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Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica

Dio perché Padre.
La rivoluzione metafisica del Cristianesimo alla luce della teologia trinitaria di Basilio Magno

Mattia Antonio Agostinone

Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti – Pescara

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La crisi ariana del IV secolo ha rappresentato l’occasione feconda per l’elaborazione del dogma trinitario. Quella che, a prima vista, appare come una “crisi”, una rottura all’interno della Chiesa – l’eresia ariana, per l’appunto –, esaminata con spirito critico, ha costituito, invece, lo stimolo per lo sviluppo di una coscienza profonda del mistero di Dio e la nascita della terminologia trinitaria, così come la conosciamo oggi.

Scopo di quest’intervento è riflettere su alcune implicazioni metafisiche e teoretiche della teologia trinitaria di Basilio Magno, anche alla luce di provocazioni della postmodernità, con particolare riferimento alle conseguenze ontologiche alle quali essa ha dato luogo, per mettere in luce come il cristianesimo abbia introdotto una novità radicale nella storia del pensiero e abbia, al contempo, integrato, rielaborato, ma anche trasformato e, sotto alcuni punti di vista, superato, al suo interno, la prospettiva del λόγος greco.

Ci soffermeremo pertanto su un passo estremamente rilevante del Contra Eunomium di Basilio, che contiene, molto probabilmente, l’affermazione-cuore dell’intera sua opera: «Il Dio dell’universo è Padre dall’eternità e non ha mai iniziato ad essere Padre».1 Esso sarà esaminato e approfondito sotto due punti di vista, due sfumature che permetteranno di comprendere la nuova concezione dell’essere introdotta dal Cristianesimo, grazie alla dottrina trinitaria resa esplicita dai Cappadoci e, in particolare, da Basilio. Nel primo si chiarirà come tale affermazione metta allo scoperto l’impalcatura ontologica di fondo che sostiene l’opera del Padre della Chiesa: l’ontologia della relazione; nel secondo ci si soffermerà, invece, sulla prima Ipostasi e sulle conseguenze metafisiche presupposte dal suo Nome. Nella conclusione, infine, si metterà in evidenza la portata detonante della teologia trinitaria in relazione all’ontologia e, nel dettaglio, alla possibilità di pensare l’Essere divino come pienezza d’essere, Essere in quanto Essere, anziché come ente.

1 Un’ontologia della relazione

È noto che Basilio distingue, nel Contra Eunomium, diversi generi di nomi: assoluti e relativi;2 comuni e propri.3 Quelli assoluti sono identificativi delle sostanze; quelli relativi indicano una relazione reciproca. I nomi comuni, a loro volta, indicano le sostanze comuni a più individui; i propri gli individui – o, in termini aristotelici, le sostanze seconde4 –, che condividono la stessa sostanza, ma si differenziano mediante proprietà particolari, ossia mediante determinazioni della medesima sostanza. I nomi “Padre” e “Figlio” rientrano tra i nomi relativi e i comuni. Tuttavia, Basilio, in riferimento a Dio, categorizza tali nomi come relativi e propri. Nel momento in cui Basilio fa del nome ”Padre” un nome proprio, egli, da un lato, ammette nella Divinità la distinzione, dall’altro introduce la relazione come carattere distintivo dell’essere divino. Il problema, d’ora in avanti, sarà quello di chiarire come possano coesistere, nell’assoluta semplicità e unicità di Dio, delle differenze e come esse debbano essere intese, dal momento che esse stesse, logicamente parlando, implicano la negazione, mentre Dio è l’Essere.5

Ora, ammettendo che Dio è Padre da tutta l’eternità, il Dottore della Chiesa introduce una novità radicale nella storia delle idee. Parlare di paternità in Dio significa, infatti, sulla base della teoria del nomi, introdurre una relazione in lui e una relazione come nome proprio, come carattere distintivo della sua Divinità. Ciò determina l’ammissione della differenza nella stessa Divinità. Se il nome “Padre” sta ad indicare una proprietà particolare di una realtà che è in relazione con un’altra – dal momento che la relazione è sempre, di per se stessa, un rapporto reciproco tra due realtà – e poiché tale realtà, essendo Dio stesso, è eterna, ciò vuol dire che anche il Figlio, che è il nome della seconda relazione, è Dio.6 Basilio non solo sottolinea, in tal modo, che Dio entra in relazione, che ha relazione, ma che è relazione e fonte di ogni relazione.7 Dio è Padre da tutta l’eternità, ossia, Egli è da sempre relazione e, perciò stesso, è dall’eternità anche il Figlio.

Quanto affermato ci lascia entrare nel cuore dell’Essere e spalanca una prospettiva ontologica radicalmente nuova e diversa rispetto a quella dei Greci. Eunomio, invece, continua a pensare ancora come un pagano, ritenendo che Dio sia l’assoluto privo di relazioni, al quale la relazione subentra quasi fosse un accidente. Che Dio sia Padre da tutta l’eternità comporta che Egli è relazione ab aeterno. La relazione non è una figura categoriale aggiuntiva, un complemento della sostanza, ma è il modo di essere della sostanza stessa. Il termine “ipostasi” – che nel Contra Eunomium risulta ancora poco impiegato nel suo significato strettamente teologico,8 ma che sarà assunto quale vocabolo tecnico nel lessico trinitario – è, etimologicamente, emblematico.9 Infatti, esso, di per sé, non sembra discostarsi dal termine “οὐσία”; entrambi, per un certo tempo, potevano essere usati quasi come sinonimi.10 Ciò è evidente dal calco latino di “ὑπόστασις”, ossia “substantia”, che etimologicamente indica il sostrato, “ciò che sta sotto”, ed è il termine con cui in ambito latino ci si riferiva all’essenza.11 Tale ambiguità mostra, tuttavia, come questo termine non indichi semplicemente un “modo” di manifestazione, ma un’esistenza determinata, un modo – per usare questo termine improprio – di esistere, di essere. La ὑπόστασις è, per esattezza, «l’essere (ente) reale, esistente, così come esso si manifesta nel singolo concreto».12 Pertanto, riferito alle Persone divine, “ipostasi” dice che esse sono, ciascuna, la stessa sostanza “determinata” in un dato modo, la stessa sostanza in relazione diversa.13 Esso dice il “come” (ὃπῶς ἐστιν) di ciascuna di esse. Ma, cosa fondamentale, ciascuna Persona14 è ed è nel senso pieno dell’espressione, ossia esiste in modo assoluto. Ciascuna Persona non è soltanto una modalità, non è un’apparenza, un’energia o forma di manifestazione dell’unica sostanza, come ritenevano i monarchiani, bensì un modo di esistere, di essere, della stessa. Ipostasi, come si può evincere da ciò, è un termine forte, quasi un equivalente di “sostanza”, col quale condivide, per così dire, il primato e l’onore. Ma proprio in ciò sta la sua forza, proprio nella sua apparente equivocità. Esso, infatti, può essere usato – sebbene in modo assolutamente inadeguato, come qualsiasi termine del linguaggio umano applicato a Dio – per dire l’esistenza, per ribadire che non solo Dio è uno, ma che è altresì trino, che non solo la sostanza divina è, ma che le persone sono. Proprio questa era d’altronde la preoccupazione maggiore del primo dei tre Cappadoci: sottolineare la realtà concreta delle Ipostasi, la loro vera sussistenza, salvaguardando, attraverso il mantenimento della «comunanza di sostanza» (κοινὸν τῆς οὐσίας),15 il monoteismo e fugando, al contempo, ogni forma di subordinazionismo.16 E proprio nel suo pensiero si è realizzato quel processo di trasformazione che ha progressivamente distinto la ὑπόστασις dall’οὐσία – le quali erano ancora sinonimi nel Simbolo niceno –, facendo convergere la prima nel πρόσωπον.17 “Ipostasi”, perciò, è diventato progressivamente sinonimo di “persona”. In questo modo diventava possibile, da un lato, fissare la realtà singola, garantendole quello statuto ontologico solido che non aveva avuto nel mondo antico, dal momento che essa non era pensata al modo di un’originalità irripetibile, bensì come occasione, esemplare o parte dell’universale di appartenenza (fosse esso la specie, l’idea o il cosmo nella sua interezza); dall’altro era possibile pensare ai Tre della Trinità come individualità distinte, dotate di consistenza ontologica reale (ὑποστάσεις), e come relazioni, come esistenze estatiche, proiettate all’esterno (πρόσωπα).18 Questa duplice accezione di significato derivava dall’etimologia dei termini impiegati, il primo dei quali – quello di ipostasi – richiamava l’esistente concreto, il secondo – quello del volto – della maschera e del ruolo assunto nella scena sociale.19 È perciò possibile parlare, proprio sulla base della convergenza dei due termini, di ciascuna delle Ipostasi o Persone come di relazioni, perché così dicendo è salvaguardato il loro carattere reale.20

Quanto esposto, tuttavia, solleva un’antinomia, che è per l’appunto il mysterium fidei: Dio è un’unica sostanza in tre ipostasi. Egli è uno, ma è anche e insieme trino. La filosofia antica aveva posto le sostanze come primum invalicabile, come le colonne d’Ercole della ragione. Non era possibile attraversare il gran mare dell’essere, addentrandosi nell’alto mare aperto, dal momento che esse non potevano essere oltrepassate né per mezzo della prima navigazione, né per il tramite della seconda. Occorreva una terza navigazione, compiuta a bordo del legno della Croce e col soffio di quel vento, che è lo Spirito Santo, di cui non si sa da dove viene e dove va, cioè attraverso la Rivelazione. Proprio tale terza navigazione ha aperto a una nuova e radicale concezione dell’essere: l’Essere come relazione; Essere in cui non si ha prima la sostanza e poi la relazione, ma la sostanza in relazione, la sostanza come relazione, la sostanza nel Padre, nel Figlio e nello Spirito, ma non in senso triteistico. Sostanza in relazione o unica sostanza divina in tre Persone indica semplicemente che l’unica assoluta Divinità è insieme e contemporaneamente Padre, Figlio e Spirito.21

La Divinità, insomma, è un unico Essere, un oceano immenso (πέλαγος ἀχανὲς)22 di vita, che è presente tutto, completamente, in ciascuna delle tre Ipostasi, le quali pure sono in un senso assoluto e non semplicemente come manifestazioni, fantasmi o apparenze. Si potrebbe quasi osare di più, affermando che proprio in quanto relazione, Dio è tale unità. Proprio in quanto relazione tra tre centri personali, tra tre “Io”,23 tra tre Soggetti assoluti egli è l’Essere in quanto Essere. Per di più, nella Divinità ciascuna Persona è identificata soltanto a partire dalla sua relazione con l’altra, alla quale rimanda. Così, il Padre non è altro che Padre del Figlio; il Figlio non è altro che il Figlio del Padre. Ciò che è essenziale in queste affermazioni non è soltanto il nome “Padre” o “Figlio”, ma il genitivo “del”, che indica la relazione che lega le Persone tra loro. Questo circolo continuo di rimandi è, in realtà, un procedimento apofatico che rivela, nascondendo, l’ἰδίωμα di ciascuna Ipostasi. Rivela, perché nomina affermativamente la Persona; nasconde, perché le attribuisce un nome che, in realtà, è relativo a un’altra realtà, che a sua volta rimanda alla prima. Perciò, per quanto ci si sforzi di afferrare il Nome divino, nel momento stesso in cui ci si è più avvicinati ad esso, esso è già scomparso, sfuggito tra le mani. Dio è l’Essere all’ennesima potenza, al superlativo, ripetuto e “numerato” tre volte. Egli è il triplice “Io”, che, in quanto tale, è anche “Tu” e “Noi”.24 E proprio nella loro pericoresi,25 nella coappartenenza e inabitazione reciproca delle persone divine, egli è Uno. Non si può pertanto concepire la sua unità senza insieme pensarla come relazione, autopossesso totale e aseità. Proprio tale relazione rende ragione dell’unità profonda dei Tre. Nella Divinità stessa, nella Trinità immanente, c’è la relazione, che rappresenta il presupposto trascendentale di ogni relazione nel mondo.

 

2 La paternità del Principio

L’aspetto probabilmente più interessante, a livello metafisico, dell’affermazione di Basilio sembrerebbe risiedere nel nome stesso di “Padre”, che la Scrittura applica all’origine della Divinità. Sebbene il Dottore della Chiesa non ne parli esplicitamente, infatti, egli lascia pensare che, l’uso di un termine affettivo quale “Padre”, esprima meglio di ogni altro la relazione che intercorre tra la prima e la seconda persona divina.26 Infatti, non solo esso è il più efficace perché è il termine che usano le Scritture, ma è efficace – qualora sia depurato da ogni limite antropomorfico – perché esprime una modalità d’esistenza dell’Essere supremo come relazione intima e profonda, che nessun altro termine riuscirebbe ad esprimere in modo più efficace. Quale parola, in effetti, riesce a evocare con più forza il legame profondo di chi è capace di donare non una porzione, ma la totalità del proprio Essere? Non di certo “ἀγέννετος”, che, nel senso di “ingenerante”, è un termine sterile,27 ma “Padre”. Era proprio il potere insito in questo nome, d’altronde, a spaventare gli Eunomiani. L’ammissione che Dio fosse Padre da tutta l’eternità comportava necessariamente l’ὀμοῦσια28 con lui, la consostanzialità con lui.

Con l’asserzione basiliana, secondo cui Dio è Padre da sempre e che esplicita, rendendolo chiaro, il contenuto delle Scritture, si è aperta una voragine senza fondo nella storia del pensiero. Le cateratte dell’eternità si sono spalancate. Il mistero del Padre, la scoperta che l’Essere in quanto tale è Padre da tutta l’eternità e che l’Essere è soggetto assoluto, diviene il «luogo ermeneutico» per accedere «al cuore dell’Essere stesso».29 La riflessione successiva, anche nella Chiesa latina, contribuirà a rendere ancora più eloquente la svolta annunciata dal Cappadoce, riflettendo sul mistero di un Dio che è Padre perché è amore. Perché “Padre”, in fondo, è un termine, che, insieme con “Figlio” e “Spirito Santo”, lascia pensare proprio all’amore come parola ultima sull’essere, come nome del mistero, e, insieme, a Dio come persona nel senso pieno, ossia non solo come intelligenza, ma anche come volontà e libertà.30 Proprio la relazione e l’amore, come cifre ontologiche, permettono di passare da una concezione dialettica a una dialogica dell’essere e superare, così, la rigida ontologia del λόγος antico, aprendosi a una concezione dinamica dell’essere. Tuttavia, a partire dal pensiero del Cappadoce, tutte le premesse sono state già poste. La ragione ha intrapreso una via di non ritorno. Dire che la prima causa dell’Essere è Padre significa, infatti, riconoscerle una determinazione particolare, intesa non nel senso di una delimitazione, cioè di una definizione limitante, ma in quello di identità. La modalità d’essere della causa prima della Trinità è la paternità, la quale è una relazione. Non bisogna d’altronde dimenticare che la monarchia resta un caposaldo della teologia trinitaria del Cappadoce. La causa dell’Essere divino è una Persona, un Io, un Soggetto assoluto che esiste come libertà,31 come dono d’amore totale e incondizionato di sé e della pienezza della sua Divinità a un Altro. Si tratta di un’affermazione radicale, che è, tuttavia, desumibile dalle Scritture stesse, che, appunto, chiamano la prima Persona “Padre”. Con questo nome fa irruzione nella storia una concezione nuova dell’essere e della sua prima causa, la quale non è semplicemente l’Uno-Bene del neoplatonismo o il Motore immobile aristotelico, ossia una realtà impersonale, ma un Soggetto, una Persona la cui modalità d’essere è l’amore, il darsi totalmente al suo Generato e, per mezzo di Lui, alle sue creature. Questo ci lascia anche intendere la portata radicale del pensiero di Basilio, che riesce – per quanto rimanga, almeno per il fatto di restare fedele all’uso scritturistico di designare con nome di “Padre” la causa dell’Essere e, dunque, sotto questo punto di vista, sul piano della teologia catafatica – a manifestare, col semplice utilizzo del Nome rivelato, la modalità d’essere dell’᾿Αρχή e a collocare, nelle più alte vette della trascendenza, il principio primo di ogni cosa. Lungi dall’assimilare Dio a una creatura, a un padre terreno, perciò, l’uso del nome “Padre” ne rivela piuttosto la grandezza e la differenza rispetto a ogni altro ente, dal momento che soltanto Egli è Padre in senso pieno, Padre dal quale soltanto «πᾶσα πατρία ἐν οὐρανοῖς καὶ ἐπὶ τῆς γῆς ὀνομάζεται» (Ef 3,15), causa d’essere e amore generante. L’Essere divino, dunque, non è una realtà priva di determinazioni, un nudo essere, ma il Principio che si autopone e, per così dire, si autodetermina come amore assoluto e totale, come dono infinito ed effusione di sé. Questo Nome, per di più, suggerisce una via ontologica nuova: quella di rinvenire la causa dell’essere nel campo dell’amore. Se l’origine della Divinità è l’amore stesso, ossia una Persona la cui prerogativa è di essere Padre, dono pieno e gratuito di sé al Figlio, la causa dell’Essere è l’amore. L’Essere è amore. E l’amore altro non è che la relazione per eccellenza. Dio, perciò, è la pienezza d’essere, l’Essere totale.

 

3 Pienezza d’Essere

Pensare Dio come una realtà in sé relazionale, dal punto di vista ontologico, comporta la possibilità di pensarlo come Essere in pienezza, irriducibile all’ente, seppure a un super-ente. Questa possibilità non è motivata dal fatto di intenderlo come il nudo essere, come esse purum assolutamente indeterminato, come una sorta di spazio vuoto o come un semplice orizzonte dal quale gli enti sono condotti all’esistenza, bensì per il fatto di essere una communio Personarum. Se il Deus Trinitas, infatti, è quella realtà che è autorelazione con se medesima e autorelazione appunto perché trina, allora nulla le manca nella sua infinita perfezione. Assoluta presenza a se medesimo, egli si autopossiede totalmente, è in se stesso Unità assoluta. Essendo relazione intrapersonale determinata come amore oblativo, il Deus Trinitas è, al contempo, un donarsi e un riceversi continuo. Egli è la vitale dinamica d’amore di ciascuna Ipostasi, che nella sua estasi, nel suo esodo senza ritorno verso e nel suo essere totalmente per l’altra, nel suo ardere d’amore che non la consuma ma, anzi, la rende viva, costituisce l’altra Persona e, contemporaneamente e reciprocamente, ne viene costituita; è perché è l’altra; come direbbe Neruda: «Sono perché tu sei e da allora sei, sono e siamo, e per amore sarò, sarai, saremo».32 L’identità di ciascuna, l’ἰδίωμα che la caratterizza, è confermata e realizzata dall’essere di ciascuna totalmente per l’altra e in virtù dell’altra. Come in un eterno scambio di sguardi, che si realizza nell’amorevole contemplazione del volto altrui da parte di ciascuno degli amanti, che fa sì che l’uno, vedendo l’altro, lo riconosca nella sua dignità e ne sia conseguentemente riconosciuto, in modo analogo ogni Persona divina è se stessa in virtù di quel reciproco riconoscimento, in virtù di quell’atto di gloria che consiste nel dare la propria vita all’altra. Ciascuna Ipostasi, nell’atto stesso di far sussistere l’altra, è se medesima; nell’uscire da sé è restituita a sé e rientra in sé; affermando è affermata. Per cui, il Padre è tale perché ha un Figlio, che genera eternamente; il Figlio è tale perché ha un Padre, dal quale è eternamente generato. In tale attività divina, la Divinità non è una nuda sostanza precostituita, dalla quale in seconda istanza scaturirebbero le Ipostasi;33 essa non è neppure l’insieme di tre centri personali individuali, un insieme di realtà già date, prive di genesi interna, né una sorta di collettività.34 Essa è, piuttosto, l’interscambio dinamico vitale, che, a partire dal Padre, come dalla sua eterna origine, si attua come circolazione d’Essere, dono offerto e ricevuto di sé, che realizza la reciproca coappartenenza delle Persone, l’essere pienamente l’una nell’altra, l’autopossesso pieno e totale di sé. In questa dinamica circolare, né le Ipostasi precedono la sostanza, né la sostanza precede le Ipostasi; piuttosto, una sostanza ipostatizzata, quella del Padre, che solo da un punto di vista logico sussiste prima delle altre, nell’atto stesso di causare le due processioni del Figlio e dello Spirito, è se stessa: causando è causa sui. La Divinità è come se si sostanziasse, dispiegasse e squadernasse da quest’atto vitale primigenio del Principio, che è Dio perché è una relazione, la quale non subentra come un accidente in una fase successiva, ma è intrinseca alla sua stessa natura. Con ciò non si vuol dire che il Padre diventi Dio solo allorché entra in relazione, il che sarebbe assurdo, bensì, semplicemente, che Egli è se stesso – Padre e Dio – nell’atto di donarsi totalmente e senza riserve al Figlio. Questi è la Parola, il volto, la rivelazione, che è fin da sempre «πρὸς τὸν θεόν». Egli, pertanto, non è una maschera vuota, che viene sostanziata solo in una fase successiva, che è riempita di contenuto solo nel momento in cui entra in relazione, ma non è neppure un oscuro fondo impersonale, un abisso, una nuda sostanza priva di volto, una mera Unità che si autodetermina in seguito come Trinità, bensì un’Ipostasi, cioè una sostanza, natura, essenza individuale, che, per il fatto di essere amore, liberamente e necessariamente genera e si effonde. Come si può notare da ciò, la Divinità e l’Ipostasi sono poste esattamente sullo stesso piano, perché la prima Persona si autopossiede ed è Dio solo entrando in rapporto con le altre, solo nell’esercizio della sua paternità. La sua identità consiste in questo stesso atto. La stessa logica vale nel caso delle altre due Processioni, in riferimento alle loro ἰδιότητες. Nell’essere Padre, Figlio e Spirito Santo la Trinità è Dio, perché si autopossiede interamente come Essere continuamente offerto e ricevuto e, come tale, è pienamente se stessa. Questo mutuo scambio divino, tuttavia, è un atto libero e necessario a un tempo ed è tale proprio perché Dio è amore.

Ora, secondo Basilio l’unità della Divinità è garantita proprio dalla prima Ipostasi, in base al principio della monarchia. La Trinità è Una perché le due Processioni sono in comunione con il Padre, il che vuol dire che sono una sola cosa con Lui. Per cui, da un lato v’è un’unica causa, un’unica origine che agisce in sinergia con le altre due Persone – mediante il Figlio, nello Spirito – sicché insieme sono un’unica ἀρχή;35 dall’altro tale unità si realizza nella reciproca coappartenenza, nell’essere l’una nell’altra:

 

Perciò in Dio Padre e in Dio unigenito si contempla, per così dire, una sola immagine riflessa della divinità, senza differenza. Il Figlio è nel Padre, il Padre è nel Figlio: dal momento che questi è tale qual è quello, e quello è tale qual è questo, e in ciò sta la loro unità. Per conseguenza, secondo la priorità delle Persone, essi sono uno e uno; secondo invece la comunione della natura, l’uno e l’altro sono uno. Come dunque, se sono uno e uno, non sono anche due dèi? Per la ragione che si chiama re anche l’immagine del re, eppure non vi sono due re. Non si scinde il potere regale, né si divide la gloria. Allo stesso modo che l’autorità e il potere che ci regge è uno solo, così anche unica è la gloria che eleviamo, e non molte, poiché l’onore reso all’immagine trapassa al prototipo. Quel che nell’esempio è l’immagine per imitazione, qui lo è il Figlio per natura. E come per gli oggetti d’arte la somiglianza consiste nella forma, così per la natura divina, incomposta, l’unità consiste nella comunione della divinità. Uno è anche lo Spirito Santo, anch’esso singolarmente pronunciato, congiunto al Padre, che è uno, per il Figlio, e per mezzo suo completa la beata Trinità, degna d’ogni lode.36

Ciascuna Ipostasi, pensata singolarmente, è una realtà unitaria, è Uno, è tutto l’Essere, è tutta la Divinità, ma le Persone si coappartengono intimamente, sono la stessa Divinità. L’esempio usato per descrivere questa intima coappartenenza è quello dell’immagine del re – che sebbene altra cosa rispetto ad esso, non è tuttavia un altro re –, alla quale si potrebbe aggiungere, per parlare anche dello Spirito Santo, quella del soffio, tratta dal Sal 32,6, il quale è inseparabile dalla parola pronunciata.37 Il re è uno, così come una è la Divinità, ma questa è la natura indivisa di ciascuna Ipostasi. Come ciò avvenga è motivato dalla coappartenenza reciproca delle Persone, che più tardi sarebbe stata chiamata περιχώρεσις.38 È questa la communio Personarum, la natura condivisa dei Tre e dai Tre. Proprio essa fa di Dio l’Essere in pienezza, quella realtà che esiste come mutua condivisione e interrelazione reciproca, come sinfonia, come armonica danza, come circolazione d’Essere dall’una all’altra, come dialogo intradivino e partecipazione all’unico banchetto d’Essere – come nella celebre icona di Rublëv – che la rende “piena” e totale, perché personale e, dunque, libera di darsi e riceversi continuamente, di consegnarsi e reimpossessarsi di sé, per amore, per tutta l’eternità.

L’Essere divino pertanto, non è soltanto un ente, sebbene l’ente sommo, ma l’Essere infinito e ineffabile, che non può essere reso finito e determinato in un tempo passato, presente o futuro, ma “transita” per l’eternità nell’ipostasi del Padre, del Figlio e dello Spirito. Esso è tre ipostasi; esiste, in quanto Divinità, come tre Persone, distinte solo in quanto in relazione diversa l’una dalle altre. Dio è l’Essere nel senso pieno, come pianura e orizzonte ultimo di ogni realtà. È questa la conseguenza metafisica a cui conduce il nome del Padre: l’Essere è comunione, Dio è una Divina “Famiglia”. A fondamento della realtà vi è un Soggetto, una Persona, un Io. L’opzione basiliana, da un punto di vista metafisico, concepisce l’Essere in tutta la sua pienezza, dal momento che lo intende non solo nei termini di un “che cosa” (τὶ ἐστι), ma in quelli di un “chi”, ossia non solo nei termini di una sostanza, ma di una persona, di una sostanza che è persona. Questa operazione da un lato conduce al di là della metafisica delle sostanze aristotelica, per la quale la relazione è solo un accidente della sostanza, dall’altro al di là della riflessione neoplatonica, che pone, invece, l’Uno sul piano dell’assoluto, come realtà non relazionale, assoluta in quanto isolata e irrelata. In entrambi i casi, la teologia trinitaria innalza la ragione, spingendola verso lidi sconosciuti al pensiero antico. Ma tale riflessione non permette solo di capire come la novità introdotta dal cristianesimo abbia trasformato la percezione della realtà degli antichi, ma anche come essa sia in grado di rispondere agli attacchi nei riguardi della metafisica e della ragione di alcune prospettive postmoderne, che spesso tentano di superare la filosofia cristiana, finendo, però, per riabbracciare una visione pre-cristiana dell’esistenza. La scoperta della paternità divina, infatti, porta anche al di là del riduzionismo ontologico denunciato dal pensiero postmoderno, perché l’Essere della filosofia cristiana non è semplicemente un ente, ma è Essere in pienezza, realtà onniabbracciante e onnicomprensiva. Essa è la vera Lichtung che permette di vedere e conoscere la realtà. La riflessione basiliana e cappadoce intende l’Essere nella sua pienezza perché lo concepisce come relazione, perché pone le premesse per elevarsi al di là della semplice logica binaria dell’identità con una trinitaria e per superare una concezione dialettica dell’essere con una dialogica.

Dio non è assoluto in quanto isolato, sciolto da ogni legame, ma è tale in quanto è un’unità indissolubile con se stesso, ed è divino proprio in quanto assoluto Soggetto, unica Sostanza ipostatizzata nelle tre Persone. Dio è tale perché Padre, è Trinità in quanto Persona. Infatti, secondo la monarchia, che è stata sopra accennata e che rimane un caposaldo tanto di Basilio quanto dei due Gregori, è l’Ipostasi del Padre a generare il Figlio donando tutto il proprio Essere, che è la Divinità stessa, a Lui; è il Padre ad essere la sorgente e l’origine della Divinità intera. Relazione e sostanza sono perciò tanto legati nell’Essere, da coincidere con esso stesso, richiamandosi a vicenda in un gioco di rimandi circolare: esso è sostanza perché relazione, relazione in quanto sostanza, sostanza relazionale e relazionalità sostanziale. Ciascuna sta a fondamento dell’altra, perché entrambe sono, insieme, lo stesso fondamento. Egli è una Persona che è, da tutta l’eternità, in relazione, anzi, che è relazione, che è Padre. Proprio la scoperta della persona rappresenta la scoperta teoretica fondamentale implicata dall’asserzione basiliana: la scoperta, che a fondamento del reale e dell’Essere divino sta un Soggetto, che costituisce il principio primordiale di tutte le cose. L’Essere è persona ed è ed esiste in senso pieno proprio in quanto Io che è relazione. Dio è Dio perché Padre e Padre in quanto Dio.

1Cit. Basilio di Cesarea, Contra Eunomium, II 12, 9-10 (SCh 305): «῾Ο Θεὸς τῶν ὸλον ἐξ ἀπείρου ἐστὶ Πατήρ, οὐκ ἀρξάμενος ποτε τοῦ εἶναι Πατήρ» (trad. it. a cura di D. Ciarlo), Contro Eunomio, Città nuova, Roma 2007, 246. D’ora in poi l’opera sarà citata con la sigla “CE”. I numeri di pagina fanno riferimento all’edizione italiana.

2Cfr. CE, II, 9, 241-242.

3Cfr. CE, II, 9, 4-5, 229-233.

4Tuttavia, è molto probabile che Basilio, più che l’eredità aristotelica, raccolga quella degli Stoici, mutuando, seppur con le dovute modifiche, la loro concezione della sostanza, cfr. S. M. Hildebrand, The trinitarian theology of Basil of Caesarea. A synthesis of Greek though and biblical truth, The catholic University of America press, Washington D. C. 2009, 45-56.

5Difatti, logicamente parlando, se si dice che A è diverso da B, si sta ammettendo che A non è B.

6«Οὐκοῦν καὶ ὁ ϒἱὸς πρὸ αἰῶνος ὢν καὶ ἀεὶ ὢν οὐκ ἢρξατο τοῦ ε᾿ῖναι ποτε, ἀλλ’ ἀφ’ ο῾ῦ Πατήρ, καὶ ϒἱός, καὶ εὐθὺς τῇ τοῦ Πατρὸς ἐννοίᾳ ἡ τοῦ ϒἱοῦ συνεισέρχεται», CE, II, 12, 18-20.

7Cfr. G. Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma 2013, 40.

8Un caso unico risulta essere il significato assunto da esso in CE III, 3, 4-5. Questo è l’unico passo dell’intera opera in cui egli parla esplicitamente di tre Ipostasi divine.

9Circa la presenza del termine ὑπόστασις nell’opera di Basilio, cfr. L. Turcescu, Prosopon and Hypostasis in Basil of Caesarea’s “Against Eunomius” and the Epistles, in «Vigiliae Christianae», vol. 51, n. 4, Brill, Leiden 1997, 374-395. In particolare, cfr. 374-379 e 394.

10Cfr. B. Sesboüe, J. Wolinski, Histoire des dogmes, vol. I, Le Dieu du salut, Desclée, Turnai 1994, (trad. it. a cura dei Monaci Benedettini di Germagno), Storia dei dogmi, vol I. Il Dio della salvezza. I-VIII secolo. Dio, la Trinità, il Cristo, l’economia della salvezza, Piemme, Casale Monferrato 1996, 265.

11Ad es., cfr. Agostino, De Trinitate, V, 8, 10; V, 9, 10.

12Cit. G. Greshake, Der dreieine Gott. Eine trinitarische Theologie, Herder, Freiburg im Breisgau 1997, (trad. it. a cura di P. Renner), Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 20083, 83.

13La formulazione più chiara di ciò è contenuta in Ep. 236, 6 (Ed. Courtonne), laddove l’autore esplicita che il rapporto tra sostanza e ipostasi è come quello intercorrente tra il generale e il particolare: «Οὐσία δὲ καὶ ὑπόστασις ταύτην ἒχει τὴν διαφορὰν ἣν ἒχει τὸκοιννὸντὸ καθ’ἓκαστον».

14Termine che qui si usa come sinonimo di ipostasi, ma che Basilio non ritiene essere il termine adatto in riferimento al Padre, al Figlio e allo Spirito. Si veda, in proposito, Turcescu, art. cit., 394.

15Cit. CE, I, 19, 27 (SCh 299), 206.

16Cfr. CE, I, 19, 27-44 (SCh 299), 206. Questo passo, d’altronde, renderebbe ragione dell’unicità della sostanza, oltre ad attestare che Basilio non può considerarsi un omeusiano che ha depurato la dottrina delle Ipostasi dal subordinazionismo, cfr. J. Zachhuber, Basil and the Three-hypostases tradition. Reconsidering the origins of Cappadocian theology, in «Zeitschrift für antikes Christentum», 5 (2001), 65-85, 81. Si veda anche, dello stesso testo, 84.

17A tal proposito, J. Zizioulas non esita a parlare di «rivoluzione storica», Communion and Otherness. Further studies in Personhood and the Church, T&T Clark, London 2006, 157.

18Cfr. Greshake, Il Dio unitrino, 87.

19Ibidem, 81-85.

20È noto, tuttavia, che il Padre della Chiesa ebbe alcune reticenze nell’avvalersi del termine πρόσωπον quale equivalente di ὑπόστασις, dato che, rimandando all’idea di qualcosa di puramente esteriore, rischiava di aprire le porte all’eresia sabelliana. Tuttavia, tale termine, sebbene raro, non è totalmente estraneo al suo pensiero. I due Gregori, invece, non hanno remore nell’utilizzare i due termini come sinonimi. Cfr. M. Simonetti, Genesi e sviluppo della dottrina trinitaria di Basilio di Cesarea, 169-197, in Basilio di Cesarea. La sua età, la sua opera e il Basilianesimo in Sicilia. Atti del Congresso Internazionale (Messina, 3-6 dicembre 1979), Centro di studi umanistici, Messina 1983, 194-197.

21Tuttavia, « […] secondo Basilio, l’identità della divina ousía nelle diverse Persone non riguarda il fatto che esse appartengano ad un’unica specie, ma riguarda la distinta e completa espressione che ciascuna dà d’un’unica e identica ousía, che è concreta, non suscettibile di rapporti che la limitino o la qualifichino, e che esaurisce completamente l’essenza delle sue diverse presentazioni: i prósopa sono costituiti dalla permanente e oggettiva presentazione di questa ousía», cit. G.L. Prestige, God in patristic though, SPCK, London 19522, (trad. it. a cura di A. Coma) Dio nel pensiero dei Padri, Il Mulino, Bologna 1969, 240-241.

22Cit. CE, I, 16, 8, 198.

23Naturalmente, affermando ciò, non si vogliono caratterizzare le Ipostasi divine, così come presentate nella teologia del Cappadoce, in un senso filologicamente non corretto, ossia come coscienze, come centri personali autonomi. Quest’aspetto, infatti, rischierebbe di far propendere verso un’enfatizzazione eccessiva della loro distinzione, anche, ad es., a livello delle qualità personali, quali il pensiero e la volontà, che, come Basilio chiaramente evidenzia, non sono ciò che esse possiedono in proprio, quanto ciò che esse hanno in comune. Pertanto, affermando che le Persone sono soggetti, si intende solamente sottolineare che esse sono Persone a pieno titolo. Si veda, in tal proposito, la critica mossa a D. Stăniloae, cfr. J. Zizioulas, Communion and Otherness. Further studies in Personhood and the Church, T&T Clark, London 2006, 134, nota 63.

24Cfr. S. Bulgakov, Uteshitel’, (trad. inglese a cura di B. Jakim) The Comforter, Wm. B. Eerdmans Publishing Co., Grand Rapids 2004, 54-55.

25È ovvio che si utilizza questo termine dal punto di vista del lettore di oggi e non da quello di Basilio, dato che esso è stato utilizzato come termine tecnico della teologia trinitaria solo a partire da Giovanni Damasceno: cfr. De fide orthodoxa I, 14.

26Il ragionamento viene fatto a proposito del nome “Figlio”, traduzione di υἰός e τέκνον, cfr. CE, II, 8, 237-240. Circa il fatto che “Padre” sia un nome appropriato a Dio, cfr. CE, II, 23, 14-52, 276-277.

27Cfr. CE, I, 16, 36-51, 200.

28Questo termine non trovò molta ospitalità negli scritti del giovane Basilio, data la sua preoccupazione di garantire il carattere reale delle tre Ipostasi, che il “consustanziale” niceno non sembrava salvaguardare in modo adeguato, cfr. Simonetti, Genesi e sviluppo, art. cit., 175-176 e 182-185.

29Cit. M.-J. Le Guillou, Le mystère du Père, Libraire Artheme Fayard, Paris 1973, (trad. it. a cura di F. Mazzariol) Il mistero del Padre, Jaca book, Milano 1979, 205.

30Proprio su quest’aspetto insiste particolarmente Zizioulas, cfr. Being as communion, Darton, Longman and Todd Ltd, London 20042, 42-49; Communion and Otherness, 118-123.

31Secondo Zizioulas, proprio la libertà assoluta, intesa in un senso ontologico piuttosto che morale, e che è presupposta dall’aver posto il Padre all’origine della Divinità, è la cifra che caratterizza le Persone divine; libertà che, anche nel caso di Dio, egli afferma essere superiore alla necessità della natura, cfr. Communion and otherness, op. cit., 118-122 e 164-165. Tuttavia, ciascuna Persona non è che l’ipostatizzazione della stessa natura divina.

32«Soy porqué tú eres, y desde entonces eres, soy y somos, y por amor seré, serás, seremos», cit., P. Neruda, Cien sonetos de amor, LXIX. Traduzione mia.

33«[…] ἐπὶ Θεοῦ δὲ Πατρὸς καὶ Θεοῦ ϒἰοῦ οὐκ οὐσὶα πρεσβυτέρα οὐδ’ὑπερκείμενη ἀμφοῖν θεωρεῖται», cit. Basilio di Cesarea, Ep. LII 1, 35-36 (Ed. Courtonne).

34Cfr. Greshake, Il Dio unitrino, op. cit., 97.

35«᾿Αρχὴ γὰρ τῶν ὄντον μὶα, δι’ϒἱοῦ δημιουγοῦσα, καὶ τελειοῦσα ἐν Πνεύματι» cit. Basilio di Cesarea, De Spiritu Sancto, XVI, 38, 21-23 (SCh 17bis), (trad. it. a cura di G. A. Bernardelli), Lo Spirito Santo, Città Nuova, Roma 19982. D’ora in poi l’opera sarà citata “DSS”. I numeri di pagina fanno riferimento all’edizione italiana. Si vedano anche, nello stesso libro e nello stesso paragrafo dell’opera, i versetti 1-25, in cui l’autore fa riferimento alla comunione (κοινωνία) delle tre Ipostasi, che si esplicita nel loro agire sinergico e, precisamente, nel fatto che, nel creare, la causa prima (il Padre) agisce insieme con il Figlio – che opera – e con lo Spirito – che porta a compimento. Come si può evincere dalla lettura di tali passi, l’azione della Trinità è unica: è l’unico Dio ad agire mediante una sola attività, articolata in tre fasi, ciascuna delle quali pertiene a una Persona. Così il Padre, che vuole, opera con le sue “braccia”, che sono le due Processioni. Infine, cfr. DSS XVI, 38, 26-31.36-37, in cui Basilio, col sottolineare che il Padre vuole creare per mezzo del Figlio e il Figlio vuole perfezionare per mezzo dello Spirito, lascia intendere come l’opera della Trinità sia un’opera compiuta da tre Ipostasi dotate di volontà, dunque libere. Questo non comporta, ovviamente, che esse siano tre dèi o che ciascuna possa agire indipendentemente dall’altra, come risulta ben chiaro in DSS XVI 38, 20.

36Cit. DSS, XVIII, 45, 8-27, 151-152. La comunione trinitaria, che dice tanto l’Unità divina, quanto la diversità delle Ipostasi, è un’intra-soggettività giustificata proprio dal fatto che ciascuna Persona dimora nell’Altra, cfr. M. Himcinschi, Some considerations regarding the Cappadocian trinitatian ontology, in N. Dimitrascu, The ecumenical legacy of the Cappadocians, Palgrave Macmillan, New York 2016, 35.

37Cfr. DSS, XVI, 38, 34-36. Altre suggestive immagini di coappartenenza sembrano essere suggerite, ad es., da DSS, IX, 23, 9-13 – in cui il Cappadoce parla dello Spirito come di un sole in cui si vede l’Icona del Padre (il Figlio) e, in quest’ultimo, il Padre stesso – e da DSS XII, 28, 7-10, in cui egli afferma che nel pronunciare il nome “Cristo” si professa la fede nella Trinità, perché si nominano, contemporaneamente, Colui che unge, l’Unto e il Crisma.

38Cfr. Greshake, Il Dio Unitrino, 98-99. Relativamente alla pericoresi, è evidente che ci si trova dinnanzi a una cosiddetta “ellenizzazione dell’elemento biblico”, dato che è stato possibile concettualizzare essa grazie al neoplatonismo. Cfr. E. Peroli, La trasparenza dell’io e l’abisso dell’anima. Sul rapporto tra platonismo e cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2013, 95-100. Tuttavia sono da rilevare alcune differenze di fondo: 1) ad essere in relazione di coappartenenza reciproca sono le idee, mentre l’Uno rimane «ἐπέκεινα τῆς οὐσίας», separato; 2) le idee non sono persone.