presenta davanti a noi a partire dal punto di vista sopra indicato, in questa sede ci limiteremo a concentrare l’attenzione su un solo aspetto, quello del ruolo che, in tale processo, ha giocato l’esercizio del giudizio, cioè lakrisiscristiana nei confronti del mondo. Si propone, come ipotesi da verificare, l’idea che un fattore importante dell’efficacia del processo di influenza minoritaria svolto dal cristianesimo sia stato costituito appunto dalla centralità che la dimensione culturale assume nel concreto della vita cristiana attraverso la pratica del giudizio. Il cristianesimo, sin dalle sue prime origini, non è mai stato (solo) un culto, né (solo) un’ortoprassi, intesa come pura e semplice esecuzione di un insieme di regole di comportamento: la fede cristiana comporta sempre l’assiduo esercizio di una critica riflessiva su ogni aspetto della vita personale e sociale perché nella sua prospettiva il fatto diCristo investe l’intera percezione della realtà e la giudica sin nei particolari. I fedeli, pertanto, sono continuamente provocati a ripensare se stessi in relazione aCristo e al mondo in cui vivono e la dimensione del giudizio è perciò essenziale e ineliminabile nell’esperienza cristiana. Spinti dal loro credo a «vagliare tutto e trattenere ciò che è buono»,25i cristiani nell’impero romano hanno così percorso un lungo cammino che non è stato né di assimilazione alla cultura maggioritaria, né di autoghettizzazione o tanto meno di secessione, ma neppure di programmatica ricerca di una posizione di potere che consentisse loro di “conquistare” lo spazio politico, bensì un processo di critica della cultura (e poi di conseguenza dell’assetto sociale e politico) dominante.

È importante chiarire, infatti, che, poiché «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo (ἴνα κρίνῃ τὸν κόσμον), ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17), dal punto di vista cristiano la forma di questo giudizio non è né lacondanna(che significa negazione, rifiuto, esclusione), né l’aperturaindiscriminata, ma appunto lacrisi. Nel suo valore positivo di distinzione tra vero/falso, buono/cattivo, bello/brutto, utile/dannoso, basata sul paragone con un criterio, la crisi è infatti il giudizio che destruttura i sistemi chiusi, ne fa emergere le tensioni e le contraddizioni latenti, trasforma le relazioni interne tra gli elementi che li compongono e mette in discussione le regole del loro funzionamento: in una parola li verifica e li apre al cambiamento.26

La possibilità dellakrisisdipende dal fatto storico dell’incarnazione del Figlio di Dio, che vienenelmondo, ma comealtro dal mondovi introduce un elemento di confronto, uncriterioper l’appunto, di cui la sapienza umana sarebbe altrimenti sprovvista. Può risultare utile ad illustrare questo concetto una citazione dalla prima delleOmelie sull’EsameronediBasilio di Cesarea, che, per quanto tratta da un autore del IV secolo, si attaglia bene anche alla posizione diTertulliano: in quel discorso il grande padre cappadoce osserva ad un certo punto che la sapienza mondana, cioè la scienza dei Greci, è sì capace di misurare tutto il visibile ma, affascinata com’è dalla circolarità del movimento cosmico, non riesce a concepirne un principio nel tempo e così reputa che il mondo sia eterno perché «senza principio». Ciò che non conosce è: «In principio Diocreò».27Aperta a una dimensione esclusivamente spaziale e chiusa a quella temporale, la filosofia della natura dei pagani è incapace di giudicare le vicende del mondo perché non può coglierne il senso: i suoi esponenti, infatti, sanno osservare, descrivere, contare e misurare tutto il mondo ma non hanno trovato un solo mezzo (unaμηχανή, diceBasilio) per arrivare

a pensare Dio creatore dell’universo e giusto giudice (πρὸς τὸ τὸνΘεὸν ἐννοῆσαι ποιητὴν τοῦ παντός, καὶ κριτὴν δίκαιον), che assegna la giusta retribuzione per le azioni compiute; né per farsi un’idea della fine del mondo conforme alla dottrina del giudizio (οὐδὲτῷ περὶ τῆς κρίσεως λόγῳ τὴν ἀκόλουθον τῆς συντελείας ἔννοιανἐπιγνῶναι).28

In altre parole, ciò cheBasilio vuole dire è che senza principio (e conseguentemente senza fine) non è possibile lakrisisdel mondo, perché il mondo, eternamente uguale a se stesso al di là delle sue apparenze cangianti, non può essere messo a confronto con altro da sé, con qualcosa (o Qualcuno) che viene prima o viene dopo di esso (né che sta sotto o sopra esso). Latheologia physicadei filosofi pagani non è perciò in grado di giudicare il mondo perché non ha un punto di appoggio esterno ad esso su cui far leva: nell’incarnazione del Figlio di Dio, i cristiani ritengono invece di avere trovato il punto di appoggio dellaμηχανήche consente loro di attivare l’operazione critica. È con questa coscienza della “forza critica” della creazione e dell’incarnazione cheTertulliano, più di un secolo e mezzo prima diBasilio, si accinge a giudicare la realtà del mondo che “assedia” il cristianesimo.

2. Lakrisiscome forma cristiana di rapporto con il mondo pagano nella proposta di Tertulliano

Nello specifico, ci interessa cercare di capire come viene impostato, nell’opera diTertulliano, il problema del rapporto tra i cristiani e le istituzioni, i sistemi simbolici, i valori e le pratiche fondamentali della vita civile dellapolistardoantica: dal sistema cultuale a quello deiludie a quello dell’istruzione, dalla connotazione degli spazi e dei tempi alla gestione del corpo, eccetera. La proposta cristiana diTertulliano, rispetto a tutti questi campi, si presenta come un fattore critico, un elemento “perturbante” destinato a mettere in crisi gli equilibri in essi consolidati. In particolare, vorremmo verificare l’ipotesi che la posizione assunta daTertulliano – sia in funzione apologetica, sia quando si muove su un piano più strettamente catechetico –, lungi dall’avere esclusivamente una funzione difensiva, di profilassi del piccolo gregge cristiano rispetto al pericolo di una contaminazione pagana, o offensiva (nel senso di una strategia di conquista dello spazio politico), sia piuttosto l’espressione di unacriticadella cultura pagana capace di coglierne punti deboli, contraddizioni e tensioni interne preesistenti e quindi di promuoverne la “crisi”.29È in quest’ottica che va considerato e meglio compreso quel tono fortemente polemico che la storiografia ha sempre indicato come una caratteristica peculiare dell’apologetica tertullianea rispetto agli altri autori cristiani del II secolo, ma che spesso si tende a ridurre ad tratto idiosincratico dell’«ardens vir […] acris et vehementis ingenii» di cui parlava giàGirolamo,30o ad ascrivere al suo asserito “estremismo ideologico”31o alla sua “africanità”,32oppure a riportare a contingenze esterne che occorre tarare caso per caso al fine di giungere ad una comprensione più corretta del nostro autore.33Così, in particolare, il carattere tipicamente “ritorsivo” dell’argomentazione tertullianea – che sovente non si limita a stornare accuse e sospetti dai cristiani ma li ribatte contro i pagani – è stato visto per lo più come un artificio retorico (una tecnica buona per gli avvocati, a cui, come si sa, tutto è lecito pur di sostenere la propria causa), se non addirittura come il sintomo di un temperamento aggressivo non bene compensato sul piano psicologico, ma ci sembra che spesso non sia stato adeguatamente compreso nel suo valore culturale.34La volontà diTertulliano di spostare ilfocusdella discussione proprio sui pagani, da lui programmaticamente dichiarata all’inizio dell’Apologeticum, va presa molto più sul serio di quanto non si faccia abitualmente:35

Mi fermerò a trattare senz’altro la causa della nostra innocenza; né soltanto confuterò ciò che ci è imputato, ma anche lo ritorcerò contro coloro che ce lo imputano, affinché gli uomini sappiano anche da ciò che fra i cristiani non si trova quello che essi non ignorano trovarsi tra loro, e insieme perché arrossiscano di accusare, non dico essi, pessimi, delle persone ottime, ma anche, come essi vogliono, dei loro simili.36

Risulta molto chiaramente, da queste parole, che laretorsiotertullianea si propone consapevolmente come una forma di giudizio che “mette in crisi” la cultura pagana perché la costringe, per così dire, a rispecchiarsi nella sua controparte cristiana, attivando in tal modo – grazie al confronto obbligato con un avversario che a questo punto non è più totalmente difforme ma viene riconosciuto simile per contrasto (come in una sorta di negativo fotografico) –, un processo diriflessività. La ritorsione contro i pagani della denuncia dei mali da loro stessi falsamente imputati ai cristiani serve infatti a mettere ciascuno di essi nella condizione di dover “pensare” (cioè di sentire il peso, secondo il significato etimologico del verbo) della propria colpa, a partire dalla dimostrata innocenza dell’alter egocristiano con cui si è dovuto giocoforza confrontare.

2.1 Il cristianesimo nella società: nonfactiomacuria

Il primo aspetto di questa “modalità critica” di gestione del rapporto tra cristianesimo e società pagana che vogliamo prendere in considerazione si riferisce proprio alla sua autopresentazione come gruppo sociale all’interno della comunità civile. Come sopra si è accennato, nel cristianesimo antico è sempre stata viva la consapevolezza di essere un gruppo minoritario e questo nel linguaggio diTertulliano si riflette nell’impiego, del tutto normale, del terminesectaper designare la comunità cristiana. Così, per fare un solo esempio, l’Ad Scapulamsi apre con l’esplicito, e si direbbe quasi pacifico, riconoscimento dell’ostilità pagana come una condizione implicitamente prevista nel patto di adesione alla “setta” cristiana:

Noi di certo non ci spaventiamo né abbiamo paura di quelle cose che patiamo da parte di quelli che non ci conoscono, dal momento che siamo entrati in questasectaavendo evidentemente accettato la condizione di quel patto, di affrontare queste battaglie avendo rinunciato anche alle nostre vite […].37

Anche se in latino la parolasectanon ha di regola una connotazione negativa del tipo di quella che il derivatosettaha assunto in italiano, non vi è dubbio che essa veicoli l’idea di una sequela che distingue e separa una parte dal tutto, creando cosìipso factouna tensione tra la parte e il tutto:sectasignifica innanzitutto “condotta, regola di vita” e poi “partito”, “scuola filosofica”, per applicarsi infine, come in questo caso, anche ad un gruppo religioso. La tensione tra questo elemento parziale e l’insieme da cui si distingue viene però maggiormente sottolineata dal terminefactio, la cui connotazione semantica implica in modo molto più forte l’idea di un gruppo particolare che entra in conflitto, o comunque è, almeno potenzialmente, in opposizione alla società nel suo insieme, di cui mette in discussione i fini e tende a minare la pace e la concordia. Può la comunità cristiana definirsi, o lasciarsi definire, comefactio?

Tertulliano dedica a questo argomento una lunga sezione dell’Apologeticum, dal capitolo 38 al capitolo 41, partendo dall’affermazione che il cristianesimo non può essere annoverato tra lefactiones illicitae, dato che non fa nulla di ciò che giustifica i provvedimenti contro di esse.38La ragione per cui lefactionessono vietate, infatti, «de providentia constatmodestiae publicae, ne civitas in partes scinderetur» (38,2). Lafactio, per sua natura, è una parte e, in quanto tale, persegue interessi particolari che non possono che entrare in rotta di collisione con l’obiettivo primario del potere “ecumenico” dell’impero, che è quello di preservare l’unità e la stabilità dello spazio politico, dunque è logico che la legislazione imperiale la reprima. I cristiani, però, argomenta il Nostro, sono anch’essi per natura “ecumenici” e quindi del tutto alieni da qualsiasi spirito di parte; perciò non si riconoscono in alcuna categoria partitica:

Ma per noi, che siamo indifferenti rispetto a qualsiasi ambizione di gloria e di prestigio, non c’è alcuna necessità di [essere riconosciuti come /agire come] un gruppo sociale e nulla ci è più estraneo della politica. Riconosciamo un solo stato che comprende tutti, il mondo.39

Si noti che quiTertulliano, nella specifica prospettiva di questa impegnativa asserzione, si spinge sino a rinunciare a qualificare il cristianesimo come uncoetus, e quindi, si direbbe, a rivendicare per esso una visibilità pubblica e una rilevanza sociologica. Rinuncia che può apparire in contrasto con ciò che egli stesso afferma poco dopo, all’inizio delcapitolo 39, dove parla senza alcuna remora, come vedremo tra un momento, diChristiana factio, dicoetuse dicongregatioper qualificare la natura del soggetto cristiano (cfr.39,1-2). Il senso di questa particolare presa di posizione, «nobis nulla est necessitas coetus», è dunque quello di mettere in chiaro che non esiste, nella concezione diTertulliano, un soggetto cristiano che come tale si concepisca comepartedel corpo politico, cioè che siainternoallo spazio politico. Il cristianesimo ovviamente c’è, nellapolis, ed è ben visibile, ma è al di là, o se si vuole al di sopra dello spazio politico perché il suo orizzonte è ecumenico (di un’ecumene che però, a sua volta, viene politicamente definita comeomnium res publica). In questa prospettiva – e solo in questa prospettiva, potremmo aggiungere noi – si può arrivare a dire che il cristianesimo per essere presente nel mondo non ha bisogno di schierarsi, anzi rifiuta la logica particolaristica degli schieramenti. Ciò non significa, tuttavia, che i cristiani non debbano compiere delle scelte di rottura rispetto al contesto sociale in cui si trovano e quindi andare controcorrente, bensì che tali scelte vanno interpretate e comprese in un modo completamente diverso da quello della logica politica come viene comunemente intesa.

Così, ad esempio, l’astensione dagli spettacoli – che veniva aspramente rimproverata ai cristiani come una forma di diserzione dai doveri di integrazione civica e dunque come un atto ostile nei confronti dellapolis – nell’ottica tertullianea assume un significato opposto perché invece di costituire un momento di rottura della pace sociale si presenta addirittura come il rifiuto di prendere parte a manifestazioni emotivamente destabilizzanti e potenzialmente divisive (è il tema tante volte ripetuto dalla pubblicistica cristiana dellainsaniacirci).40Lo stesso rilievo può essere fatto nei riguardi di altre forme espressive dellasociabilitépagana a cui i cristiani non partecipano, come iconvivia, la cui pericolosità sociale viene implicitamente denunciata daTertulliano attraverso il confronto con il pacifico svolgimento delle agapi cristiane: se dagli eccessi dei banchetti pagani conseguono risse e disordini, cioè ancora una volta fenomeni di turbamento dell’ordine pubblico, dalle sobrie cene cristiane

ci si allontana non per formare bande di assassini né schiere di vagabondi né per intraprendere azioni sfrenate, ma per continuare la stessa cura della moderazione e della pudicizia, come persone che hanno assunto non tanto del cibo quando un insegnamento.41

A questo puntoTertulliano fa un’osservazione interessantissima, chiamando in causa un’altrasecta, quella epicurea, significativamente la più lontana che si possa concepire rispetto al cristianesimo:

È stato lecito per gli epicurei decretare un’altra verità sul piacere, cioè la tranquillità dell’animo: in che cosa vi offendiamo noi se abbiamo un altro concetto di piacere? In fin dei conti, se non vogliamo divertirci è un danno per noi, in tutti i casi, non per voi. Ma noi riproviamo ciò che piace a voi! Neanche a voi piacciono le nostre cose.42

L’apparente incidentalità di questa annotazione non deve trarci in inganno: quiTertulliano fa un passo d’importanza fondamentale nella sua strategia, perché introduce quella che si potrebbe definire una ridefinizione del campo di gioco rispetto alle aspettative dei suoi avversari (e dei suoi lettori cristiani!). Ciò che viene messo in discussione, infatti, è il “campo ludico” nel suo sistema di funzionamento basato, come è noto, sull’opposizione tra l’ordinarietà della vita ordinaria e l’eccezionalità dello spazio-tempo ludico, opposizione a cui si lega intrinsecamente (e direi quasi necessariamente) la legittimazione dell’eccesso, della trasgressione, della liberazione dalle regole normali come caratteristica peculiare dellavoluptasludica. Questa modalità di funzionamento, o questohabitus, per dirla conBourdieu,43non è però l’unico e non è onnicomprensivo: esiste già – questo è il senso dell’obiezione diTertulliano – almeno una eccezione che i pagani pacificamente ammettono, giacché adEpicuro e ai suoi seguaci viene concesso di avere un’altra visione e di praticare un’altra modalità di fruizione dellavoluptas, che non prevede affatto lo scatenamento di emozioni violente e la consumazione di piaceri eccessivi ma si basa sulla ricerca dellaanimi aequitas. Ma allora, se le cose stanno così, perché non deve essere consentito anche ai cristiani di giocare, nel campo ludico, con un’altra modalità di intendere lavoluptas? L’assetto del campo di gioco, in questo modo, risulta profondamente modificato, e non solo nel senso di una sua declinazione pluralistica:Tertulliano fa un passo ulteriore perché insinua che questa compresenza divoluptatesdiverse e incompatibili potrebbe indurre sia i cristiani che i pagani a quella che oggi chiameremmo una riflessività dialogica: «reprobamus, quae placent vobis nec vos nostra delectant», noi critichiamo quello che piace a voi, mentre a voi non piacciono “i nostri piaceri”.

Compiuto questo cambio di passo, che viene sperimentato su una questione centrale come quella deiludi, il nostro autore può tornare sulla questione se il cristianesimo sia unafactioe – ora sì! – riconoscere apertamente il carattere di “gruppo minoritario” distinto dal resto dellapolise in rapporto con essa: «Ora esporrò io stesso le attività della fazione cristiana per mostrare che sono buone, dopo che ho confutato [la tesi] che siano cattive».44Christiana factiodiventa una formula che si può proclamare senza infingimenti, e la profondità e densità teologica del vincolo associativo che lega i cristiani tra loro è esplicitamente dichiarata tramite l’uso dell’impegnativa metafora del corpo: «Corpus sumus de conscientia religionis et disciplinae unitate et spei foedere» (39,1).45Tale affermazione non costituisce più un problema in quanto è ormai chiaro che essa non mette in discussione l’assunto di partenza, cioè che il cristianesimo non è un partito che, in quanto tale, possa minare l’unità dello spazio politico e l’ordine della comunità civile: l’aggregarsi della comunità cristiana – sostiene infattiTertulliano – è per «assediare Dio con le preghiere» a beneficio di tutti.

Ci raduniamo per formare un gruppo e un’assemblea per circondare Dio, come con un manipolo compatto con le nostre preghiere. Questa violenza è gradita a Dio. Preghiamo anche per gli imperatori, per i loro ministri e funzionari, per la stabilità del mondo, per la tranquillità della situazione politica, per ritardare la fine.46

Se dunque vogliamo considerarlo unafactio, il cristianesimo è unafactiobuona, la cui azione è positiva, anzi indispensabile per tutti: ilcoetuscristiano è un elemento fondamentale di stabilità per tutto l’impero. Tutto il resto del lungo capitolo39 è dedicato daTertulliano ad una dettagliata descrizione dellapoliteiadei cristiani, dai momenti di riunione catechetica (39,3-4) al ruolo degli anziani che li presiedono (39,5), alla gestione delle risorse economiche (39,5-6), all’etica sessuale (39,11-13), alle agapi fraterne (39,14.16-19). Questa sorta di autocertificazione di buona condotta – nella quale non è però mai assente l’elemento del giudizio sulla realtà esterna, che è anche la provocazione ad una riflessività autocritica da parte pagana –47culmina in una formula sintetica che risignifica radicalmente il concetto difactio, ridisegnandone la posizione rispetto al campo di riferimento: «Cum probi, cumboni coeunt, cum pii, cum casti congregantur, non est factio dicenda, sed curia» (39,21). Nonfactio, cioè gruppo minoritario divisivo, elemento centrifugo che esercita una spinta disgregatrice e che è destinato ad essere represso e messo ai margini dal potere politico; macuria, cioè élite al servizio del bene comune (e al governo del sistema che alla cura del bene comune presiede).

Appare del tutto conseguente, nella prospettiva diTertulliano, che a questo puntofactio(questa volta con tutte le connotazioni negative che la parola porta con sé) possa invece essere definita proprio quella costituita dalla maggioranza anticristiana (quale che sia la sua consistenza numerica):

Ma al contrario si deve attribuire il nome di “fazione” a coloro che cospirano per suscitare odio contro i buoni e gli onesti, quelli che gridano contro il sangue degli innocenti, adducendo come pretesti del loro odio anche quella opinione vana per cui ritengono che, fin dall’inizio dei tempi, i cristiani siano la causa di ogni sventura pubblica, di ogni male del popolo. Se il Tevere straripa fino alle mura, se il Nilo non invade i campi, se il cielo resta inerte, se la terra si muove, se c’è la carestia, se c’è la peste, subito si grida: «I cristiani al leone!».48

Come si vede, nella stringente logica della rappresentazione tertullianea le parti si invertono e laretorsioporta a dirigere contro la massa pagana anche un’accusa molto simile a quella capitale diodium humani generische già stigmatizzava la piccola minoranza cristiana al momento del suo primo emergere alla consapevolezza dell’opinione pubblica nella Roma diNerone.49Ora tocca all’oratore cristiano apostrofare gli avversari comeimportunirebus humanise mettere in rilievo che il loro disprezzo del vero Dio nuoce gravemente alla sicurezza e al benessere dello stato romano.50

Per comprendere meglio l’importanza, e in un certo senso anche la novità, dell’operazione tentata daTertulliano può essere opportuno mettere a confronto il quadro della posizione dei cristiani nel mondo che egli, in chiave apologetica, ci dipinge con quello che solo pochi anni prima, e con opposte intenzioni, ne dava il filosofo paganoCelso descrivendo l’azione dei predicatori cristiani. Secondo lui, essi

mostrano chiaramente che desiderano e hanno la possibilità di convincere soltanto la gente sempliciotta, volgare e stupida, schiavi e donnette e giovincelli (τοὺς ἠλιθίους καὶ ἀγεννεῖς καὶ ἀναισθήτουςκαὶ ἀνδράποδα καὶ γύναια καὶ παιδάρια). […] ecco che noi vediamo questa gente, la quale nelle piazze va ad esporre gli arcani della sua dottrina e fa la questua, non accostandosi mai a una riunione di uomini avveduti (φρονίμων ἀνδρῶν σύλλογον), né osando mai svelare in mezzo ad essi i loro più riposti segreti; ma là dove vedono fanciulli e gran numero di schiavi e folla di uomini stupidi (μειράκια καὶ οἰκοτρίβων ὄχλον καὶ ἀνοήτων ἀνθρώπων ὅμιλον), essi vi si precipitano e si pavoneggiano! […] Ecco noi possiamo vedere ancora nelle abitazioni private lavoratori della lana e ciabattini e lavandai e insomma gli uomini più illetterati e grossolani (τοὺςἀπαιδευτοτάτους τε καὶ ἀγροικοτάτους), i quali non oserebbero aprire bocca davanti ai maestri più anziani ed avveduti. Ebbene, una volta che essi hanno tratto in disparte e si sono impadroniti dei ragazzi, ed insieme ad essi di alcune donnicciole ignoranti, allora lanciano delle sentenze stupefacenti […]. E mentre essi stanno parlando, se si accorgono che arriva uno dei maestri di scuola, o una persona intelligente, il padre stesso dei fanciulli, ecco che i più cauti di costoro se la squagliano, mentre i più temerari invitano i fanciulli a ribellarsi; e bisbigliano nell’orecchio che in presenza del padre e dei maestri essi non vogliono né possono spiegare ai fanciulli nulla di buono, perché non vogliono avere nulla a che fare con la stupidità e la rozzezza di quella gente completamente corrotta e immersa nel male fino al collo, e pronta a punire i fanciulli. Se ne hanno voglia, che piantino pure il padre ed i loro maestri di scuola, e si rechino con le donnicciole e con i piccoli compagni di scuola nella capanna del cardatore (τὴνγυναικωνῖτιν)51o del ciabattino (τὸ σκυτεῖον) o nella lavanderia (τὸ κναφε ιον), per poter guadagnare la perfezione: e dicendo queste cose persuadono la gente.52

Quella che emerge dalla pagina diCelso è la descrizione di un gruppo assolutamente marginale, che si muove in maniera semiclandestina negli strati più bassi della società, evitando anche solo il contatto con rappresentanti qualificati della cultura pagana e girando alla larga dai luoghi pubblicamente deputati al confronto e al dibattito culturale e politico.Celso li considera e vuole che il suo lettore li consideri soggetti del tutto estranei al campo della cultura, come simbolicamente indicano i luoghi e gli interlocutori con cui i cristiani, a quanto egli dice, scelgono di interagire. Tale esclusione dal campo della cultura opera come una condanna preventiva: qualunque cosa i sedicenti maestri cristiani possano dire e fare, essi non possono essere presi in considerazione perché sono comunque “fuori”.53Tertulliano, al contrario, li riporta “dentro”, anzi li colloca audacemente (quasi sfrontatamente, si direbbe, se si pensa a quelli che potevano essere in realtà i rapporti di forza esistenti) al centro dello spazio politico.

2.2 La rottura del campo culturale e di quello religioso

Che cosa rende possibile questo sorprendente rovesciamento di prospettiva per cui la posizione del cristianesimo da marginale o addirittura esterna allo spazio politico diviene centrale e ambisce quasi a fare da fulcro di un nuovo sistema che si vorrebbe sostituire al vecchio? Su quale presupposto concettuale può basarsi un’operazione così audace? Credo che non sia esagerato affermare cheTertulliano opera di fatto quella che si potrebbe chiamare una ridefinizione del campo e delle regole con cui si gioca la partita con la cultura ellenistico-romana e un’operazione analoga la compie anche nei confronti del giudasimo. Nei confronti di entrambi i sistemi culturali e religiosi, infatti, egli adotta una linea molto aggressiva, che rompe i confini entro cui essi prevedono che si possa svolgere il dibattito, rifiutando così di farsi rinchiudere in una posizione predeterminata, senza però chiamarsi fuori, anzi pretendendo di avere ugualmente diritto di parola al loro interno, o comunque di poter interloquire con essi parlando il loro linguaggio. Si comporta, appunto, come un giocatore che pretenda di ridefinire i limiti del campo di gioco e le regole della partita.

La sua mossa fondamentale, sin dall’inizio della sua produzione (come è già chiaro nell’Apologeticum, specie alc. 17 e soprattutto nelDetestimonio animaeche è interamente dedicato specificamente a questo argomento), consiste nel fare, per così dire, un passo indietro rispetto al sistema dellapaideia– cioè a quella discriminante fondamentale che distingue e separa la vera umanità dalla barbarie, riconoscendo come uomo a pieno titolo solo colui che è formato dallehumanae litterae–,54per reperireprimao al di qua di tale presupposto, nellasemplicenatura umana creata (che, proprio in quanto creata, ha necessariamente dentro di per sé il riferimento almeno implicito al Dio creatore che la fa), il proprio punto di appoggio, la base da cui muovere verso quello stesso sistema, interpellarlo e metterlo in crisi. È unprimanon cronologico, né semplicemente logico, ma assiologico: la semplice umanità creaturale viene prima, ed è di più dell’humanitasintesa nel senso della “umanità coltivata”, che è il frutto dellapaideia.

Una volta acquisito questo fondamento antropologico,Tertulliano può, partendo di lì, entrare (o rientrare) in dialogo conlacultura, cioè con quella che anche per lui è l’unica cultura esistente, la cultura greco-romana, e servirsi, dainsider, di tutti gli strumenti intellettuali e linguistici che essa gli può fornire. In questa maniera egli costringe la cultura pagana a “uscire di casa”, cioè a non potersi più giovare del controllo del campo. Non c’è più coincidenza tra cultura (pagana) e esperienza umana, perché viene rimosso il pre-giudizio che veramente uomo, pienamente uomo sia solo l’uomo coltivato grazie a quellapaideia. «L’anima semplicetta che sa nulla» (come direbbeDante), perché non è stata formata dallapaideia, non è però unatabula rasa; essa è dotata – ad avviso diTertulliano – della coscienza di alcune evidenze elementari e da quella conoscenza di base il cristiano può partire per fondare la sua critica alla cultura pagana. In altre parole, se prima vedevamoCelso espellere i cristiani dal campo della cultura per squalificarli come interlocutori e metterli fuori gioco, qui conTertulliano assistiamo al tentativo di compiere un’operazione di segno opposto: sono i cristiani che da quel campo sembrano voler uscire, ma per allargarlo e modificarne i confini e le regole di funzionamento.

Si noti che questa operazione intellettuale viene da lui compiuta all’inizio della sua attività, nell’Apologeticume nelDe testimonio animae, che sono come è noto tra le sue prime opere (databili al 197) ma poi rimane come un dato acquisito, che non occorre esplicitare ogni volta ma che alla bisogna è sufficiente richiamare in modo estremamente sintetico, come fa ad esempio nel più tardoAd Scapulam(del 212).55Nell’Apologeticumaveva affermato che l’anima dell’uomo (di ogni uomo), benché «carcere corporis pressa», «institutionibus pravis circumpscripta» e «falsis deis exancillata», quando ritorna in sé e ritrova le sue facoltà naturali chiama Dio con questo nome, che è il nome proprio del vero Dio («deum nominat hoc solo nomine, quia proprio Dei veri»);56non solo, ma riconosce che quel Dio è giudice, ogni volta che pronuncia frasi come «deus videt», «deo commendo» o «deus mihi reddet». Aveva commentato questa osservazione empirica con le celebri parole che tutti ricordiamo: «O testimonium animae naturaliter Christianae!», a cui però fa seguito immediatamente una nota che forse viene meno presa in considerazione: «Denique pronuntians haec non ad Capitolium, sed ad caelumrespicit».57Pronunciando queste parole, l’anima guarda al cielo, non al Campidoglio: quando l’uomo – qualsiasi uomo, anche se asservito ai falsi dèi e chiuso nel sistema dellapravae institutionesdel paganesimo – dal fondo della sua anima si lascia sfuggire quei riferimenti a Dio, è già di fatto uscito dallo spazio dellatheologia civilise si muove semmai in quello dellatheologia physica, per questo non guarda al Campidoglio, guarda al cielo.

Quello che nell’incalzante dettato dell’Apologeticumrimane solo un punto rapidamente accennato all’interno di una più ampia e complessa argomentazione viene messo al centro dell’attenzione e sistematicamente svolto nelDetestimonio animae. Qui viene esplicitamente dichiarata, sin dalle prime battute del breve trattato, la scelta strategica di uscire dal “recinto” dellapaideiagreco-romana, cioè dalla cultura comune, per trovare, al di fuori e prima di essa, una base su cui poggiare lakrisiscristiana del paganesimo. Dopo aver constatato che qualsiasi discorso apologetico cristiano che si lasci totalmente rinchiudere all’interno del campo della cultura dominato dall’avversario (1,1-3) risulta inefficace perché la «humana de incredulitateduritia» (1,3), controllando le regole del gioco, destituisce di valore tutti gli argomenti che i cristiani portano e tutti i riferimenti che fanno a quello stesso patrimonio culturale,Tertulliano annuncia un drastico cambio di rotta:

Ormai dunque non avremo più nulla a che fare con una letteratura e una dottrina il cui successo è perverso, perché ad esse si presta fede più quando sono nel falso che quando sono nel vero.58

Ma questa uscita dal campo della cultura pagana non è una via di fuga per ripararsi nel campo di una “controcultura” cristiana da costruire in alternativa. Gli uomini, osserva argutamente il nostro autore, se non accettano le testimonianze favorevoli alle tesi cristiane di poeti e filosofi, tanto più rifuggono dalle Scritture cristiane, che nessuno legge se non è già convertito: «Tanto abest, ut nostris litteris annuant homines, ad quas nemo venit nisi iam Christianus».59Dunque non basta un cambio diauctores, ci vuole altro: occorre una vera e propria rottura del campo culturale, e questa può avvenire facendolo scontrare con una realtà esterna ad esso:

Una nuova testimonianza io chiamo in causa, perfino più nota di ogni letteratura, più viva di ogni dottrina, più diffusa di qualsiasi pubblicazione, più grande dell’intero uomo, perché è tutto ciò che costituisce l’uomo. Poniti al centro, o anima […] Ma io ti chiamo a deporre non in quanto, formata nelle scuole, esercitata nelle biblioteche, nutrita nelle accademie e nei portici attici, tu erutti la tua sapienza. Mi rivolgo a te semplice e grezza e non istruita e ignorante, come ti possiedono quelli che hanno solo te, quella stessa anima che viene fuori da un crocicchio, da un trivio, da una bottega di tessitore. Mi serve la tua imperizia, giacché alla tua piccola esperienza non crede nessuno.60

La testimonianza dell’anima appare aTertulliano così decisiva perché, come egli mette subito in chiaro, è un’evidenza naturale, anzi creaturale, e in quanto creaturale anche divina. L’autorità dell’anima, infatti, le viene dalla natura che è la sua maestra, e maestro della natura è Dio.61Anche se viene ingannata dal suo avversario, il diavolo, l’anima non perde la memoria dei fondamentali (che Dio l’ha creata, che è buono e giusto, che la giudicherà…) e questo basta a rendere valida la sua testimonianza.62

Allargando la prospettiva dal singolo individuo all’insieme del popolo, si può vedere come dall’idea dell’animanaturaliter christianaTertulliano ricavi la possibilità di sostenere che ogni nazione, in quanto formata da uomini dotati a quel livello elementare di coscienza delle stesse evidenze “cristiane”, sia da considerarsi perciò “cristiana” anch’essa. Di qui gli viene l’ardire di respingere come assolutamente riduttiva la definizione della stirpe cristiana cometertium genus, cioè che vienedopoi greci (e i romani) e gli ebrei e di rivendicare semmai il rango diprimum genus. Tale infatti è, con tutta probabilità, il senso che si deve attribuire a questo passo dell’AdNationes:

Certo, siamo detti “terzo popolo”. Siamo forse cinopenni, sciapodi o antipodi sotterranei? […] Badate bene che quelli che quelli che definite “terzo popolo” non ottengano il primo posto, dal momento che non c’è alcun popolo che non sia cristiano. Perciò, quale che sia il primo popolo, ciò nondimeno è cristiano: con risibile demenza ci definite ultimi e ci chiamate terzi.63

È chiaro il nesso con quanto siamo venuti dicendo: finché si resta soggetti alle regole di campo della cultura, nella tassonomia storica che stabilisce la superiorità di ciò che viene prima rispetto a ciò che viene dopo i cristiani possono al massimo aspirare ad essere riconosciuti come “terzo popolo”, in una insuperabile condizione di alterità e di inferiorità che, comeTertulliano nota argutamente, li assimila a dei “mostri”. Al contrario, una volta compiuta la rottura del campo della cultura, se si prescinde da ogni considerazione etnologica si può arrivare a sostenere chea prioriil “primo popolo”, comunque lo si voglia identificare, è comunquenaturalitercristiano.

C’è però un’obiezione con cuiTertulliano deve fare i conti e che, se non venisse superata, riporterebbe la testimonianza dell’anima all’interno del recinto della cultura, vanificando così tutta l’operazione che egli sta conducendo: quelle che abbiamo chiamato le evidenze naturali (o creaturali) di cui l’anima dà testimonianza non sono forse anch’esse, a ben vedere, dei prodotti culturali e non delle realtà naturali come pretendono di essere? Secondo questa tesi, le «eruptiones animae» non sono affatto l’espressione immediata e veritiera di una «doctrina naturae», né contengono profondi misteri affidati alla coscienza innata («congenitae et ingenitae conscientiae tacitacommissa»), ma sono solo delle opinioni che derivano da ciò che è stato scritto e divulgato («opiniones publicatarum litterarum») da gran tempo e che si sono diffuse sino a diventare patrimonio comune di tutti, anche degli illetterati.64Insomma, ciò che l’anima crede di sapere da sé in realtà lo ha preso, senza esserne consapevole, dalla cultura: è già stato scritto da qualcuno e noi, senza saperlo, lo ripetiamo credendo di parlare “dal cuore”.

La replica diTertulliano a questo temibile argomento è netta: l’anima esiste da ben prima della scrittura e il linguaggio è prima del libro, dunque la letteratura non avrebbe potuto parlare di cose che l’esperienza umana già non conosceva.65L’obiezione, in realtà, parrebbe avere un più solido fondamento, se si va oltre questa ovvia constatazione cronologica e si considera che l’argomento deltestimonium animaeaddotto daTertulliano poggia essenzialmente su un fatto linguistico: l’anima pronuncia “naturalmente” il nome di Dio e con ciò rende la sua testimonianza al vero Dio rivelato dalla fede cristiana. Evidentemente questo ragionamento postula che la lingua, a sua volta, non sia un fatto culturale, e in quanto tale manipolabile dall’uomo (e dai démoni), ma l’espressione naturale della verità inscritta nella natura delle cose grazie all’impronta ricevuta dalla creazione. Il tema del rapporto tra verità e linguaggio è davvero centrale nella concezione diTertulliano ed è stato recentemente indagato in modo molto approfondito da FrédéricChapot in un libro importante a cui sarà qui sufficiente rinviare.66Rendendosi conto dell’insidia contenuta nel rilievo che le lingue sono anch’esse il prodotto di una determinata cultura,Tertulliano ribatte che la testimonianza dell’anima, pur essendo di natura linguistica, non è legata però a un idioma particolare, non dipende cioè dalla grammatica del latino o del greco, ma inerisce a una struttura linguistica più profonda, di portata universale:

Sei stolto se attribuirai tali espressioni a questa sola lingua [latina] o a quella greca, che sono considerate affini, per negare l’universalità della natura. Non per i soli latini o greci l’anima cade [nell’uomo] dal cielo. Presso tutti i popoli unico è l’uomo, vario il nome [che gli si dà]; unica è l’anima, varia è la lingua; unico lo spirito, vario il modo in cui si esprime; propria di ciascun popolo è la favella, ma comune a tutti il suo contenuto.67

Assodata così la veridicità della testimonianza “naturale” dell’anima, ne consegue perTertulliano la possibilità di mettere in crisi la cultura (che per lui, come per tutti, è la cultura greco-romana, pagana), nella misura in cui riesce a mostrare che quest’ultima viene a trovarsi in contraddizione con l’anima stessa. Viene perciò adombrata la possibilità di una vera e propriacrisi di identità dell’uomo pagano, in quanto esso, come pagano, deve rinnegare ciò di cui come uomo è certo. Credi all’anima, dice in sostanzaTertulliano al suo ideale interlocutore pagano, perché se non credi alla tua anima non credi più neppure a te stesso, neghi te stesso:

Se dubiti della tua letteratura, né Dio né la natura mentono. Per credere alla natura e a Dio, credi all’anima, così accadrà che crederai pure a te stesso. Essa certamente è colei che tanto stimi quanto ella ti fa [grande]; è colei a cui tutto appartieni, che per te è tutto, senza la quale non puoi né vivere né morire, e a causa della quale tu non tieni in considerazione gli dèi.68

Tertulliano invita dunque il suo lettore, che teme di diventare cristiano, a sottoporre la sua anima ad un serrato interrogatorio, di cui detta lui stesso le domande: perché l’anima, pur venerando gli dèi, invoca “dio”? Perché quando impreca contro gli spiriti malvagi li chiamadaemonia? Perché serve gli dèi ma quando ha bisogno di giustizia si appella a “dio”? Perché dice delle parole cristiane, quando i cristiani non li vuole nemmeno vedere?69

La conseguenza di questa rottura del campo della cultura, realizzata attraverso l’appello alla testimonianza pre-culturale dell’anima, è che, anche se i cristiani in quanto tali dal sistema culturale pagano sono messi all’angolo e imbavagliati, l’evidenza naturale della verità si impone comunque. La verità è onnipresente, dunque occupa anche lo spazio politico: l’anima dell’uomo proclama «suo iure» ciò che ai cristiani non è concesso neanche di bisbigliare:

Dio è dovunque, e la bontà di Dio è dovunque; il demonio è dovunque, e la maledizione del demonio è dovunque; l’invocazione del giudizio divino è dovunque; la morte è dovunque e la coscienza della morte è dovunque e la testimonianza è dovunque. Ogni anima, per suo diritto, proclama quello che a noi non è concesso neanche di sussurrare.70

A questo punto sono i pagani ad essere messi sotto accusa e intrappolati dalla loro incoerenza. Nell’immaginario tribunale allestito daTertulliano, l’anima del pagano viene a trovarsi nel duplice ruolo di testimone d’accusa e al tempo stesso imputata e si dimostra colpevole per le ragioni che lei stessa porta: «proclamavi Dio e non lo cercavi … sapevi ilChristianumnomene tuttavia lo perseguitavi», le verrà detto nel giorno del giudizio finale.71

Questo passo fondamentale del pensiero diTertulliano, come ho detto sopra, viene compiuto all’inizio della sua attività pubblicistica e, pur senza essere nuovamente messo a tema in modo esplicito, rimane come un dato acquisito, i cui riflessi si avvertono anche nelle opere successive. Nella prospettiva che abbiamo appena delineato, ad esempio, acquista un particolare significato l’affermazione con cui si conclude il suo trattato sulla preghiera, ilDe oratione(composto probabilmente nei primissimi anni del III secolo), perché lìTertulliano, dopo avere delineato una sorta di disciplinare della preghiera cristiana in quanto pratica cultuale (e culturale) ben distinta da quelle pagane ed ebraiche, termina la sua trattazione con una sorprendente apertura ad una dimensione cosmica della preghiera, e quindi extra-culturale ed extra-politica. Osserva infatti che i cristiani non sono i soli a pregare: pregano gli angeli, pregano tutte le creature, pregano gli animali … e tutti pregano in modonaturalitercristiano:

Pregano anche tutti gli angeli, prega ogni creatura, pregano le greggi e le bestie selvatiche e piegano le ginocchia, e uscendo dalle stalle e dalle loro tane volgono al cielo il capo non senza motivo, facendo risuonare la voce ciascuno a suo modo. Ma anche gli uccelli ora alzandosi in volo si protendono al cielo e allargando le ali come fossero mani formano una croce, e dicono qualcosa che sembra una preghiera.72

La prospettiva, così, si rovescia: la preghiera dei cristiani da pratica marginale qual era, isolata, circondata e quasi soffocata nello spazio politico dall’onnipresenza dei culti pagani, si fa centro di un universo orante interamente rivolto, anche senza esserne consapevole, all’unico vero Dio.

Dall’altra parte, e in parallelo, una “mossa del pensiero” del tutto simile a quella che abbiamo appena visto applicata alla cultura greco-romana viene proposta daTertulliano nei confronti di un altro sistema chiuso con cui i cristiani devono necessariamente fare i conti, quello della Legge e del monopolio giudaico su di essa. Qui l’assunto di partenza è che la visione ebraica secondo cui c’èun solo popoloe il resto sono «gentes velutstillicidium de urceo aut pulvis ex area», va superata perché invece, come la stessa Scrittura attesta, «ex utero Rebeccae duo populi et duaegentes».73D’altra parte, è vero che c’è una sola legge divina, ma essa è universale e precede la legge mosaica, che ne è solo una declinazione particolare. Nellalex primordialisenunciata da Dio ad Adamo ed Eva, infatti, c’è già tutta la legge di Mosé. Essa è contenuta nel giudizio divinoinprincipio, ed è inscritta nella natura. Tale legge coincide con la legge diCristo.74

In questa prospettiva, la legge di Mosé viene relativizzata, in quanto si colloca all’interno di un processo, di cui è solo una tappa: l’attività legislativa di Dio non si esaurisce in essa, ma c’era prima e prosegue dopo di essa. Non si può infatti immaginare di togliere a Dio la potestà di intervenire per riformare la legge in funzione dei tempi e delle circostanze.75Così la Legge appare non più come un’entità fissa ed immutabile, una sostanza, ma come un processo, un’azione divina nel mondo. Di fronte a quella che possiamo definire una sorta di ipostatizzazione della Legge, da parte del giudaismo,Tertulliano afferma l’esistenza di un processo legislativo di Dio, che si compie tramite il suo intervento nella storia, e che nel suo incessante dinamismo è per essenza “critico” nei confronti di tutte le istituzioni, comprese quelle religiose.

Deriva da questa impostazione un cambiamento del campo religioso non meno radicale di quello operato nei riguardi della cultura pagana, con una conseguente risignificazione delle sue componenti. Così, per esempio, agli occhi diTertulliano la valenza simbolica della circoncisione in quanto segno di elezione subisce una trasvalutazione: essa rimane sì uno stigma, ma non più di elezione all’appartenenza e alla vicinanza a Dio, bensì alla penitenza e al castigo che Dio riserva per il popolo che non gli è stato fedele.

Infatti Dio, prevedendo che avrebbe dato al popolo d’Israele questa circoncisione perché fosse segno, non perché fosse salvezza, per questo motivo comanda che sia circonciso il figlio diMosè, che sarebbe stato il capo […]. La circoncisione infatti doveva essere data al popolo, ma come segno con cui si sarebbe dovuto distinguere Israele nell’ultimissimo tempo, quando, come si era meritato, gli sarebbe stato proibito di entrare nella città santa […] Questa dunque fu la provvidenza di Dio, di dare la circoncisione come segno dal quale potessero essere riconosciuti, quando fosse venuto il tempo in cui per le colpe sopra dette gli sarebbe stato proibito di entrare in Gerusalemme.76

Si noti il rovesciamento di prospettiva: mentre all’interno del sistema religioso giudaico cheTertulliano sta attaccando la circoncisione è un marchio di appartenenza al popolo eletto, un pegno di salvezza perché garantisce che si èdentrol’alleanza, ora invece essa si presenta come un contrassegno di esclusione: è il marchio che condanna a starefuoridalla città santa. È come se lo spazio della relazione tra Dio e l’uomo venisse ridefinito: i poli si invertono, il dentro diventa fuori e viceversa.

Perché una simile rivoluzione sia plausibile, bisogna quindi mostrare che è cessata la vecchia legge ed è in vigore la nuova, della quale per prima cosa bisogna indicare l’artefice. Il punto su cui si regge (o cade) tutto il sistema è la persona del nuovo legislatore, e la retorica tertullianea si fa martellante e quasi ossessiva nel ribadire mille volte lanovitàdiCristo:

Ci si prospetta, quindi, la necessità (una volta che abbiamo stabilito che una nuova legge era stata predetta dai profeti, e non quella che era già stata data ai loro padri nel tempo in cui furono condotti via dalla terra d’Egitto) di far vedere e dimostrare tanto che è cessata la vecchia legge quanto che ora sta operando la nuova che era stata promessa: per prima cosa bisogna cercare se si sia in attesa di un nuovo legislatore e dell’erede di un nuovo testamento e del sacerdote di nuovi sacrifici e del purificatore di una nuova circoncisione e del celebratore del sabato eterno, di colui, cioè, che ponga fine alla vecchia legge e istituisca il nuovo testamento e offra nuovi sacrifici e soffochi le cerimonie antiche e freni la vecchia circoncisione insieme con il suo sabato e annunzi un nuovo regno che non andrà in rovina.77

La fondamentale omologia tra queste due “rotture di campo” tentate daTertulliano, da una parte nei riguardi della cultura pagana e dall’altra nei riguardi del giudaismo, si riconosce bene nelc.7 dell’Adversus Iudaeos, dove viene svolto il tema della diffusione ecumenica del cristianesimo come elemento che scardina al tempo stesso la chiusura particolaristica della Legge giudaica e la pretesa di dominio universale dell’impero romano. Al limite nazionalistico della Legge ebraica, riservata ad un solo popolo,Tertulliano contrappone l’apertura e la diffusione ecumenica della fede cristiana, assunta addirittura come prova della sua verità. La questione, con i Giudei, è se ilCristo sia già venuto o debba ancora venire, perché «se risulterà che è già venuto, dovremo credere fuor d’ogni dubbio anche che una nuova legge è stata data da lui».78Ora, come si fa a sapere seCristo è già venuto, e seGesù è veramente ilCristo? Le stesse profezie dell’Antico Testamento, che preannunciano un Messia nel quale crederanno tutte le genti, ci danno la chiave per rispondere: «Inquem enim alium universae gentes crediderunt nisi in Christum qui iamvenit?».79La citazione, a questo punto, della rappresentanza ecumenica che nel racconto diAtti 2,9-11 assiste alla Pentecoste è di rigore, ma viene però chiosata daTertulliano con l’osservazione, non scontata, che tra i popoli presenti a Gerusalemme in quel giorno e simbolicamente raggiunti dal riverbero dell’effusione dello Spirito sugli apostoli, ce n’erano anche di quelli che non erano (e non sono) sottomessi all’impero romano, provenienti da regioni e isole remote e quasi sconosciute. A conferma di questa tesi, egli non si perita di aggiungere all’elenco dei popoli citati nel testo diAtti un’altra serie di nazioni, che ci porta decisamente al di là dei confini dellaRomanitas,80per concludere con orgoglio: «in quibus omnibus locis Christi nomen, qui iam venit,regnat».81La celebrazione della potestà ecumenica diCristo funziona quindi contemporaneamente come prova della sua verità e come fattore di critica nei riguardi dientrambii campi politico-religiosi, quello particolaristico della nazione giudaica e quello falsamente universalistico dell’impero romano.

2.3 Le prospettiva rovesciata: chi assedia chi?

Il carattere pubblico della testimonianza cristiana è fondamentale perTertulliano, che lo evidenzia con forza sin dall’aperturadell’Apologeticum, là dove afferma che l’odio anticristiano è indissolubilmente legato all’ignoranza del cristianesimo: «tutti coloro che prima [lo] odiavano perché ignoravano, appena cessano di ignorare cessano anche di odiare. Da questi vengono i cristiani».82La conversione dei pagani al cristianesimo, cheTertulliano presenta come una logica conseguenza della conoscenza che essi sono giunti ad averne, viene anche da lui addotta come prova della stessa verità e bontà della fede cristiana. Naturalmente egli si rende conto che un’affermazione del genere può apparire molto discutibile, sulla base dell’argomento che anche al male molti si convertono,83ma risponde che nel caso del male non si può parlare di vera e propria conversione, perché chi fa il male non lo rivendica, non cerca “pubblicità”, ma anzi cerca di nascondersi.84I Cristiani invece rivendicano pubblicamente la loro scelta di vita, ed è appunto il carattere pubblico della conversione e poi della professione di fede cristiana nella vita quotidiana a conferire alla manifestazione il valore di prova della verità della fede stessa. Questa per lui è una discriminante e nella sua concezione ha un peso determinante nel provare la validità del cristianesimo. Ciò che garantisce l’ incompatibilità della professione di fede cristiana con ogni forma di male e di menzogna è infatti proprio il suo carattere “pubblico”, data la naturale ed invincibile ripugnanza dell’uomo per l’ostentazione pubblica del male:

Nessun [cristiano] si vergogna, nessuno si pente, se non di non esserlo stato prima; se è denunciato, se ne gloria; se accusato, non si difende; interrogato, confessa spontaneamente; condannato, ringrazia. Che male è mai questo, che non ha i caratteri naturali del male: timore, vergogna, esitazione, pentimento, deplorazione?85

Lavisibilitàdel cristianesimo è dunque essenziale, ed è proprio in funzione di questa visibilità che la posizione dei cristiani all’interno dello spazio pubblico diviene decisiva: il loro problema è appunto quello di non essere marginalizzati, se non addirittura esclusi dallo spazio pubblico romano e diventare così “clandestini”.86. Per questoTertulliano denuncia, nel capitolo 24dell’Apologeticum, la contraddizione per cui nel mondo romano, ad onta del conclamato pluralismo religioso che permette a tutti di seguire le proprie credenze e praticare i propri culti, solo ai cristiani viene negata la possibilità di essere se stessi. Per meglio dire, solo nel caso dei cristiani la religione diviene motivo di esclusione dallaRomanitas:

A noi soli, invece, è proibito professare una propria religione. Offendiamo i romani e non siamo considerati romani, noi che non veneriamo una divinità dei romani. Bene perché c’è un Dio di tutti, a cui tutti, lo vogliamo o no, apparteniamo. Ma presso di voi c’è il diritto di venerare qualunque cosa tranne che il dio vero, quasi che questi non fosse piuttosto il dio di tutti e a cui tutti apparteniamo.87

Come devono reagire i cristiani a questo stato di censura e di emarginazione che rischia di privarli di una dimensione così importante della loro esperienza religiosa come la sua manifestazione pubblica? Ad avviso diTertulliano devono farlo in due modi: in primo luogo, agendo e parlando come se – nonostante l’ostilità e le persecuzioni – fossero non ai margini ma al centro dello spazio politico, e vicini al cuore del potere imperiale. Ecco perché nel capitolo30 dell’Apologeticumlo vediamo rivendicare che i cristiani fanno per l’imperatore molto di più di tutti gli altri cittadini romani, perché pregano il vero Dio per la sua salute; e questo, soggiunge significativamente, gli imperatori lo sanno benissimo.88Gli imperatori – la cui anima è, come quella di tutti,naturaliter christiana– sanno chi è il vero Dio e sanno anche che conviene loro essere secondi a questo Dio per essere primi rispetto a tutti gli altri, perché il riferimento al vero Dio conferisce alla figura imperiale un diverso ordine di grandezza: «magnus est quiaminor caelo» (30,3): Ciò che ancora devono comprendere é quanto i cristiani, come unici degni intercessori con le loro preghiere presso il vero Dio, potrebbero essere preziosi per loro.

In secondo luogo, il compito che l’apologista cristiano si assume in prima persona, a nome di tutti i suoi fratelli nella fede, è ancora una volta quello di rovesciare la prospettiva in cui i suoi oppositori (ma ancor più i suoi correligionari, che sono forse i primi destinatari del suo discorso) vedono il rapporto tra la comunità cristiana e il mondo esterno, presentando il quadro di un paganesimo “assediato” da un cristianesimo che sta irresistibilmente crescendo ed ormai s’impone nella società. È un tema, questo dellaobsessa civitas, che fa la sua comparsa fin dalle prime battutedell’Apologeticum,89per essere poi ripreso e ribadito più avanti, con l’importantissimo corollario dell’esclusione di qualsiasi ipotesi di aperta ribellione dei cristiani (ipotesi che l’asserita loro crescita esponenziale renderebbe in teoria plausibile), anche di fronte alle ripetute violenze di cui sono fatti oggetto dai pagani:

Se infatti volessimo agire non soltanto da vendicatori occulti ma da nemici dichiarati, forse che mancherebbe a noi la forza dei numeri e delle risorse? […] Siamo di ieri, e già riempiamo il mondo e tutte le vostre cose: città, quartieri, borghi, municipi, mercati, gli stessi accampamenti militari, le tribù, le decurie, il palazzo, il senato, il foro. A voi abbiamo lasciato solo i templi! Possiamo contare i vostri eserciti: saremo di più noi cristiani di una sola provincia!90

I cristiani, sostiene il Nostro, sono talmente numerosi che, se volessero, potrebbero ribellarsi e prevalere sui pagani, ma non hanno nessuna intenzione di farlo; altra ipotesi teoricamente possibile (e politicamente non meno temibile dell’immaginata ribellione dei cristiani) è quella della secessione, ma anch’essa viene adombrata dall’apologista solo per essere categoricamente esclusa. Quello che conta agli occhi diTertulliano, in realtà, non è la praticabilità politica di una simile ipotesi, evidentemente campata per aria, ma la sua potenza simbolica: se i cristiani si ritirassero in qualche luogo remoto del mondo (e dove poi?), i pagani sarebbero schiacciati dal terrore dalla loro stessa solitudine, perché l’impero resterebbe semivuoto:

Avremmo potuto combattere contro di voi anche inermi e senza ribellarci, ma soltanto separandoci, con l’ostilità della sola secessione. Se infatti noi, una così grande quantità di uomini, ci fossimo staccati da voi [per andare] in qualche angolo remoto del mondo, la perdita di così tanti cittadini, qualsiasi fossero, avrebbe coperto il vostro impero; anzi, lo avrebbe punito con la sola defezione. Senza dubbio vi sareste spaventati davanti alla vostra solitudine, al silenzio di tutte le cose, e ad una sorta di torpore del mondo quasi morto; avreste cercato su chi comandare, vi sarebbero rimasti più nemici che cittadini.91

Inutile cercare riscontri o mettersi a discutere di numeri e percentuali su questa demografia largamente immaginaria. Ciò che importa è capire l’impatto simbolico, come si è detto, di questa rappresentazione. Questo è un terreno su cui lo storico, il sociologo e lo psicologo sociale dovrebbero collaborare, perché la descrizione del mondo romano “pieno di cristiani” fatta daTertulliano ci ricorda molto da vicino certi fenomeni di percezione distorta (e talvolta manipolata) che sono presenti nell’opinione pubblica contemporanea e che gli studiosi di scienze sociali conoscono bene (si pensi, ad esempio, alla percezione che porta a sovrastimare largamente la percentuale di stranieri presenti in una certa società, oppure la frequenza di certi crimini che destano particolare allarme).

Questa sua volontà di “tenere il campo”, ostentando (e in una certa misura millantando) una diffusione pervasiva e capillare dei cristiani nellacivitasromana per argomentarne che il cristianesimo è ormai centrale nello spazio politico, va di pari passo con l’ammonimento, da lui rivoltoad intra, ai suoi correligionari, affinché siano sempre consapevoli che dal mondo, da questo mondo, non si può uscire. Il che significa che dal problema del rapporto con i pagani non si può prescindere mai: «In effetti anche il pagano è nostro avversario, e cammina nella stessa via della vita comune; e del resto, saremmo dovuti uscire da questo mondo, se non ci fosse lecito avere rapporti con essi».92Rispetto a questa fondamentale presa d’atto, anche certe esclamazioni di impazienza, come quella che esce dal cuore dello stessoTertulliano in un passo delDe spectaculis: «Utinam ne in saeculo quidem simul cum illismoraremur!»,93non vanno prese in alcun modo come una ripulsa del compito di viverenelmondo fianco a fianco dei pagani, ma piuttosto come un’aspirazione a quel paradossale distacco dalle cose del mondo che è il contrassegno dell’esistenza cristiana delineato daPaolo in1 Cor 7,29-31.

Ad extra, cioè ai pagani ed in particolare alle autorità romane,Tertulliano vuole invece mandare il messaggio che non è praticabile da parte loro l’estensione e la radicalizzazione di una politica persecutoria nei confronti dei cristiani, perché l’eradicazione del cristianesimo dalla società è ormai impossibile, non solo (e forse, ci verrebbe da dire, non tanto) per ragioni numeriche, ma per via del rilievo sociale che ha ormai acquisito: rivolgendosi aScapula, proconsole d’Africa che nel 212 si era fatto promotore di misure anticristiane,Tertulliano cita l’esempio di un altro magistrato,Arrio Antonino, persecutore dei cristiani nella provincia d’Asia, il quale, di fronte all’ingente numero di fedeli che si presentarono davanti al suo tribunale, dopo averne fatti condannare a morte pochi, si era dovuto arrendere e, spazientito e scoraggiato, aveva mandato via gli altri dicendo: «Sciagurati! se volete morire buttatevi giù da un burrone o impiccatevi!». Il commento dell’apologista è che se anche i cristiani d’Africa decidessero di autodenunciarsi in massa, neppureScapula, potrebbe fronteggiare una protesta del genere. Se provasse a condannarli tutti non avrebbe le forze per farlo e, soprattutto, si accorgerebbe di dover colpire tutta la Cartagine che conta, viri e matronae del suo stesso ordo, le principales personae della città.94

Nec tecum nec sine te vivere possum: così verrebbe da commentare il rapporto del cristiano con il mondo secondoTertulliano, se è permesso concludere questo discorso con una nota scherzosa. Il cristiano non può sottrarsi al disagio di una conflittualità permanente insita nel rapporto quotidiano con l’altro-da-sé; tuttavia questo disagio, se non irrancidisce nel risentimento né si calcifica nella chiusura ma si apre al percorso difficile dellakrisis, appare – nella concezione del migliorTertulliano – come un formidabile fattore di crescita dell’autocoscienza cristiana e di spinta missionaria. Qualcosa di cui faremmo bene a tener conto anche oggi.

1Traduco la definizione di A.M. Rose,Minorities, inInternational Encyclopedia of theSocial Sciences, vol. X, The MacMillan Company & The Free Press, New York 1968, 365-371,qui 365.

2R.Stark,Le città di Dio. Come il cristianesimo ha conquistato l’impero romano, trad.it. Lindau, Torino 2010, 85 (=Cities of God. The Real Story of How Christianity Became anUrban Movement and Conquered Rome, Harper Collins, New York 2006).

3Nel libro sopra citato (85-110) e prima ancora inAscesa e affermazione delcristianesimo. Come un movimento oscuro e marginaleè diventato in pochi secoli la religionedominante dell’Occidente, trad. it. Lindau, Torino 2007 (=The Rise of Christianity: aSociologist Reconsiders History, Princeton University Press, Princeton 1996), 13-47 e 181-199.Per un dibattito sulle tesi diStark e sul suo approccio metodologico si veda la sezionemonografica a lui dedicata in «Journal of Early Christian Studies» 6 (1998), tra i cui articoli sisegnala in particolare quello di K.Hopkins,Christian Number and Its Implications, 185-226, che,per quanto basato su metodi che egli stesso definisce «frankly speculative and exploratory»(185), offre molti spunti di riflessione innovativi e stimolanti. Da ultimo, su tuttala questione, si veda la critica di T.A.Robinson,Who were the First Christians?Dismantling the Urban Thesis, Oxford University Press, Oxford 2017, in particolare 1-13 e243-252.

4La natura e le motivazioni della decisione diCostantino e i suoi riflessi sul processo dicristianizzazione sono oggetto di un dibattito e (di conseguenza) di una bibliografia sterminata.Qui basti il riferimento a due recenti lavori che ne propongono visioni molto diverse: P.Veyne,Quando l’Europaè diventata cristiana (312-394).Costantino, la conversione, l’impero, trad. it.Garzant, Milano 2008 (=Quand notre monde est devenu chrétien, Albin Michel, Paris2007) e M.F.Baslez,Comment notre monde est devenu chrétien,Éditions CLD, Tours2008.

5Un giudizio come quello di EwaWipszycka,Storia della Chiesa nella tardaantichità, trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2000, 63è però troppo drastico, quandoafferma: «Quanti cristiani vivevano nell’impero romano all’inizio, alla metà e allafine del III secolo? Quanto erano a quel tempo le Chiese? Purtroppo non siamo ingrado di rispondere a queste semplici e fondamentali domande, perché le fonti non ciforniscono alcun supporto. […] Il lettore dovrebbe convincersi che le cifre che talvoltacompaiono nei libri e negli articoli (dettate dall’irresistibile tentazione di tradurre sempliciimpressioni nel linguaggio dei numeri) sono completamente prive di fondamento».Noi diremmo piuttosto che quelle diStark o diHopkins sono delle ragionevoli e utilicongetture poco dimostrabili sul piano strettamente storico. In termini generali, sututto questo problema un punto di riferimento storiografico ancora imprescindibileècostituito dall’ampia panoramica di Adolfvon Harnack,Missione e propagazione delcristianesimo nei primi tre secoli, trad. it. Lionello Giordano, Cosenza 1986, 371-543(=Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten Jahrhunderten, II,J.C. Hinrichs’sche Buchhandlung, Leipzig 1906, 5-262). Va però detto che la ricerca inquesto campo non può che procedere in modo settoriale, per sondaggi differenziati aseconda delle aree geografiche e delle diverse possibilità offerte dalle fonti. Un ambito incui l’attenzione ai dati prosopografici ha potuto fornire informazioni rilevantiè, adesempio, quello dell’aristocrazia senatoria romana, a partire dal lavoro di P.Brown,Aspects of the Christianization of the Roman Aristocracy, «The Journal of RomanStudies» 51 (1961), 1-11 e da quello di T.D.Barnes,Statistics and the Conversion ofthe Roman Aristocracy, «The Journal of the Roman Studies» 85 (1995), 135-147,che hanno portato ad anticipare gli inizi del processo di conversione al cristianesimonel ceto senatoriale rispetto a quanto si era soliti ritenere in precedenza. Un altrotentativo apprezzabile, per quanto anch’esso molto discusso, di quantificare l’aumentodella percentuale di cristiani nella popolazioneè stato fatto per l’Egitto, basandosiin particolare sulla onomastica riscontrabile nella ricca documentazione papiraceache solo quella regione ci ha conservato, da R.Bagnall,Religious Conversion andOnomastic Change, «Bulletin of the American Society of Papirologists» 19 (1982),105-124. Si vedano anche le critiche di E.Wipszycka,La valeur de l’onomastique pourl’histoire de la christianisation de l’Égypte.À propos d’uneétude de R.S. Bagnall,«Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik» 62 (1986), 173-181, e più di recentegli interventi di J.-M.Carrié,Le nombre des chrétiens enÉgypte selon les donnéespapyrologiques, in H.Inglebert, S.Destephen, B.Dumezil,Le problème de la christianisation dumonde antique, Picard, Paris 2010, 147-157, qui 148-151 e M.Depauw, W.Clarysse,How Christian was Fourth Century Egypt? Onomastic Perspectives on Conversion,«Vigiliae Christianae» 67 (2013), 407-435, con i successivi rilievi di D.Frankfurter,Onomastic Statistic and Christianization of Egypt: A Response toDepauw andClarysse,«Vigiliae Christianae» 68 (2014), 284-289. I calcoli diBagnall, confermati daDepauw eClarysse, porterebbero a ipotizzare una percentuale di circa il 20% di cristiani sullapopolazione dell’Egitto all’inizio del IV secolo, immediatamente prima della svoltacostantiniana.

6Origene,Contra Celsum, 8, 69.

7Cioè esattamente lo stesso numero dei pagani che, stando all’agiografo, vi rimangonocirca trent’anni dopo, al momento della sua morte nel 270! Cfr.Gregorio di Nissa,De vitaGregorii Thaumaturgi, 27 e95 (SCh 573, 130 e 218). Su questo dato osserva P.Maraval, nellasua introduzione aGrégoire de Nysse,Éloge de Grégoire le Thaumaturge.Éloge de Basile,(«Sources Chrétiennes» n. 573), Paris 2014, 31: «La mention des dix-sept chrétiens […], bienqu’elle soit probablement légendaire, reste une indication précieuse, car elle témoigneà la fois dela faible pénétration du christianisme dans cette contrée d’Asie mineure durant les premièresdécennies du IIIesiècle et de son progrès au cours de la vie de Grégoire». In realtà,quando le fonti agiografiche “danno i numeri” spesso più che aiutarci ci mettono inimbarazzo: così, quando apprendiamo dallaVita di Porfiriodi Marco Diacono (c.11) chealla fine del IV secolo a Gaza i cristiani erano ancoraὀλίγοι καὶ εὐαρίθμητοι, anziper essere precisi erano nel numero, davvero esiguo, di 127, la singolare tendenza diquesta fonte a fornire dei particolari tanto precisi e la questione della loro attendibilitàdiventano per noi molto problematiche: cfr. G.Sfameni Gasparro,Porfirio di Gaza, un«uomo santo» fra pagani eretici e maghi: modelli retorici di propaganda religiosae realtà storica, in M.Monaca (a cura di),Problemi di storia religiosa del mondotardoantico: tra mantica e magia, Lionello Giordano, Cosenza 2009, 201-330, qui 285 e302.

8Eusebio,Historia ecclesiastica, VI, 43,11.von Harnack,Missione e propagazione, 508, nericava l’ipotesi plausibile che «il numero dei Cristiani appartenenti in Roma alla comunitàcattolica fosse non inferiore a 30 000», il che «equivarrebbe a circa un trentesimo dellapopolazione totale».

9In questo senso può ritenersi sostanzialmente attendibile il generico quadro che,riferendosi agli inizi del II secolo, ne dàEusebio,Historia ecclesiastica, III, 37, 2-4, tenendoconto che, al di là di molta enfasi sul successo dell’evangelizzazione («folle intere, fin dalla primavolta che li udivano, accoglievano in massa e volentieri nell’anima loro la religione del Creatoredell’universo»), egli stesso ammette di non essere in grado di fornire il numero e inomi neppure degli evangelizzatori. Sulle dinamiche del processo di diffusione delcristianesimo mi paiono quasi sempre pertinenti e utili le ipotesi diStark,Ascesa eaffermazione.

10Per una recente messa a fuoco del concetto di cristianizzazione e dei problemi checomporta, si vedano i saggi raccolti inInglebert,Destephen,Dumezil,Le problème de lachristianisation. Sui problemi, le difficoltà e i limiti della cristianizzazione in età costantiniana siveda da ultimo il saggio di E.Watts,Christianization, in C.M.Chin, M.Vidas (ed.),LateAncient Knowing. Explorations in Intellectual History, University of California Press, Oakland2015, 197-217.

11È significativo, ad esempio, che il concetto di cristianizzazione sia ugualmente richiamatosia nel titolo di un libro che si occupa dei secoli II-IV, come quello di R.McMullen,La diffusionedel cristianesimo nell’impero romano (100-400), trad. it. Laterza, Roma-Bari 1989,95 (=Christianizing the Roman Empire (a.D. 100-400), Yale University Press, NewHaven 1984, che in in quello di F.Trombley,Hellenic Religion and Christianizationc.370-529, I-II, Brill, Leiden 1993-1994, un’opera dedicata al periodo successivo alla svoltacostantiniana.

12Un’ampia rassegna degli studi in D.Praet,Explaining the Christianization of theRoman Empire. Older Theories and Recent Developments, «Sacris Erudiri» 33 (1992),5-119.

13Basti citare l’ormai classicoIl conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV.Saggi a cura di ArnaldoMomigliano, trad. it. Einaudi, Torino 1968 (=The Conflict BetweenPaganism and Christianity in the Fourth Century. Essays Edited by ArnaldoMomigliano,Clarendon Press, Oxford 1963).

14L.Gavrilyuk,Harnack’s Hellenized Christianity or Florovsky’s «Sacred Hellenism»:Questioning Two Metanarratives of Early Christian Engagement with Late Antique Culture, «StVladimir’s Theological Quarterly» 54 (2010), 323-344.

15Si ricordi in proposito l’autorappresentazione delineata dall’autore dell’A Diogneto5,1-2:«I cristiani, infatti, né per paese, né per lingua, né per veste si distinguono dagli altri uomini.Né in qualche parte abitano città loro esclusive, né parlano una lingua diversa da quella deglialtri, né conducono una vita che sia fuori della norma». Descrizione che pone all’autore ilproblema di come definire, in assenza di tutti gli indicatori identitari classici, lapoliteiacristianadi cui pure sostiene l’esistenza, talché si rifugia nella descrizione retorica del loro «modomeraviglioso e, come tutti convengono, paradossale di essere cittadini (θαυναστὴνκαὶ ὁμολογουμένως παράδοξον ἐνδείκνυνται τὴν κατάστασιν τῆς ἑαυτῶν πολιτἐιας(5,4).

16Come ad esempioè avvenuto in larghi settori dell’ebraismo riformato in Occidente dalmomento della fine del regime di discriminazione in poi, e cioè lungo tutto l’Ottocento e i primidecenni del Novecento.

17Qui uso il terminesettasemplicemente per designare un gruppo religioso che si trova,per sua scelta, «in uno stato di tensione relativamente alto con l’ambiente circostante»,senza alcuna implicazione valutativa rispetto al concetto di “chiesa”: cfr.Stark,Ascesa,39-40.

18È in questi nuclei che si separano dal corpo della grande chiesa che più facilmente simanifestano posizioni di rottura anche rispetto al contesto sociale e di autoesclusione.

19Si potrebbe obiettare, con riferimento proprio alTertulliano montanista, che l’adesionealla “nuova profezia”, con la ripresa di una forte tensione escatologica, sembra dischiudere laprospettiva della fuga dal secolo, per l’attesa della Gerusalemme celeste che deve discenderedal cielo in una località remota, “fuori” dal mondo urbano romano (se così si deve intendereil riferimento a Pepuza in Frigia – che peraltro inTertulliano non c’è – come suggerisconoT.Gnoli, J.Thornton,Società e religione nella Frigia romana. Note introduttive, inFrigie Frigio, Atti del I Simposio Internazionale Roma, 16-17 ottobre 1995, Consiglio nazionaledelle ricerche, Roma 1997, 153-200, qui 192-200). Bisogna vedere però se e in che misuranelTertulliano montanista la tensione escatologica mantiene il suo fondamentale valorecristiano di spunto critico nei riguardi della società e della struttura politica, come loaveva avuto nella fase cattolica, o se si radicalizza in forme di condanna indiscriminate cheportano all’autoseparazione dal mondo.

20Faccio qui riferimento al concetto di riflessività come vien impiegato da P.Donati,Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno, Il Mulino, Bologna 2011: «Essereumani significa essere riflessivi, ma riflessivi non solo in Sé e per Sé, come individuiche si personalizzano attraverso la propria conversazione interiore, bensì riflessivianchesulle,attraversoeperle relazioni sociali che ci fanno riflettere su noi stessi,sulla nostra identità, sulle nostre scelte […] perché e in quanto ciascuno si costituiscerelazionalmente con gli altri significativi, attraverso quella sfera intermedia in cuistanno i beni e i mali relazionali, con la loro propria riflessività. […] la riflessività, inquanto attività propria della coscienza umana,ci impone(dentro di noi, ma anchecome reciprocità verso l’Altro) di considerare le premesse e gli effetti delle nostredecisioni e azioni sulle relazioni, sia le relazioni con noi stessi che quelle con gli altri»(313).

21Sul concetto di influenza minoritaria si veda S.Moscovici,Psicologia delle minoranzeattive, trad. it. Boringhieri, Torino 1981 (=Psychologie de minorités actives, PressesUniversitaires de France, Paris 1979).

22Secondo la diagnosi fatta daTacito,Annali, XV, 44,5 all’inizio del II secolo e da luiriferita al cristianesimo degli anni diNerone.

23Come si evince dall’analisi delle fonti martiriali. Sul tema delladementiacristiana, cfr.F.Ruggiero,La follia dei cristiani. Su un aspetto della reazione pagana tra I e V secolo, Ilsaggiatore, Milano 1992.

24I calcoli di R.Stark portano a ipotizzare che intorno al 300 la percentuale dei cristianisull’intera popolazione dell’impero fosse circa del 10% (cfr.Ascesa e affermazione, 18) e questastima appare largamente condivisibile, ma tra gli studiosi non manca chi, comeMcMullen,Ladiffusione del cristianesimo, 95, si spinge ad affermare che ancora un secolo dopo,«nell’anno 400 l’impero nel suo complesso sembra essere stato prevalentemente noncristiano».

251 Ts 5,21:πάντα δὲ δοκιμάζετε, τὸ χαλὸν κατέχετε.

26Per un approccio alla valenza storiografica di questo concetto di crisi, si veda A.M.Mazzanti (a cura di),Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico, BononiaUniversity Press, Bologna 2015.

27Basilio,Homiliae in Hexaemeron, I, 3.

28Ibidem, I, 4.

29Questoè qualcosa di più, ma al tempo stessoè intimamente collegato a quella funzionedi identificazione che giustamente F.Chapot,Ouverture et résistance. Deux approches de larelation de l’Èglise avec l’extérieur au IIe-IIIesiècles, «Revue des sciences religieuses» 81(2007), 7-26, vede come un tratto generale della letteratura cristiana dell’epoca diTertulliano.Èinfatti attraverso la critica dell’Altro che, riflessivamente, si compie la maturazione dellacoscienza identitaria dell’Io.

30Girolamo,Epistulae, 84,2 eDe viris illustribus, 53. La tendenza a risolvere lacomplessità e le apparenti contraddizioni del personaggioTertulliano e della sua visione delmondo facendole ultimamente dipendere dal suo carattereè, ad esempio, un limite dello studiopur importante e utile di C.Rambaux,Tertullian face au morales des trois premiers siècles, Lesbelles lettres, Paris 1979.

31Con la difficoltà di spiegare come mai lo si ritrovi tanto nelTertulliano cattolico quantoin quello montanista.

32R.Braun,Aux origines de la Chrétienté d’Afrique: un homme de combat, Tertullien,«Bulletin de l’Association Guillaume Budé”» (juin 1965), 189-208.

33J.-C.Fredouille,Tertullien et la conversione de la culture antique. Deuxièmeédition,complétée par la bibliographie de l’auteur, Institut d’études augustiniennes, Paris 2012, 20;181-187.

34Il senso dellaretorsiotertullianea come mezzo per sottolineare «the constructive role ofChristianity in and for Roman Society»è ben colto nell’importante articolo di M.S.Burrows,Christianity in the Roman Forum: Tertullian and the Apologetic Use of History, «VigiliaeChristianae» 42 (1988), 209-235, (la citazioneè a 210).

35Sull’uso dellaretorsionell’apologetica cristiana, si veda M.Fiedrowicz,Apologie imfrühen Christentum. Die Kontroverse um den christlichen Wahrheitsanspruch in den erstenJahrhuderten, Schöningh, Paderborn 2000, 162-164. Su un aspetto particolare inTertulliano, T.Georges,Retorsio aus theologischer Perspektive: Gerichtsszene und maiestas in TertulliansApologeticum, in F.R.Prostmeier (hrsg.),Frühchristentum und Kultur, Herder, Freiburg i.B.2007, 223-235.

36Tertulliano,Apologeticum, 4,1: «iam de causa innocentiae consistam, nec tantumrefutabo quae nobis obiciuntur, sed etiam in ipsos retorquebo, qui obiciunt, ut ex hoc quoquesciant homines in Christianis non esse quae in se nesciunt esse, simul uti erubescantaccusantes, non dico pessimi optimos, sed iam, ut volunt, compares suos».

37Tertulliano,Ad Scapulam, 1,1: «Nos quidem neque expavescimus neque pertimescimusea quae ab ignorantibus patimur, cum ad hanc sectam, utique suscepta condicione eiuspacti, venerimus ut etiam animas nostras exauctorati in has pugnas accedamus[…]».

38Tertulliano,Apol. 38,1: «nec paulo lenius inter illicitas factiones sectam istam deputarioportebat, a qua nihil tale committitur, quale de illicitis factionibus praecavetur».

39Apol. 38,3: «At enim nobis ab omni gloriae et dignitatis ardore frigentibus nulla estnecessitas coetus, nec ulla magis res aliena quam publica. Unam omnium rem publicamagnoscimus, mundum».

40Cfr.Apol. 38,4: «Atque adeo spectaculis vestris in tantum renuntiamus, in quantumoriginibus eorum, quas scimus de superstitione conceptas, cum et ipsis rebus, de quibustransiguntur, praetersumus. Nihil enim nobis dictu, visu, auditu cum insania circi, cumimpudicitia theatri, cum atrocitate arenae, cume xysti vanitate». Su tutta questa tematicarinviamo a L.Lugaresi,Il teatro di Dio. Il problema degli spettacoli nel cristianesimoantico (II-IV secolo), Morcelliana, Brescia 2008, in particolare suTertulliano vedi377-462.

41Apol. 39,19: «Inde disceditur non in catervas caesionum nec in classes discursationumnec in inceptiones lasciviarum, sed ad eandem curam modestiae et pudicitiae, ut qui nontam cenam cenaverint quam disciplinam».

42Apol. 38,5: «Licuit Epicureis aliam decernere voluptatis veritatem, id est animiaequitatem: in quo vos offendimus, si alias praesumimus voluptates? Si oblectari novissimenolumus, nostra iniuria est, si forte, non vestra. Sed reprobamus, quae placent vobis! Necvos nostra delectant».

43Sull’applicazione di categorie e strumenti del pensiero diBourdieu allo studio dellastoria del cristianesimo antico si vedano in P.Bourdieu,Il campo religioso. Con due esercizi,Accademia University Press, Torino 2012, l’introduzione e i saggi dei curatori R.Alciati e E.R.Urciuoli, rispettivamente a 3-49 e 133-218

44Tertulliano,Apol. 39,1: «Edam iam nunc ego ipse negotia Christianae factionis, ut, quimala refutaverim, bona ostendam».

45Cfr. E.R.Urciuoli,«Factio Christiana». Nouvel examen du rapport entre les premiersgroupes de croyants en Christe et les associations volontaires antiques, «Apocrypha» 22 (2011),253-264.

46Tertulliano,Apol. 39,2: «Coimus in coetum et congregationem, ut ad deum quasimanu facta precationibus ambiamus orantes. Haec vis deo grata est. Oramus etiam proimperatoribus, pro ministris eorum et potestatibus, pro statu saeculi, pro rerum quiete, promora finis».

47Si veda il rilievo che ha, nelle riunioni catechetiche, la dimensione del giudizio: «Coimusad litterarum divinarum commemorationem, si quid praesentium temporum qualitas autpraemonere cogit aut recognoscere.[…]Ibidem etiam exhortationes, castigationes et censuradivina. Nam et iudicatur magno cum pondere, ut apud certos de Dei conspectu, summumquefuturi iudicii praeiudicium est, si quis ita deliquerit, ut a communicatione orationis et conventuset monis sancti commercii relegetur» (39,3-4). Si veda anche l’implicito confronto tra banchetticristiani e pagani (39,15-19), di cui siè detto sopra. Dunque una caratteristica del cristianesimoche viene sottolineata daTertulliano come fattore positivo di stabilità per l’intera societàè ilsuo essere unacomunità giudicante.

48Apol. 40,1-2: «At e contrario illis nomen factionis accommodandum est, qui in odiumbonorum et proborum conspirant, qui adversum sanguinem innocentium conclamant,praetexentes sane ad odii defensionem illam quoque vanitatem, quod existiment omnispublicae cladis, omnis popularis incommodi Christianos esse in causa[m]. Si Tiberisascendit in moenia, si Nilus non ascendit in arva, si caelum stetit, si terra movit, si fames,si lues, statim: “Christianos ad leonem!” acclamatur».

49Si veda la celebre narrazione diTacito,AnnalesXV, 44: «[…]quos per flagitia invisosvulgus Christianos appellabat[…]eorum multitudo ingens haud proinde in crimineincendii quam odio humani generis convicti sunt[…]sontes et novissima exempla meritos[…]».

50Tertulliano,Apol. 41,1: «Vos igitur importuni rebus humanis, vos rei, publicorumincommodorum illices semper, apud quos deus spernitur, statuae adorantur».

51Per la traduzione di questo termine, che significherebbe propriamente ‘gineceo’, cfr.M.Borret,Origène. Contre Celse,II, (SCh 136), Paris 1968, 131, n.1.

52Celso, inOrigene,Contra Celsum, 3, 44.50.55 (trad. A. Colonna).

53Su questa strategia di marginalizzazione e sulle risposte cristiane si veda ora il saggio diK.Pietzner,Bildung, Elite und Konkurrenz. Heiden und Christen vor der Zeit Constantins,Mohr Siebeck, Tübingen 2013.

54Quella cultura di cui, si noti bene, un secolo e mezzo dopoTertulliano l’imperatoreGiuliano avrebbe rivendicato la stretta ed esclusiva appartenenza ad una matrice religiosapagana incompatibile col cristianesimo. Il confronto culturale traTertulliano eGiulianomeriterebbe di essere approfondito. Sul nesso tra culto e cultura nell’ellenismo diGiuliano si veda P.Athanassiadi-Fowden,L’imperatore Giuliano, trad. it. Rizzoli, Milano1984 (=Julian and Hellenism. An Intellectual Biography, Clarendon Press, Oxford1981).

55Tertulliano,Ad Scapulam, 2,1: «Nos unum Deum colimus, quem omnes naturaliternostis, ad cuius fulgura et tonitrua contremiscitis, ad cuius beneficia gaudetis».

56Tertulliano,Apol. 17,5.

57Ibidem17,6.

58Tertulliano,De testimonio animae, 1,4: «Iam igitur nihil nobis erit cum litteris etdoctrina perversae felicitatis, cui in falso potius creditur quam in vero».

59Ibidem.

60Tertulliano,Test. an. 1,5-7: «Novum testimonium advoco, immo omni litteraturanotius, omni doctrina agitatius, omni editione vulgatius, toto homine maius id est totumquod est hominis. Consiste in medio, anima[…].Sed non eam te advoco, quae scholisformata, bybliothecis exercitata, academiis et porticibus Atticis pasta sapientiam ructas.Te simplicem et rudem et impolitam et idioticam compello, qualem te habent qui te solamhabent, illam ipsam de compito, de trivio, de textrino totam. [7] Imperitia tua mihi opusest, quoniam aliquantulae peritiae tuae nemo credit».È, come abbiamo accennato sopra,davvero «l’anima semplicetta che sa nulla» di cui ci parlano gli stupendi versi diDante,Purgatorio, XVI, 85-90, rammentandoci la sua origine dal desiderio amoroso di Dio («escedi mano a Lui che la vagheggia / prima che sia») da cui deriva il desiderio di felicità cheè la sua esigenza ed evidenza prima («mossa da lieto fattore / volentier torna a quel chela trastulla»). Desiderio che, se ben guidato, risolve il contrasto tra principio di piacere eprincipio di realtà.

61Cfr.Tertulliano,Test. an. 5,1: «Haec testimonia animae quanto vera, tanto simplicia,quanto simplicia, tanto vulgaria, quanto vulgaria, tanto communia, quanto communia, tantonaturalia, quanto naturalia, tanto divina. Non puto cuiquam frivola et ridicula videriposse, si recogitet naturae maiestatem, ex qua censetur auctoritas animae. Quantumdederis magistrae, tantum adiudicabis discipulae. Magistra natura, anima discipula.Quicquid aut illa edocuit aut ista perdidicit, a deo traditum est, magistro scilicet ipsiusmagistrae».

62Ibidem5,2: «Etiam circumventa ad adversario meminit sui auctoris et bonitatis etdecreti eius et exitus sui et adversarii ipsius».

63Tertulliano,Ad nationes, I, 8,1.9-10: «Plane, tertium genus dicimur. Cynopennaealiqui, vel Sciapodes vel aliqui de subterraneo Antipodes?[…]Verum recogitate, ne quostertium genus dicitis, principem locum optineat, siquidem non ulla gens non Christiana.Itaque quaecumque gens prima, nihilominus Christiana: ridicula dementia novissimosdicitis et tertios nominatis». Sull’interpretazione di questo passo, cfr. N.Brox,“Non ullagens non christiana” (zu Tertullian,Ad Nat.1,8,9), «Vigiliae Christianae» 27 (1973),46-49.

64Tertulliano,Test. an. 5,3: «Sed qui eiusmodi eruptiones animae non putavit doctrinamesse naturae et congenitae et ingenitae conscientiae tacita commissa, dicet potius diventilatis invulgus opinionibus publicatarum litterarum usum iam et quasi vitium corroboratum talitersermocinandi».

65Ibidem5,4: «Certe prior anima quam littera et prior sermo quam liber et prior sensusquam stilus et prior homo ipse quam philosophus et poeta». La confutazione della tesi che leevidenze elementari dell’anima siano un prodotto culturale prosegue per tutto il resto delcapitolo:5, 4-7.

66F.Chapot, Virtus veritatis.Langage et vérité dans l’oeuvre de Tertullien, Institutd’études augustiniennes, Paris 2009. Si veda anche C.Rambaux,L’accèsà la vérité chezTertullien, Latomus, Bruxelles 2005.

67Tertulliano,Test. an. 6,3: «Vanus es, si huic linguae soli aut Graecae, quae propinquaeinter se habentur, reputabis eiusmodi, ut neges naturae universitatem. Non Latinis necArgivis solis anima de caelo cadit. Omnium gentium unus homo, varium nomen est; unaanima, varia vox, unus spiritus, varius sonus, propria cuique genti loquela, sed loquelaemateria communis».

68Ibidem6,1: «Si tu tuis litteris dubitas, neque deus neque natura mentitur. Ut et naturaeet deo credas, crede animae, ita fiet ut et tibi credas. Illa certe est quam tanti facis, quantumilla te facit, cuius es totus, quae tibi omnia est, sine qua nec vivere potes nec mori, propterquam deos neglegis».

69E si potrebbe continuare: «Cum enim times fieri Christianus, eam conveni. Cur cumalios colat, deum nominat? Cur, cum maledicendo spiritus denotat, daemonia pronuntiat? Curad caelum contestatur et ad terram detestatur? Cur alibi servit, alibi vindicem convenit? Cur demortuis iudicat? Cur verba habet Christianorum, quos nec auditos visosque vult? Curaut nobis dedit ea verba, aut accepit a nobis? Cur aut docuit aut didicit? Suspectamhabes convenientiam praedicationis in tanta disconvenientia conversationis» (Ibidem6,2).

70Ibidem6,4-5: «Deus ubique et bonitas dei ubique, daemonium ubique et maledictiodaemonii ubique, iudicii divini invocatio ubique, mors ubique et conscientia mortis ubique,et testimonium ubique. Omnis anima suo iure proclamat quae nobis nec mutire conceditur».

71Ibidem6,5-6: «Merito igitur omnis anima et rea et testis est, in tantum et rea erroris, inquantum et testis veritatis, et stabit ante aulas dei die iudicii nihil habens dicere. Deumpraedicabas et non requirebas, daemonia abominabaris et illa adorabas; iudicium dei appellabasnec esse credebas, inferna supplicia praesumebas et non praecavebas; Christianum nomensapiebas et Christianum nomen persequebaris».

72Tertulliano,De oratione, 30,1: «Orant etiam angeli omnes, orat omnis creatura, orantpecudes et ferae et genua declinant, et egredientes de stabulis et speluncis ad caelumnon otiosi ore suspiciunt vibrantes spiritum suo more. Sed et aves nunc exsurgenteseriguntur ad caelum, et alarum crucem pro manibus expandunt et dicunt aliquid quodoratio videatur».

73Tertulliano,Adversus Iudaeos, 1,3.

74Cfr.ibidem2,3-7. In sintesi: «Denique ante legem Moysei scriptam in tabulis lapideislegem fuisse contendo non scriptam, quae naturaliter intellegebatur et a patribus custodiebatur»(7).

75Ibidem2,10: «Nec adimamus hanc dei potestatem pro temporum condicione legispraecepta reformantem in hominis salutem».

76Ibidem3,3-4.6: «Nam providens deus, quod hanc circumcisionem in signum non insalutem esset daturus populo Israeli, idcirco filium Moysi ducis futuri instigat circumcidi[…].Dari enim habebat circumcisio, sed in signum unde Israel in novissimo tempore dinoscihaberet, quando secundum sua merita in sanctam civitatem ingredi prohiberetur[…].Haecigitur dei providentia fuit, dandi circumcisionem in signum unde dinosci possent, cumadveniret tempus cum pro meritis suis supradictis in Hierusalem admitti prohiberentur[…]».

77Ibidem6,2: «Itaque necessitas nobis incumbit ut, quoniam praedicatam novam legema prophetis praediximus et non talem, qualis iam data esset patribus eorum eo temporequo eos de terra Aegypti produxit, ostendere et probare debeamus tam illam legem veteremcessasse quam legem novam promissam nunc operari: et quidem primum quaerendum, anexpectetur novae legis lator et novi testamenti heres et novorum sacrificiorum sacerdos etnovae circumcisionis purgator et aeterni sabbati cultor, qui legem veterem compescat etnovum testamentum statuat et nova sacrificia offerat et caeremonias antiquas reprimatet circumcisionem veterem cum suo sabbato compescat et novum regnum quod noncorrumpatur adnuntiet». Vedi anche quello che dice poco dopo, a6,4: «Et in primisdefiniendum est non potuisse cessare legem antiquam et prophetas, nisi venisset is qui pereandem legem antiquam et per eosdem prophetas venturus adnuntiabatur».

78Ibidem7,1: «et cum constiterit venisse indubitate etiam legem novam ab ipsodatam esse credamus et testamentum novum in ipso et per ipsum nobis dispositum nondiffiteamur».

79Ibidem7,4.

80Cfr.ibidem7,4: «ut iam Gaetulorum varietates et Maurorum multi fines, Hispaniarumomnes termini et Galliarum diversae nationes et Britannorum inaccessa Romanis loca Christovero subdita et Sarmatarum et Dacorum et Germanorum et Scytharum et abditarum multarumgentium et provinciarum et insularum multarum nobis ignotarum et quae enumerare minuspossumus[?]».

81Ibidem7,5-9: «In quibus omnibus locis Christi nomen qui iam venit regnat, utpote antequem omnium civitatium portae sunt apertae et cui nullae sunt clausae, abante quem ferreaeserae sunt comminutae et valvae aereae sunt apertae. Quamquam ista et spiritaliter sintintellegenda, quod praecordia singulorum variis modis a diabolo obsessa fide Christisint reserata,attamen etiam perspicue sunt adimpleta, utpote in quibus omnibus locis populus nominis Christiinhabitet. Quis enim omnibus gentibus regnare potuisset, nisi Christus dei filius qui omnibusregnaturus in aeternum nuntiabatur? Nam siSolomon regnavit, sed in finibus Iudaeae tantum: aBersabee usque Dan termini regni eius signantur; si vero Babyloniis et Parthis regnavitDarius,ulterius ultra fines regni sui non habuit potestatem in omnibus gentibus; si AegyptiisPharao vel quisque ei in hereditario regno successit, illic tantum potitus est regni suidominium; siNabuchodonosor cum suis regulis, ab India usque Aethiopiam habuitregni sui terminos; siAlexander Macedo, non amplius quam Asiam universam etceteras regiones quas postea devicerat tenuit; si Germani, adhuc usque limites suostransgredi non sinuntur. Britanni intra oceani sui ambitum clausi sunt, Maurorumgentes et Gaetulorum barbariae a Romanis obsidentur, ne regionum suarum finesexcedant. Quid de ipsis Romanis dicam, qui legionum suarum praesidiis imperium suummuniunt nec trans istas gentes porrigere vires regni sui possunt? Christi autem nomenubique porrigitur, ubique creditur, ab omnibus gentibus supra enumeratis colitur, ubiqueregnat, ubique adoratur; omnibus ubique tribuitur aequaliter; non regis apud illum maiorgratia, non barbari alicuius inferior laetitia; non dignitatum vel natalium cuiusquamdiscreta merita;omnibus aequalis, omnibus rex, omnibus iudex, omnibus deus et dominusest».

82Tertulliano,Apol. 1,6: «cum omnes, qui retro oderant, quia ignorabant, simuldesinunt ignorare, cessant et odisse. Ex his fiunt Christiani». Cfr. ancheAd nationes,I,1,1.

83Cfr.Tertulliano,Apol. 1,10: «sed non ideo – inquit – bonum praeiudicatur, quia multosconvertit: quanti enim ad malum reformantur! Quanti transfugae in perversum!».

84Cfr.ibidem1,10-11: «Tamen quod vere malum est, ne ipsi quidem, quos rapit,defender pro bono audent. Omne malum aut timore aut pudore natura perfudit. Deniquemalefici gestiunt latere, devitant apparere[…]nolunt enim suum esse, quod malumagnoscunt».

85Ibidem1,12-13: «Neminem pudet, neminem paenitet nisi plane retro non fuisset; sidenotatur, gloriatur; si accusatur, non defendit; interrogatus vel ultro confitetur; damnatusgratias agit. Quid hoc mali est, quod naturalia mali non habet, timorem, pudorem,tergiversationem, paenitentiam, deplorationem?». Lo stesso carattere di testimonianzapubblica impedisce di derubricare il cristianesimo adementia(e così di sbarazzarsi delproblema di fare i conti con le sue istanze): «Non potes dementiam dicere, quod revincerisignorare» (1,13). Di fronte ad un fenomento che non sono in grado di spiegare, i paganinon possono cavarsela etichettandolo come follia.

86È interessante notare, ad esempio, l’incidenza di questa preoccupazione diTertulliano nelmodo di trattare il tema della preghiera: nella seconda parte del suoDe oratione, tratteggiandouna sorta di disciplinare della preghiera cristiana si pone anche il problema dei tempi dellapreghiera e osserva: «De temporibus orationis nihil omnino praescriptum est, nisi plane omni intempore et loco orare. Sed quomodo omni loco, cum prohibemur in publico?» (24,1). Laproibizione di pregare in pubblico appare come un serio ostacolo al sano e completo sviluppodella preghiera cristiana: per questoTertulliano spiega che quell’«omni loco» va inteso condiscrezione, tenendo conto dell’opportunità, ma che gli Apostoli non hanno avuto remore apregare in carcere, dove potevano essere uditi, ePaolo «in navi coram omnibus eucharistiamfecit» (ibid.)

87Tertulliano,Apol. 24,9-10: «Sed nos soli arcemur a religionis proprietate. LaedimusRomanos nec Romani habemur, qui non Romanorum deum colimus. Bene quod omniumdeus est, cuius, velimus ac nolimus, omnes sumus. Sed apud vos quodvis colere ius estpraeter deum verum, quasi non hic magis omnium sit deus, cuius omnes sumus».

88Ibidem30,1-2: «Nos enim pro salute imperatorum deum invocamus aeternum, deumverum, deum vivum, quem et ipsi imperatores propitium sibi praeter ceteros malunt. Sciunt, quisillis dederit imperium; sciunt, qua homines, quis et animam; sentiunt eum esse deum solum, incuius solius potestate sint, a quo sint secundi, post quem primi, ante omnes et super omnesdeos. Quidni? Cum super omnes homines, qui utique vivunt et mortuis antistant. [2]Recogitant quousque vires imperii sui valeant, et ita deum intellegunt; adversus quem valerenon possunt, per eum valere se cognoscunt».È sorprendente il tono di questo passo,perchéTertulliano, in un certo senso, parla come se la svolta costantiniana fosse giàavvenuta!

89Ibidem1,7: «Obsessam vociferantur civitatem; in agris, in castellis, in insulisChristianos; omnem sexum, aetatem, condicionem, etiam dignitatem transgredi ad hoc nomenquasi detrimento maerent». Cfr. ancheNat. I, 1,2: «Adeo quotidie adolescentem numerumChristianorum ingemitis; obsessam vociferamini civitatem, in agris, in castellis, in insulisChristianos; omnem sexum, omnem aetatem, omnem denique dignitatem transgredi a vobis quasidetrimento doletis».

90Ibidem37,4-5: «Si enim et hostes exsertos, non tantum vindices occultos agerevellemus, deesset nobis vis numerorum et copiarum?[…]Hesterni sumus, et orbemiam et vestra omnia implevimus, urbes insulas castella municipia conciliabula, castraipsa tribus decurias palatium senatum forum. Sola vobis reliquimus templa! Possumusdinumerare exercitus vestros: unius provinciae plures erimus!». Analoga dichiarazione,tra rassicurante e minacciosa, della forza maggioritaria dei cristiani, che però per ladisciplina patientiae divinaenon costituiscono un problema di ordine pubblica, la troviamonell’Ad Scapulam: «Et utique ex disciplina patientiae divinae agere nos, satis manifestumesse vobis potest, cum tanta hominum multitudo, pars paene maior civitatis cuiusque, insilentio et modestia agimus, singuli forte noti magis quam omnes, nec aliunde noscibilesquam de emendatione vitiorum pristinorum» (2,10). L’accenno al tema della diffusioneuniversale del cristianesimo ritorna diverse altre volte nell’opera diTertulliano, ad esempioinAdversus MarcionemIII, 20,2 («Aspice universas nationes de voragine erroris humaniexinde emergentesad deum creatorem, ad deum Christum») oDe fuga in persecutione,12,11 (dove si parla, a proposito del popolo cristiano, di «tantae multitudinis neminiignotae»).

91Tertulliano,Apol. 37,6-7: «Potuimus et inermes nec ribelles, sed tantummododiscordes, solius divortii invidia adversus vos dimicasse. Si enim tanta vis hominum inaliquem orbis remoti sinum abrupissemus a vobis, suffudisset utique dominationem vestramtot qualiumcumque civium amissio, immo etiam et ipsa destitutione punisset. Procul dubioexpavissetis ad solitudinem vestram, ad silentium rerum et stuporem quendam quasi mortuiorbis: quaesissetis, quibus imperaretis; plures hostes quam cives vobis remansissent».

92Tertulliano,De anima, 35,2: «Nam et ethnicus homo adversarius noster est, incedens ineadem via vitae communis. Ceterum oportebat nos de mundo exire, si cum illis conversari nonliceret».

93Tertulliano,De spectaculis15,8.

94Tertulliano,Ad Scapulam, 5,2: «Hoc si placuerit et hic fieri, quid facies de tantis milibushominum, tot viris ac feminis, omnis sexus, omnis aetatis, omnis dignitatis, offerentibus se tibi?Quantis ignibus, quantis gladiis opus erit! Quid ipsa Carthago passura est, decimata a te, cumpropinquos, cum contubernales suos illic unusquisque cognouerit, cum uiderit illic fortasse et tuiordinis uiros et matronas, et principales quasque personas, et amicorum tuorum uel propinquosuel amicos?».