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Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica

Percezione della crisi nel divenire delle lingue con particolare riferimento al latino cristiano

Moreno Morani

Università di Genova

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La crisi di una lingua normalmente coincide con epoche di generale transizione di cultura, di valori, di organizzazione sociale. Essa può portare o alla morte della lingua stessa oppure a una sua completa trasformazione: sulle ceneri della lingua precedente può svilupparsi una lingua che ne è la continuazione, ma risulta alla fine strutturalmente diversa: il primo è il caso dell’etrusco o del manx, il secondo quello dell’italiano o della hindī. Pertanto lo studio delle crisi linguistiche può servire anche da modello interpretativo per chi desidera approfondire lo studio delle trasformazioni culturali.

In una famosa pagina del Cours de linguistique générale Saussure sostiene il carattere immutabile della lingua sottolineando che il sistema linguistico viene acquisito dai parlanti come un’eredità delle generazioni passate e non vi è né l’interesse né la condizione per modificarlo.1 Più che una tesi, quello di Saussure è un paradosso. Un paradosso tanto singolare, da meritare (cosa in generale inconsueta) una nota da parte dei redattori del Cours, che hanno voluto mettere al riparo Saussure dall’eventuale accusa di illogicità e contraddittorietà, affermando che l’autore intendeva solo dire che la lingua (la langue) si trasforma senza che i parlanti possano intervenire a modificarla e che qui ‘immutabile’ va intenso nel senso di ‘inalterabile’.2 Un paradosso dunque che vale solamente da un punto di vista dialettico, né più né meno che la freccia di Zenone. Nella vita pratica, chi tende un arco per colpire un oggetto sa che la freccia si muoverà nello spazio e toccherà (o mancherà) il bersaglio, e per questo scopo lo tende: se davvero ritenesse immobile la freccia, nemmeno farebbe lo sforzo di tendere l’arco: la pretesa immobilità della freccia è valida solo se escludiamo dall’orizzonte della nostra indagine una dimensione essenziale per la comprensione dei fenomeni umani, vale a dire il tempo. Comunque sia, la pagina di Saussure ha suscitato un dibattito i cui echi sono ancora vivi. E poiché il fatto che le lingue cambiano è un dato di riconosciuta evidenza, alcuni studiosi hanno cercato di mediare fra Saussure e i dati dell’esperienza affermando che sì le lingue cambiano, ma in linea di principio il sistema in sé sarebbe immutabile, e dunque se una lingua si trasforma ciò avviene perché vi sono ragioni e forze estranee al sistema che lo modificano: in sostanza il cambiamento sarebbe da considerare come una patologia, non come la normalità, e così facendo ci si dimentica che le lingue esistono solamente perché esistono dei parlanti, che non sono finalizzate a sé stesse bensì alle necessità concrete e mutevoli delle comunità umane che le utilizzano, e che, in conclusione, se cambiano, le ragioni sono da individuare nel fatto che le comunità dei parlanti le vogliono rendere più coerenti con le proprie esigenze espressive che possono mutare nel tempo, anche in connessione con le trasformazioni culturali e sociali che si producono. Dire che una lingua è immutabile è come dire che un’automobile è per definizione ferma: l’automobile in effetti rimane ferma, fino a che una decisione o una volontà umana non ne mette in moto i meccanismi, facendola muovere da un lungo a un altro: che è poi la vera finalità per cui l’automobile esiste.3

Studiando un’epoca di crisi ci muoviamo in una prospettiva lontana dagli insegnamenti saussuriani seguiti da buona parte della linguistica attuale, perché Saussure proponeva di studiare gli états de langue, cioè quelle fasi storiche, lunghe o brevi, in cui il sistema rimane stabile. Nelle epoche di crisi invece siamo di fronte a un quadro in movimento, per certi versi addirittura in ebollizione. La percezione del cambiamento non manca al parlante, che spesso avverte la trasformazione del sistema come un cambiamento in peggio, un allontanarsi della lingua dal modello che il parlante ha ereditato, e quindi un’alterazione. L’idea che oggi si parli una lingua brutta e imbarbarita, mentre quella delle generazioni che ci hanno preceduto era la lingua vera, da assumersi a modello, è comune e diffusa in molte aree e in molte epoche. I laudatores temporis acti esistono anche nell’ambito della lingua. Ed è da questa sensazione che prendono l’avvio in vari momenti della storia linguistica (di tutte le lingue) quelle correnti puristiche che si propongono di fare arretrare le lancette della storia, assumendo come modello fasi linguistiche superate nel tempo e cancellando cambiamenti intervenuti nel corso di decenni o di secoli.

Tentativi di questo genere non sono necessariamente e fatalmente votati all’insuccesso. Essi però hanno maggiore possibilità di realizzarsi quando si ha a che fare con lingue morte o moribonde, non con lingue vive. Proporre ed emulare un modello passato è possibile quando si ha a che fare con una varietà uscita dall’uso quotidiano, mentre intervenire sulla lingua dell’uso comune è meno agevole, anche se non del tutto impossibile. Nella storia del latino vi furono due importanti momenti in cui una riforma riportò in vigore una fase linguistica precedente: il momento della riforma carolingia e il momento della riforma umanistica. La riforma carolingia (quella che qui più ci interessa) ebbe effetti importanti soprattutto sulla lingua scritta, che venne depurata da una quantità di incrostazioni volgari che l’avevano profondamente alterata, mentre la varietà parlata continuò il suo corso evolutivo, e anzi la conclusione del processo di riforma fu quella di rompere in modo definitivo il contatto tra la varietà più elevata e la lingua dell’uso. La riforma nacque dalla sensazione che il graduale avvicinamento, che si stava realizzando in molti documenti, tra varietà scritta e parlata stava portando la lingua scritta sempre più lontana dai grandi modelli della tradizione classica, e dunque essa si proponeva di ridare dignità alla lingua scritta: ma l’esito fu quello di allargare il fossato fra le due varietà e di permettere alla lingua parlata di acquisire coscienza delle proprie potenzialità espressive, relegando così il latino a un uso sempre più ristretto.

La laudatio temporis acti (“ai bei tempi in cui si parlava latino”) è già in Seneca:4 haec, quae nunc vulgo breviarium dicitur, olim cum Latine loqueremur, summarium vocabatur (‘riassunto’) (Ep. 39, 1). “Quando si parlava il latino vero, non quello imbastardito della nostra epoca”. E anche Quintiliano, parlando dell’oscillazione fra il tipo senatus e il tipo senati nel genitivo della declinazione dei temi in –u, contrappone il Latine loqui al grammatice loqui, cioè la parlata latina dei suoi contemporanei alla norma corretta sanzionata dai grammatici: sono due cose diverse, quare mihi non invenuste dici videtur, aliud esse Latine, aliud grammatice loqui (I 6, 27).

Possiamo andare ancora più indietro: un personaggio del De oratore ciceroniano, Lucio Licinio Crasso, evoca con un po’ di nostalgia il bel latino dei tempi di Nevio e di Plauto, di cui percepisce qualche eco nella parlata di sua suocera Lelia e in genere delle donne di Roma: eam sic audio, ut Plautum mihi aut Naevium videar audire, sono ipso vocis ita recto et simplici (…) Sic locutum esse eius patrem iudico, sic maiores.5

Questa sensazione si fa più acuta nei secoli dell’impero, quando il latino, diffuso in uno spazio immensamente più ampio di quello originario, è sottoposto a un processo di trasformazione più rapido e più veemente, come emerge dalla testimonianza di Gerolamo, che ipsa Latinitas et regionibus quotidie mutetur et tempore, al punto che ormai le differenti varietà diatopiche sembrano lontane fra loro quasi quanto lo sono la lingua dei Galati e dei Galli, o le lingue degli Africani e dei Fenici, frammentazioni di lingue un tempo unitarie.6

Nel momento in cui il solco fra varietà “nobile” e varietà dell’uso quotidiano e domestico sta per diventare praticamente invalicabile, si determina in alcuni scrittori un atteggiamento che spesso assume le fattezze di una orgogliosa insofferenza. Alcuni autori cristiani, dotati di un’acuta percezione metalinguistica, affermano senza mezzi termini che il loro allontanamento dalla lingua classica è intenzionale e determinato dall’esigenza di esprimere in modo efficace le verità della fede cristiana in modo da farsi capire dal popolo. Afferma in diversi passaggi Agostino che il pensiero è più importante delle parole, e il compito del pastore, del doctor pietatis che parla agli imperiti, è quello di istruire il popolo: che importa se le omelie sono intrise di solecismi e di barbarismi, quando si raggiunge il fine di presentare al popolo in modo chiaro ed efficace la parola di Dio?7 Perché dovremmo avere paura dei grammatici? dum omnes instruantur, grammatici non timeantur.8 Che importa, se per rendere più chiare le nostre parole diciamo fenerat invece di feneratur (perché l’uso del medio è ormai in crisi9) oppure ossum invece di os, visto che in Africa ormai l’opposizione fra breve e lunga è venuta meno e il pubblico rischierebbe di confondere ŏs ‘osso’ con os ‘bocca’10?

Con tutto ciò, gli autori più colti non nascondono un atteggiamento di nostalgia per la tradizione classica, che non si cessa di coltivare: basti ricordare il notissimo episodio del Ciceronianus es, non Christianus, narrato da Gerolamo.11 Insofferenza e nostalgia sembrano le due facce contrastanti e complementari di un medesimo sentimento.

La politica imperiale persegue (come oggi diremmo) un disegno di standardizzazione del latino almeno fino alla fine del II secolo: questo progetto fu condotto in modo prudente e in un’ottica di pacificazione: anche la politica linguistica si inscrive in una politica di assimilazione culturale non traumatica, in modo da evitare turbamenti della pace sociale: ut … linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imponeret,12 dice ancora Agostino. Il classico volume di Mohl, Introduction à la chronologie du latin vulgaire, sostiene che questo progetto entra in crisi quando i rapporti fra Roma e le province diventano più radi o si interrompono del tutto: Mohl sarebbe propenso ad anticipare al V secolo l’inizio della fase più acuta della crisi, facendola corrispondere alla fine dell’impero d’Occidente.13 Mohl però trascura un fatto importante. Se pure viene meno l’autorità politica di Roma e il rapporto tra centro e periferia si attenua o addirittura si interrompe del tutto, e il livello delle scuole decade, anche per le difficoltà e i conflitti che toccano diversi punti del territorio, rimane pur sempre, come potente fattore di unificazione, la presenza del Cristianesimo. Anche quando la Roma degli imperatori diventerà un ricordo, rimane la Roma dei Papi, potente fattore di civiltà e di unità anche linguistica per le nazioni dell’Europa occidentale.

Col propagarsi del Cristianesimo si costituisce una nuova varietà di latino, il latino ecclesiastico, che si colloca come varietà ancora diversa, e spesso intermedia fra la lingua elevata della tradizione classica e la lingua dell’uso, una lingua attenta tanto alle esigenze di una predicazione universale quanto alle esigenze della Chiesa locale: perché l’orizzonte della Chiesa è contemporaneamente l’ecumene e la diocesi. Gerolamo ripulisce la lingua delle versioni bibliche dai barbarismi e dai solecismi più marcati (quelli che si trovano in abbondanza nelle versioni bibliche che circolavano in Africa), ma evita di produrre una versione che segua completamente i dettami dello stile classico. Nel latino della Chiesa il distacco fra varietà elevata e varietà bassa non sarà mai totale, e l’interrelazione fra le due varietà darà vita, nel giro di pochi secoli, a forme di varietà intermedie di volgare latinizzato o di latino volgarizzato, fino al latinum iuxta rusticitatem o circa romançum, che farà la sua comparsa prima in scriptae rustiche o in documenti notarili, e poi in occasioni pubbliche ufficiali, come nella acclamazioni popolari per il Papa Adriano (772-795), la cosiddetta Litania Karolina: Adriano summo pontifice | et universale papae vita! | Redemptor mundi, tu lo iuva, | Sancte Petre, tu lo iuva.14

Il duplice atteggiamento di insofferenza e di nostalgia è ben presente in autori del VI-VII.

Nei secoli finali dell’impero l’uso del latino tende a restringersi e nelle zone di confine la lingua viene abbandonata a favore di lingue di altre popolazioni. Insieme alla lingua entra in crisi anche la tradizione culturale e giuridica romana. Ne è testimone Sidonio Apollinare, che in una lettera a un illustre corrispondente presenta un quadro fosco e melanconico dell’ormai inarrestabile declino a cui la lingua latina sta andando incontro. La sorte delle lettere latine sembra segnata, ma per fortuna vi sono persone (come l’amico Arvogasto a cui la lettera è indirizzata) che preservano e perpetuano il fulgore del latino e le ultime tracce di un passato ormai prossimo al dissolvimento nei territori del Belgio e del Reno.15 In un’altra lettera inviata all’amico Esperio, Sidonio afferma che fra poco si dovrà piangere sul cadavere della lingua latina, tanto la sua pratica è sommersa dall’affollarsi di barbarismi triviali.16

Un atteggiamento analogo si coglie in un altro autore della stessa epoca e dello stesso ambiente culturale, Claudiano Mamerto, teologo e sacerdote della Gallia, che proprio a Sidonio Apollinare dedicò un trattato in tre libri De statu animae. In una lettera all’amico retore Sapaudo,17 Claudiano dà un quadro melanconico della crisi dell’epoca: è venuta meno l’antica curiosità di sapere e di cercare contatti con nuove culture: si dovranno presto celebrare i funerali di una tradizione di studi ormai defunta. La gente non solo trascura di parlare latino (cioè latino corretto), ma addirittura se ne vergogna, come se fosse una colpa: la grammatica è mandata avanti a pugni e calci tra barbarismi e solecismi, la dialettica fa paura come un’amazzone pronta ad affrontarti con la spada, retorica, musica, aritmetica sono disprezzate come furie, la filosofia è considerata un animale mostruoso.18 Nella chiusa della lettera l’autore consiglia all’amico di leggere e assumere a modello non la letteratura del suo tempo (“stupidaggini puerili”), ma i grandi del passato: Nevio e Plauto per l’eleganza, Catone per la serietà, Varrone per la cultura, Gracco per la capacità polemica, Crisippo per la scienza, Frontone per la fastosità, Cicerone per l’eloquenza.19 Un canone singolare, che allinea una serie disparata di autori, e l’intromissione di un filosofo greco come Crisippo rende più oscuro il criterio delle scelte. E sarebbe da chiedersi quanti di questi autori Claudiano Mamerto avesse realmente letto e quanti gli fossero effettivamente accessibili, perché è difficile sapere se a quest’epoca erano sopravvissute le opere di Nevio e le orazioni di Gracco: se così non fosse, questa elencazione sarebbe frutto di uno sfoggio culturale fine a sé stesso. Certo, il mondo è invecchiato e le arti sono venute meno,20 ma lo diceva già secoli prima, in toni drammatici, Cipriano di Cartagine, in una lettera a Demetriano, il quale accusava i cristiani di essere i responsabili di tutti i mali del tempo.21 Ancora, nella lettera di Claudiano Mamerto si avverte un ulteriore passaggio. Il rimpianto per i bei tempi andati lo trascina ai primordi della letteratura latina, e gli fa assumere come punto di riferimento alcuni autori che dal punto di vista strettamente linguistico scrivono in un latino arcaico ancora lontano dall’asserita perfezione dei classici. È anche notevole che fra gli autori del suo canone non ci sia nemmeno un cristiano. La sopravvalutazione degli autori antichi fa sottovalutare gli autori dell’epoca più recente. Una prova conclamata di questo atteggiamento freddo nei confronti dei grandi del recente passato è implicito in un passaggio della Vita di Ilario scritta da Onorato di Marsiglia.22 Il santo viene elogiato per le sue capacità oratorie e la capacità di farsi capire tanto dai rustici quanto dagli uomini di elevata cultura. Se Agostino fosse vissuto dopo di lui, sarebbe stato giudicato inferiore: tanto è ritenuta efficace la prosa di Ilario.23

Il disinteresse e la disistima nei confronti delle lettere cristiane ha una rilevanza sociale ed è diffusa nella cultura del tempo. Cassiodoro lamenta nell’Introduzione alle Institutiones come al suo tempo le lettere e le scienze profane siano coltivate da molti, che ritengono di poter raggiungere la saggezza attraverso la lettura della sapienza pagana, mentre si osserva una generale carenza di maestri in grado di insegnare le scritture divine. Sembra dunque che la crisi degli studi non abbia toccato con uguale durezza la tradizione degli studi classici come ha investito la tradizione degli studi cristiani, e il nobile progetto di Cassiodoro, elaborato in collaborazione col papa Agapito, di fornire alle scuole romane maestri capaci di alimentare col loro eloquio la cultura dei fedeli si arena sulle difficoltà determinate dalla mancanza di fondi e dalla grave situazione storica, con le guerre e le invasioni che paralizzano la libertà di movimento.24

L’enfasi, la prolissità, la scelta di vocaboli rari o di derivazioni inconsuete rende talora scostante e faticosa la lettura di vari autori di quest’epoca. È anche questo un indizio che il latino sta diventando una lingua lontana, frutto di un apprendimento scolastico e praticata con un certo sforzo.

Il prologo della Historia Francorum di Gregorio di Tours (538-594) ribadisce la decadenza culturale del tempo, ma sceglie una direzione diversa. La crisi delle lettere e la conseguente carenza di persone capaci di scrivere impedisce di trasmettere ai posteri gli avvenimenti di un’epoca interessante, un’epoca di scontri fra devoti fedeli all’ortodossia ed eretici che assaltano le chiese. La scelta di Gregorio è quella di raccogliere e narrare questi avvenimenti, e il suo stile apparentemente dimesso e volgarizzante, intriso di barbarismi e solecismi a tutti i livelli, è frutto di una scelta deliberata: un retore che indulge ai fasti della lingua letteraria non viene capito dalla gente, mentre uno che parla come la gente, un loquens rusticus, viene compreso da molti.25 Se si osserva senza pregiudizi lo stile di Gregorio, si noterà quanto esso sia debitore nei confronti della grande tradizione storiografica latina: il periodare ampio, la ricchezza di subordinazioni e di contrapposizioni, la capacità di attrarre l’attenzione del lettore nella rappresentazione vivace dei fatti, sono tutti elementi che fanno intendere un retroterra culturale raffinato. L’autore proviene da una nobile famiglia senatoriale romana, che annovera tra i suoi appartenenti personaggi di spicco e vescovi. Certamente il latino è la lingua madre che si parlava in famiglia, probabilmente un latino discretamente nobile, contrapposto talvolta nel corso dell’opera al latino dei rustici, la gente della campagna e del contado. La Gallia all’epoca era una realtà plurilingue: accanto al latino doveva essere praticato il franco, ed è probabile che soprattutto nelle realtà rurali o nelle zone di più difficile accesso sopravvivessero delle isole galliche. Ma questo quadro composito non emerge dalla lettura dalla Historia Francorum, nella quale l’uso di parole straniere è parco e limitato a pochi termini tecnici.26

Più o meno negli stessi decenni il papa Gregorio Magno afferma in modo netto la sua avversione alle regole dei grammatici, e nella dedica a Leandro premessa ai Moralia in Iob afferma di avere volontariamente infranto le regole delle retorica e della grammatica, perché gli sembrava cosa indegna sottomettere la parola di Dio alle regole di Donato: et ipsam loquendi artem, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi (…) quia indignum vehementer existimo ut verba coelestis oraculi restringam sub regulis Donati.27 Nel prologo dei Dialogi però, che hanno una finalità diversa (più popolare) rispetto ad altri lavori più impegnativi, Gregorio, esponendo i criteri delle sue scelte stilistiche, afferma di non essere capace di adeguarsi a uno stile troppo vicino alla lingua volgare. Dovendo riferire racconti e notizie che ha appreso dalla viva voce di persone venerabili, in molti casi riferirà le parole stesse del suo interlocutore, in altri casi riferirà il senso complessivo del racconto udito, ma non le parole esatte, troppo lontane dal suo modo di esprimersi: «Il mio stile nello scrivere non avrebbe potuto adattarsi a espressioni di tono popolare».28 È anche da chiedersi quanto fedelmente il testo dei Dialogi ci sia stato trasmesso, e quanto la tradizione manoscritta abbia moderato, se non eliminato, volgarismi ed elementi popolari. Su questo punto vi è contrasto fra gli editori moderni di Gregorio, che si rifanno a criteri e scelte editoriali antitetiche. Delle più recenti edizioni moderne che si pongono di fronte al testo con atteggiamento critico (non parlerei di vere e proprie edizioni critiche, perché un’edizione che tenga pienamente conto della ricca tradizione dell’opera ancora manca), quella di Umberto Moricca (1924)29 accetta molti volgarismi e anomalie dei codici medievali, mentre l’edizione di Adalbert de Vogüé nella collana Sources Chrétiennes (1979-80) offre un testo meno impregnato di forme volgari.30 Le ricerche più recenti, che fanno tesoro anche delle informazioni che si possono acquisire attraverso l’antica traduzione greca realizzata da papa Zaccaria (che Moricca non aveva preso in considerazione), tendono a mettere in luce una complessa trama che alterna forme volgari e forme normali anche in contesti simili e anche a poche righe di distanza, cosicché si ha l’impressione che molto spesso sia l’attività dei copisti e poi delle edizioni a stampa ad avere eliminato forme percepite come eccessivamente basse. Bastino un paio di esempi. Gregorio usa il termine flagrantia per indicare il profumo che emanano i corpi dei santi al momento della morte: l’edizione di De Vogüé, seguendo le precedenti edizioni a stampa, sceglie la forma classica fragrantia, benché i manoscritti abbiano costantemente flagrantia (lezione che viene segnalata in apparato soltanto in occasione delle prime due occorrenze, perché successivamente l’editore uniforma la grafia senza nemmeno offrire informazioni sul comportamento dei codici), mentre l’edizione di Moricca preferisce flagrantia. Accanto a velim, nel latino volgare di epoca gregoriana si afferma una forma vellim, nata sia dall’influsso della corrispondente forma dell’imperfetto vellem sia dalle complesse vicende che subisce /l/ seguita da vocale palatale in territorio romanzo. In alcuni passaggi la tradizione manoscritta rifiuta questa forma volgare o restituendo la forma primitiva velim o emendando congetturalmente in vellem. Ad es. in I, Intr. 8 il discepolo Petrus si rivolge al maestro Gregorio con le parole Vellem quaerenti mihi de eis aliqua narrares. In realtà i codici oscillano tra velim ~ vellim ~ vellem.31 La scelta fra presente e imperfetto tocca anche il verbo che ne dipende, e anche qui la tradizione manoscritta offre una pluralità di varianti: narrares (narraris, narreris) e narres (narris).32 L’impressione, motivata anche dal fatto che non si tratta di desiderio irrealizzabile e dunque velim sembra plausibile, è che il testo originario presentasse vellim narres, e che su questa lezione si sia esercitata un’azione progressiva di normalizzazione: sembra dimostrarlo anche la varietà di forme del secondo verbo, frutto di tentativi operati da copisti che sembrano incapaci di dominare pienamente il paradigma del verbo latino.

Con la data di morte di Gregorio arriviamo al limite del VII sec., che è la data indicata da molti studiosi moderni per stabilire la morte del latino. La crisi si conclude dunque con una morte, ma di questa morte possiamo produrre un certificato che stabilisca con certezza il momento del decesso? E accanto al certificato di morte del latino possiamo produrre un certificato di nascita delle lingue romanze? Tra i tanti che indicano il 600 come data di morte del latino cito il recente voluminoso studio di F. Adams sulle diversificazioni regionali del latino.33 Uno dei più eminenti studiosi di latino medievale, il Norberg, afferma esplicitamente che «before 600 the popular speech may be called Latin, after 800 Roman».34 Affermazione senz’altro curiosa, perché viene da chiedersi che cosa mai avrebbero parlato le persone vissute nei due secoli intermedi.

Quando una crisi si risolve con la fine di un’esperienza e il passaggio a una fase profondamente rinnovata, non tutto si perde, perché nella nuova fase si possono raccogliere elementi positivi della fase precedente. Nel nostro caso abbiamo una soluzione ancora diversa. Il latino non muore nel 600 e le lingue romanze non nascono nell’800. Possiamo riprendere la posizione di Eugenio Coseriu35 e ricordare che ogni lingua è in realtà la somma di tanti sottosistemi: secondo Coseriu la fine del latino va posta nel momento in cui il parlante ha cessato di percepire la varietà alta (la lingua letteraria) e la varietà bassa (la lingua parlata) come due sottosistemi della medesima lingua, tanto da vedere in essi due sistemi differenti. Determinante dunque non è la nostra definizione di che cosa è latino e che cosa è romanzo, ma la percezione che l’uomo dell’epoca aveva delle due varietà e la sensazione di rapido mutamento e deterioramento (e dunque di crisi) della varietà elevata.

Per quanto fissare punti di riferimento sia sempre, in linguistica, un’operazione convenzionale, porre nel IX secolo l’inizio delle lingue romanze può avere motivazioni valide: è in questo secolo che la divaricazione ormai definitiva fra le due varietà ai afferma in modo ufficiale. Se il concilio di Tours (813), raccomandando ai pastori di pronunziare le omelie in rustica romana vel theotisca lingua, rivela che ormai è cessata la possibilità di interazione fra le due varietà, nobile e plebea, del latino e assimila le lingue romanze alle lingue germaniche sotto il profilo della piena accessibilità da parte del parlante non colto (quo facilius cuncti possint intellegere), l’uso del volgare nei Giuramenti di Strasburgo (842) costituisce il primo momento di uso ufficiale e pubblico della lingua romanza. In Italia, dove la distanza fra volgare e latino è meno ampia, i primi usi ufficiali appaiono circa un secolo dopo, a partire dai Placiti Capuani del 960. Non mancano testi anteriori di scritture romanze: ma ciò che manca a tali scriptae è il carattere di ufficialità che contraddistingue invece i testi di Strasburgo o di Capua.

Che cosa succede dunque nel periodo di interstizio tra il VII e il IX secolo? Abbiamo visto come i testi del V-VI siano espliciti nella percezione della crisi linguistico-culturale che contrassegna l’epoca. La soluzione della crisi poteva attuarsi, teoricamente, in due modi. O elevando il livello della varietà bassa, facendo di latino e volgare due varietà di pari valore e utilizzando il volgare per tutti quegli usi che prima erano riservati alla varietà più alta, o avvicinando progressivamente la varietà alta alla lingua volgare. Nella Gallia merovingica come nell’Italia longobarda si continua a usare il latino, e i documenti privati dell’epoca ci presentano una facies linguistica sempre più incolta e disordinata: alcuni studiosi definiscono anarchica questa varietà di latino, nella quale sembra che tutte le regole e le norme vengano ignorate e stravolte.

Scrive G. Petracco Sicardi, che ha dedicato importanti lavori allo studio di questa scripta in area soprattutto italiana: «L’incoerenza di questa scripta deve essere parziale o apparente: essa si deve poter ricondurre ad un sistema, ad un codice con un numero definito di varianti facoltative. Ma questo codice non è più lo stesso del latino classico e va quindi messo in evidenza all’interno (…) Accanto ad alcune costanti di carattere generale sussisteranno tratti peculiari di una tradizione scrittoria e le diverse tradizioni staranno in rapporto tra loro nell’ambito di un diasistema».36 Nell’assoluta confusione dell’epoca la lingua scritta sembra animata dalla volontà di adeguarsi progressivamente al parlato. Questa evoluzione subisce una brusca interruzione nel IX secolo. La rinascenza carolingia produce una sorta di restaurazione del latino che si avverte anche in molti documenti privati. Come ha mostrato uno studioso americano, Mario Pei, in atti notarili redatti nella seconda metà dell’VIII secolo spariscono numerosi errori di forma e di grafia che sono diffusi in testi analoghi dei decenni precedenti, il che sottintende un innalzamento del livello medio di conoscenza della lingua e l’effetto di una riforma che si è imposta e ha penetrato profondamente l’uso linguistico.37

In estrema sintesi, l’esito della crisi non è la morte del soggetto. La crisi porta a una soluzione inattesa e imprevedibile. Paradossalmente, potremmo anche dire che, dopo i secoli di crisi e il presunto decesso, l’area di diffusione e di conoscenza del latino si amplia, perché il latino conquista nuovi spazi in terre che non avevano mai fatto parte dell’impero, dall’Irlanda alle terre oltre il Danubio.

Se applichiamo alla crisi il modello interpretativo della malattia (operazione che ci sembra lecita, perché la parola crisi indica originariamente la fase acuta di una malattia), possiamo dire che il nostro malato, il latino, non muore. La vita del latino continua. La riforma carolingia ha annullato decenni di trasformazione e ha riportato la lingua indietro nel tempo. Per certi versi quella del latino «è una vita un po’ cristallizzata e artificiosa, perché ricreata dalla scuola, non più dall’uso vivo dei parlanti. Il latino si trova accanto competitori più giovani e prestanti che progressivamente ne delimitano la sfera di impiego: ma nella sua nuova forma castigata ed emendata sopravvive, dando luogo a quel paradosso singolare che fu il latino medioevale, una lingua che si può definire viva e morta nello stesso tempo, viva perché capace di produrre un enorme numero di testi di scienza, di letteratura, di poesia, spesso di notevole valore, e morta perché non si diffonde attraverso l’uso di una comunità di persone che lo pratica e ne tramanda la conoscenza alle generazioni successive. Come scrive un grande studioso di latino medievale, in un articolo apparso nel 1949 e dal valore programmatico, «Il latino medievale non è una lingua nazionale, né una lingua universale, e neppure una lingua ausiliaria internazionale (…) Non è esclusivamente lingua della Chiesa, né la lingua di una classe. È una lingua senza comunità linguistica, e tuttavia non una lingua morta. Il latino medievale è la lingua di una comunione di idee (…), la lingua madre dell’Occidente».38

1F. De Saussure, Cours de linguistique générale (Paris-Lausanne: Champion, 19222), 104 e seguenti. Sulla questione rimando anche al mio scritto Parole nuove per verità antiche, in: M.C. Benvenuto, P. Martino (cur.), Linguaggi per un nuovo Umanesimo, LEV, Città del Vaticano, 2015, 81-96.

2Cours cit., 108. « On aurait tort de reprocher à F. de Saussure d’être illogique ou paradoxal en attribuant à la langue deux qualités contradìctoìres, par l’opposition de deux termes frappants. Il a voulu seulement marquer fortement cette vérité, que la langue se transforme sans que les sujets puissent la transformer. On peut dire aussi qu’elle est intangible, mais non inaltérable (Ed.) ».

3Su tutto ciò si v. il primo capitolo di E. Coseriu, Sincronia, diacronia e storia, ed. ital. Boringhieri, Torino (1981). Cfr. inoltre M. Morani, Parole nuove per verità antiche, cit. (nella nota 1).

4Riprendo qui in parte (con ampliamenti) una problematica già sinteticamente affrontata nella mia Introduzione alla linguistica latina, Lincom, München 20002), 74 e seguenti, ove si troverà il rinvio ad altro materiale insieme alle necessarie integrazioni bibliografiche.

5Equidem cum audio socrum meam Laeliam – facilius enim mulieres incorruptam antiquitatem conservant, quod multorum sermonis expertes ea tenent semper, quae prima didicerunt – sed eam sic audio, ut Plautum mihi aut Naevium videar audire, sono ipso vocis ita recto et simplici est, ut nihil ostentationis aut imitationis adferre videatur; ex quo sic locutum esse eius patrem iudico, sic maiores (de oratore. III 45).

6Unum est quod inferimus, et promissum in exordio reddimus, Galatas excepto sermone Graeco, quo omnis oriens loquitur, propriam linguam eamdem paene habere quam Treviros, nec referre, si aliqua exinde corruperint, cum et Afri Phoenicum linguam nonnulla ex parte mutaverint, et ipsa Latinitas et regionibus quotidie mutetur et tempore. (in Gal. II 3). Sull’argomento rinvio a J. Herman, “Aspects de la différentiation territoriale du latin sous l’Empire”, «Bulletin de la Société de inguistique de Paris» 60 (1965), 54-70 e a F. Adams, The Regional Diversification of Latin, 200 BC – 600 AD, Oxford UP, Oxford 2014.

7His enim maxime utile est nosse, ita esse praeponendas verbis sententias, ut praeponitur animus corpori. Ex quo fit, ut ita malle debeant veriores quam disertiores audire sermones, sicut malle debent prudentiores quam formosiores habere amicos. Noverint etiam non esse vocem ad aures dei nisi animi affectum: ita enim non irridebunt, si aliquos antistites et ministros ecclesiae forte animaduerterint vel cum barbarismis et soloecismis deum invocare, vel eadem verba quae pronuntiant non intellegere perturbate que distinguere. Noverint etiam non esse vocem ad aures dei nisi animi affectum: ita enim non irridebunt, si aliquos antistites et ministros ecclesiae forte animadverterint vel cum barbarismis et soloecismis deum invocare, vel eadem uerba quae pronuntiant non intellegere perturbateque distinguere. Non quia ista minime corrigenda sunt, (ut populus ad id quod plane intellegit, dicat amen), sed tamen pie toleranda sunt ab eis qui didicerint, ut sono in foro sic voto in ecclesia benedici. (de catechizandis rudibus 29).

8videte quemadmodum neat, immo videte quemadmodum neiat – dum omnes instruantur, grammatici non timeantur (Serm. 37, ed. Lambot, PL 41, 307).

9Feneratur quidem Latine dicitur et qui dat mutuum et qui accipit; planius hoc autem dicitur, si dicamus fenerat. Quid ad nos quid grammatici velint? melius in barbarismo nostro vos intellegitis, quam in nostra disertitudine vos deserti eritis. Ergo iustus iste tota die miseretur et fenerat. (Enarrat. in Psalm. 36, 3, 6). La forma attiva si trova attestata in autori del periodo imperiale (Seneca retore, Marziale) e diventa comune nella tradizione giuridica.

10si enim non piguit dicere interpretes nostros: non congregabo conventicula eorum de sanguinibus, quoniam senserunt ad rem pertinere, ut eo loco pluraliter enuntiaretur hoc nomen, quod in latina lingua singulariter tantummodo dicitur; cur pietatis doctorem pigeat imperitis loquentem, ossum potius quam os dicere, ne ista syllaba non ab eo, quod sunt ossa, sed ab eo, quod sunt ora, intellegatur, ubi Afrae aures de correptione uocalium uel productione non iudicant? (doctr. christ. IV 10); os suum dicit; quod uulgo dicitur ossum, latine os dicitur. (En. in Ps. 138, 20).

11Epist. 22, 29-30. Per ulteriori informazioni sull’episodio, descritto nell’epistola a Eustochio (e sul quale esiste una copiosa bibliografia), rinvio solamente a C. Rapisarda, Ciceronianus es, non christianus : dove e quando avvenne il sogno di S. Girolamo?” in E. Rapisarda, «Miscellanea di studi di letteratura cristiana antica», vol. IV, Centro Studi per l’Antico Cristianesimo, Catania 1953, 10 e seguenti

12At enim opera data est, ut imperiosa civitas non solum iugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imponeret, per quam non deesset, immo et abundaret etiam interpretum copia, Aug., civ. Dei 19, 7.

13G. Mohl, Introduction à la chronologie du latin vulgaire, Bouillon, Paris 1899 (ristampa anast. Genève-Paris, 1976), in particolare 266 e seguenti e passim. Si vedano anche G. Reichenkron, Historische Latin-altromanische Grammatik, I, Harrassowitz, Wiesbaden 1965, 23 e seguenti e i lavori di Herman e Adams citati alla n. 6.

14MGH, appendice K alla Vita Caroli di Eginardo.

15quocirca sermonis pompa Romani, si qua adhuc uspiam est, Belgicis olim sive Rhenanis abolita terris in te resedit, quo vel incolumi vel perorante, etsi apud limitem ipsum Latina iura ceciderunt, verba non titubant. quapropter alternum salve rependens granditer laetor saltim in inlustri pectore tuo vanescentium litterarum remansisse vestigia, quae si frequenti lectione continuas, experiere per dies, quanto antecellunt beluis homines, tanto anteferri rusticis institutos. (Ep. IV 17, 2).

16tantum increbruit multitudo desidiosorum, ut, nisi vel paucissimi quique meram linguae Latiaris proprietatem de trivialium barbarismorum robigine vindicaveritis, eam brevi abolitam defleamus interemptamque; sic omnes nobilium sermonum purpurae per incuriam vulgi decolorabuntur. (Ep. II 7, 1).

17PL 53, 400 e seguenti

18quorum egomet studiorum quasi quandam mortem flebili velut epitaphio tumularem, nisi tute eadem venerabili professione, laudabili sollertia, acri ingenio, profluente eloquio resuscitavisses. quod equidem bonum eo admirabilius est mihi quo desperatius fuit. Video enim os Romanum non modo neglegentiae, sed pudori esse Romanis, grammaticam uti quandam barbaram barbarismi et soloecismi pugno et calce propelli, dialecticen tamquam Amazonem stricto decertaturam gladio formidari, rhetoricam acsi grandem dominam in angusto non recipi, musicen uero et geometricam atque arithmeticam tres quasi furias despui, posthinc philosophiam [atque] uti quoddam ominosum bestiale numerari.

19illud iam in fine sermonis perquam familiariter quaeso, ut spretis novitiarum ratiuncularum puerilibus nugis nullum lectitandis his tempus insumas, quasdam resonantium sermunculorum taureas rotant et oratoriam fortitudinem plaudentibus concinentiis evirant: Naevius et Plautus tibi ad elegantiam, Cato ad gravitatem, Varro ad peritiam, Gracchus ad acrimoniam, Chrysippus ad disciplinam, Fronto ad pompam, Cicero ad eloquentiam capessendam usui sint.

20Qua in parte qui ignarus divinae cognitionis et veritatis alienus es illud primo in loco scire debes senuisse iam mundum, non illis viribus stare quibus prius steterat nec vigore et robore ipso valere quo ante praevalebat.

21Ad Demetr. 3, 1 e seguenti

22PL 50, 401 e seguenti

23Si peritorum turba defuisset, simplici sermone rusticorum corda nutriebat; at ubi instructos supervenisse vidisset, sermone ac vultu pariter in quadam gratia insolita excitabatur, seipso celsior apparebat, ut eiusdem praeclari auctores temporis, qui suis scriptis merito claruerunt, Silvius, Eusebius, Domnulus admiratione succensi in haec verba proruperint: Non doctrinam, non eloquentiam, sed nescio quid super homines consecutum. Quid plura dicam? Nisi dicendi pausa desuper eidem advenisset, sermonem finire non potuerat, tanta gratia exundante, et miraculo et stupore crescente, ut peritissimis desperationem tunc auctoribus saeculi eius inferret oratio: in tantum ut Livius temporis illius poeta et auctor insignis publice proclamaret: Si Augustinus post te fuisset, iudicaretur inferior. (Vita Hilarii 11 [14]). Cfr. anche R. Mathisen, Roman Aristocrats in Barbarian Gaul: Strategies for Survival in an Age of Transition, Texas UP, Austin 20112, 395.

24Cum studia saecularium litterarum magno desiderio fervere cognoscerem, ita ut multa pars hominum per ipsa se mundi prudentiam crederet adipisci, gravissimo sum, fateor, dolore permotus ut Scripturis divinis magistri publici deessent, cum mundani auctores celeberrima procul dubio traditione pollerent. nisus sum cum beatissimo Agapito papa urbis Romae ut, sicut apud Alexandriam multo tempore fuisse traditur institutum, nunc etiam in Nisibi civitate Syrorum Hebreis sedulo fertur exponi, collatis expensis in urbe Romana professos doctores scholae potius acciperent Christianae, unde et anima susciperet aeternam salutem et casto atque purissimo eloquio fidelium lingua comeretur (Cassiodori Senatoris Institutiones I 1; cfr. anche sull’argomento R.R. Bolgar, The Classical Heritage and Its Beneficiaries, Cambridge University Press, Cambridge 1953, 395 e passim.

25Decedente atque immo potius pereunte ab urbibus Gallicanis liberalium cultura litterarum, cum nonnullae res gererentur vel rectae vel inprobae, ac feretas gentium desaeviret, regum furor acueretur, eclesiae inpugnarentur ab hereticis, a catholicis tegerentur, ferveret Christi fides in plurimis, tepisceret in nonnullis, ipsae quoque eclesiae vel ditarentur a devotis vel nudarentur a perfides, nec repperire possit quisquam peritus dialectica in arte grammaticus, qui haec aut stilo prosaico aut metrico depingeret versu: ingemescebant saepius plerique, dicentes: ‘Vae diebus nostris, quia periit studium litterarum a nobis, nec reperitur rethor in populis, qui gesta praesentia promulgare possit in paginis’. Ista etenim atque et his similia iugiter intuens dici, pro commemoratione praeteritorum, ut notitiam adtingerint venientum, etsi incultu effatu, nequivi tamen obtegere vel certamena flagitiosorum vel vitam recte viventium; et praesertim his inlicitus stimulis, quod a nostris fari plerumque miratus sum, quia: ‘Philosophantem rethorem intellegunt pauci, loquentem rusticum multi’. (Greg. Tur., Hist. Franc. I, praefat.).

26Sulla latinità di Gregorio di Tours è ancora utile il classico volume di G. Bonnet, Le latin de Grégoire de Tours, Hachette, Paris 1890.

27et ipsam loquendi artem, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. Nam sicut huius quoque epistolae tenor denuntiat, non metacismi collisionem fugio, non barbarismi confusionem devito, situs motusque et praepositionem casus servare contemno, quia indignum vehementer existimo ut verba coelestis oraculi restringam sub regulis Donati (Ep. V 53a, p. 357, 39).

28Hoc vero scire te cupio quia in quibusdam sensum solummodo, in quibusdam vero et verba cum sensu teneo, quia si de personis omnibus ipsa specialiter et verba tenere voluissem, haec rusticano usu prolata stilus scribentis non apte susciperet. (Dial. I, Intr.).

29Gregorii Magni, Dialogi, Libri IV, a cura di U. Moricca, Fonti per la storia d’Italia. no. 57, Mondadori, Roma 1924.

30Una posizione intermedia e cauta è assunta dalla nuova edizione uscita nella Collezione Valla: S. Pricoco – M. Simonetti (a cura di), Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli, 2 vv., Mondadori, Fondazione Valla, Milano 2005. Utile anche l’edizione con traduzione catalana a fronte di Narcìs Xifra y Riera, Sant Gregori el Grant, Diàlegs, Fundació Bernard Metge, Barcelona 1993. Utilizziamo per brevità le sigle di quest’ultima edizione (Conspectus Siglorum, p. 23: b = ediz. dei Benedettini del 1705, m = ediz. Moricca, bv o mv varianti registrate negli apparati delle due edizioni, G = codex Sangallensis 213, saec. VIII; H = codex Augustodunensis 20, saec. VIII).

31uellem bmvG : uellim mH : uelim mv.

32narrarem bm : narraris H : narreris mv : narres mv : narres G.

33F. Adams, The Regional Diversification of Latin, 200 BC – 600 AD, Cambridge University Press, Oxford 2014.

34Norberg D., Syntaktische Forschungen auf dem Gebiete des Spätlateins und des frühen Mikttelalters, Uppsala Universitas arsskrift, Uppsala 1943, 21 e seguenti

35E. Coseriu, “Das sogenannte „Vulgärlatein“ und die ersten Differenzierungen in der Romania. Eine kurze Einführung in die romanische Sprachwissenschaft”, in: R. Kontzi (Hrsg.), Zur Entstehung der romanischen Sprachen, Wissenschafltiche Buchgesellschaft, Darmstadt 1978, 257-291 (ediz. originale spagnola El llamado «latín vulgar» y las primeras diferenciaciones romances. Breve introducción a la lingüística románica. Universidad de la República, Montevideo 1954).

36G. Petracco Sicardi, Latino e romanzo di mano barbarica, «Romanobarbarica» 2 (1977): 183-207 (= Scritti scelti di G. Petracco Sicardi, Alessandria: Dell’Orso, 1994, 111-124: la citazione è da p. 111).

37M. A. Pei, The Language of the Eight Century Texts in Northern France, Columbia University, New York 1932, 364 e seguenti Sulla questione rinvio a quanto scritto nella già citata Introduzione alla linguistica latina, 79 e seguenti

38L. Bieler, Das Mittellatein als Sprachproblem, «Lexis» 2 (1949), 98-105.