Ror Studies Series | Krisis e cambiamento in età tardoantica
Potestas. Statuto critico e crisi della ragione nei Dialoghi di sant’Agostino
Giuseppe Fidelibus
Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti – Pescara
Potestas. S. Agostino non ha mai scritto un De potestate. Questo nostro contributo s’inserisce perciò, a titolo di un approccio iniziale, all’interno di un progetto che intende raccogliere – per tappe omogenee – passaggi, riferimenti, riflessioni e contesti sparsi nei quali il termine ricorre nella sua vasta produzione. Ciò al fine di rinvenire elementi utili a ricostruire una sua visione sul potere; visione basata su spunti e significati che egli stesso ci ha lasciato in merito. La verifica, perciò, dell’esistenza di una sua unitaria concezione in proposito è lavoro di pensiero e di ricerca tutto da fare, attraverso i testi di cui disponiamo. Noi ci limitiamo a qualificare tale lavoro in senso genuinamente filosofico-teoretico e non strettamente filologico.
Il presente contributo parte dalla considerazione delle occorrenze del termine potestas all’interno di quelli che sono comunemente denominati i “dialoghi di Cassiciaco”, vissuti e redatti nel corso degli ultimi due mesi del 386, allorquando il neoconvertito retore africano va preparandosi a ricevere il battesimo nell’imminente Pasqua del 387 a Milano. Vedono così la luce in successione il Contra Academicos (De Academicis), il De beata vitae, il De ordine.
1 La “svista” storiografica del padre della filosofia critica
«Quando la filosofia passò dai Greci ai Romani – scrive Kant nelle sue Lezioni di Metafisica (1778-79) – non poté avere alcuno sviluppo poiché i Romani non sono stati che dei discepoli. Cicerone, per la filosofia speculativa, fu discepolo di Platone, per la morale, uno stoico. Presso i Romani non si incontrarono dei naturalisti ad eccezione di Plinio il Vecchio che ci ha lasciato una descrizione della natura. Appartengono agli stoici, tra i Romani, Epitteto e il filosofo Antonino. La cultura alla fine – Antonino vive proprio nel secolo di Agostino – si è andata spegnendo presso i Romani ed è sopraggiunta la barbarie fino a che gli Arabi, che avevano invaso parzialmente l’Impero romano, iniziarono, alla fine del VII secolo, a consacrarsi alla scienza e a riportare Aristotele a una posizione di rilievo. Allorché le scienze si sono risvegliate in Occidente si è seguito pedissequamente Aristotele. Nel XI e XII secolo sono da notare gli Scolastici che hanno illustrato il pensiero di Aristotele e hanno sviluppato all’infinito le sue sottigliezze. Questa melma (il mist tedesco – letteralmente “letame” – acuisce il senso di disprezzo che l’autore intende esprimere) è stata spazzata via dalla Riforma per far posto agli eclettici, cioè a coloro che non aderivano a nessuna scuola ma che cercavano la verità là ove la trovavano».1 Ci sarebbero, dunque a detta di Kant, ben tre secoli – tra il IV ed il VII secolo – di vuoto nella cultura e nel sapere: proprio quelli della “barbarie” in cui ha visto la luce la prima parte della pur vasta e feconda produzione di pensiero di Agostino d’Ippona. All’autorevole curatore e traduttore del testo kantiano, A. Rigobello, non è tuttavia sfuggita la vistosa ed infelice lacuna informativa da cui proviene una simile osservazione: «Si noti l’assenza di ogni riferimento alla Patristica e ad Agostino e al disprezzo per la filosofia medievale, oltre che all’evidente mancanza di informazione».2 Parlare di una semplice “svista” ci pare solo un’eufemistica trovata retorica, ma intendiamo adottarla ugualmente come incitamento ad una più attenta verifica. Spegnimento della cultura e barbarie; osiamo chiederci: è andata davvero così per il caso che ci riguarda o c’è dell’altro che avrebbe meritato meno spensierate attenzioni da parte del padre della filosofia critica moderna? Ci possiamo davvero accontentare del suo “tribunale” critico per esercitare criticamente la nostra ragione nel giudicare sul caso Agostino? Sta di fatto che non è necessario attendere il suo De civitate Dei (22 libri, scritti appena dopo la caduta di Roma del 410, in risposta agli intellettuali pagani che incolpavano i nuovi tempi cristiani della caduta di Roma per mano barbara) per avere un primo segno di smentita. Proprio dai suoi Dialoghi veniamo ad apprendere che il suo intento supremo è perfecte quaerere veritatem: hoc est enim pervenire ad finem, ultra quem non potest progredi.3 Agostino non si “consacra” alla scienza ma si prepara al battesimo cristiano; tuttavia, in coincidenza di ciò, dichiara un tale intento proprio nell’epoca in cui è storicamente “sopraggiunta la barbarie” e dopo sofferta ricerca. Ci è dato qui di arguire che, quanto a scienza e cultura, non dobbiamo dunque attendere gli Arabi del VII secolo per trovare qualcuno che, quanto meno, vi abbia messo mano, nel senso di “pensiero”.
2 Crisi di Agostino e crisi della ragione. I Dialoghi
Desperantem in Ecclesia tua… posse inveniri verum.4 Il passaggio di Agostino dal dogmatismo manicheo allo scetticismo accademico (383) non denota solo la crisi di credibilità della setta di Mani ma anche la sua “disperazione” di poter trovare il vero nell’ambito della Chiesa. Nell’uno come nell’altro caso è comunque questa ricerca ciò che è in gioco. Sta di fatto che l’educazione cristiana ricevuta dalla madre, le aspettative legate alla carriera di retore, la vasta conoscenza della letteratura classica acquisita negli anni dello studio, l’entusiasmo per la filosofia acceso dal Hortensius, giungono per lui ad una soglia critica, con la fuoriuscita dal manicheismo: «l’adesione al manicheismo – scrive Cipriani – non fu tanto convinta da eliminare ogni dubbio. E furono proprio quei dubbi, mai dissipati a causare la crisi e infine l’abbandono della setta»;5 si tratta, in effetti, di una soglia critica che è, contemporaneamente, teoretica ed esistenziale. La questione attiene alla sperabilità o meno del rinvenimento del vero al cospetto della razionalità filosofica: «Spesso – annota nel De utilitate credendi scritto proprio all’indirizzo critico dei manichei dopo quasi 9 anni di sodalizio – mi sembrava che fosse impossibile trovarlo e le grandi onde dei miei pensieri mi inducevano a favorire gli scettici. Spesso invece, vedendo, per quanto potevo, la mente umana così vivace, così sagace, così perspicace, ritenevo che la verità le rimaneva nascosta soltanto perché non conosceva il modo secondo cui cercarla e che questo stesso modo doveva riceverlo da qualche autorità divina. Restava da cercare quale mai fosse questa autorità, dal momento che, pur tra tanti dissensi, ciascuno prometteva di darla».6 La stima e la centralità della ragione rimarranno, dunque, non rimosse in Agostino anche nel corso della breve stagione scettica, pur ancorata alla razionalità filosofica. La vana promessa manichea – assicurare di venire a capo della verità su Dio con la sola ragione – rimaneva irrisolta ed ancora tutta aperta. Di certo essa s’affisserà preminentemente sul contesto di una questione di metodo nella ricerca del vero. L’incontro con Ambrogio e Simpliciano a Milano, in compagnia ormai inseparabile della madre Monica – che gli varranno la domanda del battesimo dopo la sua conversione – non è, perciò, da ritenersi estemporaneo a questo nodo critico della sua applicazione filosofica. Ne darà ragione egli stesso nella revisione critica (Retractationes) delle sue opere – e proprio a proposito dell’intento precipuo del suo Contra Academicos: «non avevo ancora ricevuto il battesimo e per prima cosa mi detti a scrivere Contro gli Accademici o Sugli Academici (…) Mio intendimento era quello di rimuovere con tutte le ragioni possibili dal mio animo – visto che io stesso ne ero rimasto turbato – le argomentazioni con le quali costoro tolgono a molti ogni speranza di trovare la verità e inibiscono al saggio di dare il suo assenso ad alcun enunciato e di giungere ad una dichiarazione di evidenza e di certezza su alcunché».7 Alla crisi scettica della ragione Agostino mette mano con una diretta applicazione critica del suo pensiero: critica è anche auto-critica. Se ci si chiede ora perché il catecumeno Agostino, proprio nell’imminenza del battesimo, fa della filosofia e in che senso – si deve rispondere con lui che quel medesimo incontro non solo non ha debilitato o scoraggiato le energie della ragione ma ha conferito loro un nuovo apporto critico, unito alla scoperta correttiva di una rinnovata speranza: «Prenderò dunque come appoggio ai miei passi – dichiara nelle sue Confessiones – il gradino ove fanciullo mi posero i miei genitori, finché mi si riveli chiaramente la verità. Ma dove cercarla (…) Riserviamo del tempo e assegniamo alcune ore alla salvezza dell’anima. Una grande speranza è spuntata (magna spes oborta): gli insegnamenti della Chiesa Cattolica non sono quelli che pensavamo, le nostre accuse erano inconsistenti (quod putabamus et vani accusabamus)».8 La lettura dei platonici e la conoscenza degli scritti del neoconvertito M. Vittorino faranno il resto: intanto, la scoperta di quegli insegnamenti esigono un processo di revisione critica di quelle stesse accuse che erano in capo alla dichiarata disperazione di poter trovare il vero nella Chiesa. Sta di fatto che il retore africano appare pronto ad un dialogo critico sulle questioni nodali della ragione filosofica del suo tempo, facendo tesoro delle esperienze e delle conoscenze finora acquisite. Adotterà dunque lo stile letterario del dialogo platonico, valorizzerà le conquiste della logica stoica, non disdegnerà i contributi tratti dalla lettura di Cicerone, Varrone e della Nuova Accademia, si applicherà ad utilizzare gli strumenti della dialettica Aristotelica e delle discipline liberali, non disdegnerà di muoversi tra le significative conquiste epistemologiche del pensiero metafisico platonico – il tutto nel convincimento certo (certum) «di non dovermi mai allontanare dall’autorità di Cristo (nusquam prorsus a Christi auctoritate discedere)».9 Dove risiede, dunque, la correlazione teoretico-normativa tra questa “certezza” e le questioni aperte della ragione filosofica? Nell’avere «spezzato quell’odiosissimo freno che mi teneva lontano dal seno della filosofia, che è il pascolo dell’animo, a motivo della sfiducia della verità (desperatione veri)».10 Agostino trova, dunque, nell’esperienza cristiana una fonte di riabilitazione legittimante all’esercizio filosofico ed un contributo alla tenuta epistemica dello statuto critico della ragione; non si tratta appena di una questione spirituale o vagamente religiosa: riguarda il sapere nella sua originaria tenuta epistemica. Nel bel mezzo della crisi della ragione essa trova/ritrova la sua legittimazione al suo pertinente esercizio critico (posse inveniri verum): questa volta né senza né contro, bensì nella Chiesa a motivo della Christi auctoritate. Questo rilievo sta in capo anche alla spiegazione dell’incipiente fecondità dell’opera di Agostino, la cui conversione inaugura una prolifica produzione di pensiero che è tutt’oggi difficoltoso abbracciare speculativamente con pretesa di esaustività. Se il problema della ragione quanto alla verità (posse inveniri verum) era precedentemente sospeso al “modo secondo cui cercarla”, se “questo stesso modo doveva riceverlo da qualche autorità divina” e “restava da cercare quale mai fosse questa autorità”, ora la questione del metodo trova una svolta epistemica essenziale. C’è da riconoscere che per Agostino la Christi auctoritate non costituisce un’ingerenza religiosa nei campi della ricerca razionale, né la giustapposizione di un motivo mitico-superstizioso nell’economia del pensiero filosofico (come nel caso del manicheismo): essa è rinvenuta come fattore pertinente alla riapertura dell’orizzonte della ragione. Posse inveniri verum: è il nuovo “manifesto” in difesa del potere della ragione, proprio nel bel mezzo della sua crisi scettica. Ora, i tre Dialoghi di Cassiciaco sviluppano i contenuti di questa dichiarazione secondo i tre ambiti dell’esperienza filosofica, stante la sua codificazione epistemologica sancita dalla tradizione antica, pertinenti ai rispettivi problemi: il criterio della verità (Contra Academicos) concernente la logica, il sommo bene (De beata vita) a tema nell’etica e, quindi, l’ordine del mondo (De ordine) su cui verte la fisica. Il catecumeno cristiano Agostino converte il retore, traendolo dalla crisi della ragione, ad un lavoro critico di revisione sull’intero campo di competenza della razionalità filosofica antica. N. Cipriani ha offerto un’efficace sintesi prospettica dei Dialoghi osservando: «Agostino, che si accinge a fare il filosofo per diventare sapiente, vuole procedere con metodo. Incomincia con le questioni considerate da tutti fondamentali».11 Se si dà un qualche “potere” della ragione è questione che dovrà attraversare la prova e la verifica filosofica di questa possibilità quanto al “metodo”.
3 Potestas nel Contra Academicos
La trascrizione del dialogo (in tre libri) s’apre eloquentemente con un invito al destinatario, l’amico Romaniano suo mecenate, a darsi alla filosofia. Tale esortazione contiene l’uso del termine potestates col quale Agostino indica all’interlocutore i poteri politico-amministrativi superiori, pertinenti alla carriera politica dell’amico, in essa già autorevolmente impegnato. Egli lo disillude quanto al trovare in esse «l’altra felicità che sola è felicità»:12 accrescere la carriera nell’ordine di quelle potestates non abilita ad un di più di felicità. La discussione s’appunta, dunque, sulla sapienza e la scienza applicate all’ordine delle cose umane e di quelle divine, ove sapientia est rerum humanarum divinarumque scientia13 ed il sapiente – si conviene propedeuticamente – è colui che qui “gode della ragione” (hic ratione perfruatur) e «all’ultimo giorno della vita si fa trovare pronto a ricevere (reperiatur paratus) il bene desiderato e gode meritatamente della divina beatitudine, dopo aver precedentemente goduto di quella umana (qui humana sit ante perfruitus)».14 La scientia, tuttavia, esclude nel sapiente che vi si applichi il dubbio e l’errore e postula, nel suo statuto epistemico, il “godere-della-ragione” prima nell’ordine dell’esperienza umana per poi parteciparla direttamente e definitivamente da e in Dio. Il secondo libro non vede occorrenze del termine potestas, che invece ricompare nel terzo. Agostino vede profilarsi ora l’obiezione scettica più massiccia sul tema del criterio della verità in filosofia. Lo scetticismo accademico e quello platonico-porfiriano sono assunti, ancora in carica, da Licenzio nella duplice espressione accademica: nihil percipi posse e nulli rei assentiendum.15 La possibilità per il sapiente di attingere la verità e il non dover necessariamente rinunciare a dare l’assenso ad alcunché impegnano Agostino tra le due posizioni in campo che si rivelano come due opposti dogmatismi: da una parte quello scettico propria dell’Accademia e dall’altra quello materialistico di marca stoica. Riemergono gli insegnamenti di Zenone e Carneade, di Cicerone e di Varrone, di Antioco ed Arcesilas. Le due occorrenze di potestas presenti nel terzo libro stanno ad indicare la condizione storico-esistenziale in cui trascorre la vita del sapiente: egli positum est in potestate fortunae16 ovvero cum ipsa vita nostra, cum hic vivimus, sit in potestate fortunae.17 Con ciò egli acquisisce la dimensione storico-itinerante dell’esercizio della teoresi filosofica. Nella sua successiva ritrattazione Agostino si rimprovera di avere usato un termine, “fortuna”, di evidente assonanza pagana. Essa non è Dio, dunque la corregge correlandola alla Provvidenza di Dio ed alla libera responsabilità dell’uomo in conseguenza del primo peccato18 (Retract. 1,2). Sta di fatto che l’intendimento riguarda la condizione storica in cui il sapiente si trova ad aspirare alla sapienza e non il definirsi normativo di questa aspirazione. Nella correlazione tra philosophia e sapientia non si tratta di possedere (scire) la verità, è sufficiente sapere che ad essa ci si veda costretti a dare ragionevole assenso. Agostino mette in crisi, dunque, il dogmatismo scettico degli Accademici senza adottare quello contrario degli stoici ma mediante una proposta probabilistica su cui condividere una mossa teoretica comune con loro: «e dunque – osserva positivamente – anche qui mi hanno come compagno in non piccola parte, perché sia a me sia a loro non dispiace, anzi necessariamente riteniamo giusto che si debba acconsentire alla verità (…) Mi basta ormai che non sia probabile che il sapiente non sappia nulla. Non potranno più affermare una cosa del tutto assurda o che la sapienza è nulla oppure che il sapiente non ha scienza della sapienza».19 Le esemplificazioni addotte fanno tesoro delle acquisizioni della ragione in ambito dialettico, etico e fisico-metafisico: esse sono acquisizioni di certezza e indubitabilità… In vista della conclusione, Agostino porta il ragionamento proprio sul terreno ove massimamente s’attestano entrambi i dogmatismi: la conoscenza sensibile, fonte d’inganno ed incertezza ovvero l’unica sede del certo e dell’indubitabile. Né l’una né l’altra delle due sul parvente e l’ingannevole: «non prestar l’assenso se non al fatto che così ti appare, e non vi sarà inganno (…) Io ho coscienza (scio) che questo oggetto mi appare candido… ho coscienza (scio) che questa cosa ha buon odore, che questa vivanda ha buon sapore (…) Quindi non v’è somiglianza con cose false che possa rendere incerto ciò di cui affermo di essere cosciente (illud quod me scire dixi)».20 È nell’ordine di questo scire che i sensi “dicono” il vero senza che questo coincida con un’operazione proiettiva o possessiva di verità: scire dice l’atto con cui il sapiente si dispone a ricevere verità in qualsiasi modo se ne dia l’apparire. Si può ben comprendere perciò che qualche studioso si sia spinto fino a ritenere, in questo passo del dialogo agostiniano, «l’atto di fondazione della filosofia occidentale».21 Non si tratta appena di situare il criterio della verità nell’animo anziché nei sensi (come nel caso della reazione di Varrone e Cicerone al dogmatismo degli scettici), ma dell’individuare quel livello dell’esperienza del soggetto (autocoscienza) in cui i due piani – sensibile e sovrasensibile – trovano il principio della loro possibile unità epistemica (verità), sede, perciò, del costituirsi dello statuto critico della ragione. Si tratta dell’originaria apertura ricettiva della ragione alla realtà: più che di “tribunale” si potrà parlare di facoltà della certificazione della realtà nell’ordine del soggetto, ove s’annuncia la verità dell’apparente sotto il segno del non-apparente. È quanto mai significativo che Agostino si ritrovi, “in non piccola parte”, in compagnia degli Accademici per questa scoperta: l’istanza scettica (accademici) e quella materialistica (degli stoici) si rivelano forme teoretiche di un medesimo dogmatismo derivante proprio dalla matrice platonica. Il dualismo platonico vi presiede, assumendo in esse forme apparentemente in contrapposizione, accomunate dal presupposto non rimosso della distanza aporetica tra divino ed umano, tra sensibile e sovrasensibile. La crisi della ragione antica è diretta filiazione storica e teoretica di un tale presupposto. Agostino lo smaschera criticamente, salvaguardando le due istanze su di un piano superiore (unità dell’autocoscienza) in una prospettiva di realismo “critico” ante litteram. La sua originaria opzione per la filosofia (competente quanto al criterio della verità in luogo di poesia e mito) si riapre al di là delle sue forme storiche antiche ma senza misconoscerne le positive acquisizioni e non senza mettere mano alle loro aporie: «ed infatti nel nostro spirito – chiede Trigezio nel primo libro – quale nozione risulta più aperta (apertiorem notionem) della sapienza. Ma, non so come, appena tale nozione abbandona il porto della nostra mente e innalza, per così dire, le vele del discorso, va incontro a mille naufragi di contrastanti interpretazioni».22 A scanso di equivoci, lo statuto critico della ragione filosofica mantiene per Agostino una struttura epistemica originariamente “aperta”. Così, nel riprendere la questione della correlazione tra sapienza e filosofia, nel terzo libro, la sua disposizione appare sostanzialmente comprensiva nei riguardi degli Accademici (De Academicis), pur divisi tra la professione di scetticismo in pubblico (in reazione dialettica alle diffuse posizioni stoiche) e le dottrine apodittiche di Platone (cfr. Plotino ed allievi) in privato. Egli registra ancora tutta la difficoltà – sofferta criticamente in prima persona – della filosofia a condurre gli uomini alla scoperta del mondo intelligibile, seppur guidati dall’autorità di maestri come Aristotele e Platone. Non si tratta di chiudere ideologicamente il pensiero in un dogmatismo preclusivo, ma – appunto – di riaprire filosoficamente l’orizzonte del sapere. Ove trovare una tale possibilità – ove attingere un metodo appropriato per rimuovere il blocco che inficia e debilita il potere della ragione? Quale auctoritas potrà mai arrogarsi la pretesa di una tale potestas al cospetto della ragione perché questa possa mantenere viva la sua originaria apertura critica? Da una tale eventualità dipenderà anche la possibilità che l’umana sapientia possa mantenere il suo originario statuto filosofico. Dunque, quanto al mondo sovrasensibile «questa profonda speculazione non richiamerebbe le anime, accecate dalle multiformi tenebre dell’errore e rese dimentiche da un cumulo di scorie corporee, se il sommo Dio, per benevolenza verso gli uomini, non avesse abbassato e calato (declinaret, atque submitteret) l’autorità dell’intelligenza divina all’umana sensibilità. Le anime, mosse non solo dal suo insegnamento ma anche dalle sue opere, sono potute tornare in sé e guardare alla patria anche senza bisogno di lunghe dispute (…) Io – conclude Agostino – ritengo dunque come certo definitivamente di non dovermi allontanare dall’autorità di Cristo (Christi auctoritate) perché non ne trovo altra più valida».23 La sorpresa della coincidenza di verità e metodo nella Christi auctoritas riapre, in senso realistico ed antidogmatico, l’orizzonte della conoscenza all’esercizio critico che compete normativamente alla potestas della ragione. Questa attinge ora il suo “criterio di verità” – di competenza della logica – non mediante procedimento endogeno dialettico-ascensivo bensì sotto l’azione di questo atto di abbassamento e sottomissione della verità stessa. Ciò vede la ragione in posizione beneficiaria: la Christi auctoritas fa bene alla ragione ed alla sua potestas critica. Trova ormai lo spazio pubblico che le compete e che finora le era dogmaticamente (anche per via scettica) precluso ovvero strategicamente negato. Quella auctoritas non costituisce infatti alternativa dogmatica allo statuto critico della ragione, bensì la sua legittima e pertinente condizione metodologica. «Se il platonismo – ha dichiarato Ratzinger chiosando la disposizione agostiniana – dà un’idea della verità, la fede cristiana ci offre invece la verità come via; e solo in quanto essa assurge a via, può dirsi divenuta verità dell’uomo. La verità vista come mera nozione, come pura idea, resta priva di mordente; autentica verità dell’uomo essa lo diventa soltanto come via che lo chiama direttamente in causa, come via che egli può e deve battere».24 Cristo liberatore della ragione dal ricatto della deriva dogmatica del pensiero classico e dall’insana sua reclusione nei ristretti limiti del privato?! Chi l’avrebbe potuto solo immaginare nel popoloso mondo mitico-religioso del paganesimo antico o nel rigoroso “tribunale” della ragion pura kantiana?… Lo statuto critico della ragione trova, così, la sua dimensione aperta in forza della via metodologica dischiusa dall’autorità stessa della verità. Scetticismo e/o dogmatismo non detengono l’ultima parola sulla ragione, non possono cioè esaurirne la misura critica né lo spazio di competenza.
4 Gli sviluppi in ambito etico e metafisico: De beata vita e De ordine
Nel De beata vita il termine potestas non compare, ma l’economia di pensiero inaugurata dal dialogo precedente sugli Accademici trova analogo riscontro nel mettere a tema il nucleo centrale dell’etica antica: la felicità. Agostino ci ha già avvertiti in precedenza che la felicità è “godere della ragione” in sé e in Dio. Con i guadagni conseguiti sul criterio della verità il tema viene ripreso in ambito etico e messo a frutto, tornando su motivi ereditati dal platonismo ma ben presto oltrepassati. Il dialogo, dedicato all’amico Manlio Teodoro e trascorso in coincidenza del compleanno di Agostino (13 novembre 386), è costituito da un solo libro (incompleto) e muove da un rinnovato invito ad applicarsi alla filosofia, porto di accesso alla regione della vita felice. Questa possibilità dipende dalla Provvidenza ma può essere inficiata decisivamente nella vita del filosofo da quell’inveterato ostacolo che è il monte della superbia e della vanagloria di chi si gonfia del proprio sapere (v. i platonici). Agostino, infila subito (lungo i 4 capitoli in cui si dipana il dialogo) due serie di termini che delineano due rispettivi percorsi – teoreticamente ed esistenzialmente caratterizzati – sul tema del sommo bene, fino ad attingere filosoficamente il terreno teologico. L’infelicità è innanzitutto mancanza di sapienza (miseria-egestas) come anche indigenza d’animo (stultitia); la felicità si profila invece come pienezza (plenitudo) e sapienza (sapientia). Egli accosta dunque il significato di “felicità” al pensiero della soddisfazione. Ciò sposta ancora la questione sulla “misura” (modus animi) di questa plenitudo: essa sarà la misura (modus) della Verità così come questa è la misura della realtà. Ora, la coincidenza di verità e sapienza caratterizza intrinsecamente, appunto, la Christi auctoritate: «il Figlio di Dio è la stessa sapienza di Dio e il Figlio di Dio è certamente Dio. Dunque chi è felice ha Dio (…) Chi attraverso la Verità raggiungerà la misura suprema è felice. Questo è avere Dio nell’animo, godere di Dio (Deo perfrui)… Sua è ogni verità che diciamo (Huius est verum omne quod loquimur)».25 Felicità – come anche “soddisfazione” – non è imporre una misura alla realtà bensì disporsi a riceverla da altro (altrove); ora la pienezza della sapienza è la verità: è questa che è preposta a “dare soddisfazione”, perciò la persona di Cristo, in quanto via dalla ed alla verità, entra a pieno titolo nel cuore problematico dell’ etica antica. Se “sua è ogni verità che diciamo”, allora la ragione dell’uomo non potrà accampare – se non riducendosi a miserabile infelice – alcuna pretesa di possesso di essa. Anzi, la stessa Verità conosciuta è generata da una misura che ne custodisce la paternità in Dio stesso: «come la verità è generata dalla misura (modo gignitur), così la misura si conosce dalla verità (…) Chi è il Figlio di Dio? È stato già detto: Verità. Chi è che non ha padre (qui non habet patrem)? Chi, se non la misura suprema?».26 La misura della verità è il Padre. Ora, la felicità non è appena questione di “guadagnarsela” ma è legittima solo nell’ordine di una paternità garante della sua vera “misura”. Non si tratta solo di “godere di Dio” ma di sperimentarlo nell’ordine della paternità sua propria: è indicata qui una statura della ragione (e del “potere” ad essa conferito) che oltrepassa trasgressivamente quella raggiunta dal genio greco-platonico. Accepimus autem etiam auctoritate divina:27 la soddisfazione è ricevuta dalla stessa autorità divina in modo tale che «ce ne dissetiamo senza saziarci. Egli ci proviene dalla stessa fonte della verità».28 Essa, per essere “beata vita”, più che uno stato indica, pertanto, una relazione di paternità: «conoscere in modo pio e perfetto da chi siamo portati alla verità, di quale Verità godiamo pienamente e grazie a che cosa veniamo congiunti alla misura suprema. Questi Tre – conclude Agostino accennando alla relazione intradivina – eliminate le illusioni delle varie superstizioni, mostrano a coloro che sono in grado di comprendere un solo Dio e una sola sostanza».29 Se la misura della realtà è la verità, ora veniamo a sapere che la misura della verità consiste in una relazione d’amore in cui la ragione esperimenta la pienezza di una felicità “che-si-dona” realizzando un’unità interpersonale. “Padre” indica al contempo, come legge universale, una verità generata ed una felicità come pienezza di un rapporto nell’ordine del quale si è resi felici, compiuti. Una verità senza paternità è come una ragione senza amore. Il “potere” della ragione sta, perciò, sotto il segno dell’ordo amoris. Nel finale del dialogo è la stessa madre Monica a dar voce orante (Fove precantes, Trinitas30) a questo statuto epistemico della ragione filosofica applicata alle problematiche di etica.
L’argomento viene ripreso nel De ordine, dialogo dedicato all’argomento di (meta)fisica in relazione all’ordine del mondo, alla presenza del male ed alla divina provvidenza: come possa, cioè, accadere che «Dio si prenda cura degli uomini e che proprio nelle cose umane sia così tanto diffusa la malvagità che sembra impossibile attribuire non solo al governo di Dio ma neppure a quello di uno schiavo al quale si dia tale potere (ei tanta potestas daretur)».31 Tra queste prime righe del dialogo, composto di due libri e dedicato all’amico Zenobio, compare la prima delle ben 11 occorrenze presenti del termine potestas. Il termine viene dunque applicato all’uso proprio della ragione nelle discipline liberali e nelle arti (ordo eruditionis/studiorum), oltre che nella vita (ordo vitae). Così, nel contesto del dialogo, Trigezio fa osservare a riguardo della ricostruzione dei nessi causali, che «non è in potere (potestate) dell’uomo ogni pensiero che viene in mente».32 La ragione resta conoscitivamente aperta a quello che accade nel reale. A riguardo, Agostino parla di una “disciplina” che è «la stessa legge di Dio (ipsa Dei lex) che in lui rimane immutabile e inderogabile. Essa è, per così dire, trascritta in tal modo nelle anime sapienti che sanno di vivere tanto meglio e in modo tanto più sublime quanto più perfettamente la meditano con l’intelligenza e quanto più diligentemente l’osservano nella vita. Questa disciplina propone quindi a coloro che vi si applicano un ordine da seguire secondo un duplice aspetto (geminum ordinem): quello della vita e quello della cultura (vitae altera eruditionis)».33 I due ambiti di applicazione giuridica della ragione trovano dunque senso nella comune paternità normativa: la ipsa Dei lex. Una sola legge sovrintende alla legittimazione di due ordinamenti giuridici che alla ragione competono: quanto alla vita e quanto alla cultura (vitae altera eruditionis). Essa, per Agostino, costituisce dunque lo spazio ove trova legittimazione e senso giuridico (ordo) – nella sua duplice flessione: vitae ed eruditionis – l’esercizio di ogni potestas cui la ragione umana voglia universalmente applicarsi, anche nella modalità di ruolo o funzione: non a titolo di autolegittimazione arbitraria bensì come soggetto giuridico in piena facoltà delle sue funzioni. Egli distingue, all’interno dell’ordine razionale dell’universo, una istituzione humana ed una divina della auctoritas a proposito di questa comune legislazione: quella divina qualificata come vera, firma, summa, quella umana «spesso è ingannevole. Appare tuttavia a buon diritto eccellente (iure videtur excellere) in quegli uomini i quali, per quanto può comprendere l’intendimento degli indotti, danno molte garanzie della loro dottrina e non vivono diversamente da come insegnano».34 Osserviamo che per Agostino, la divina auctoritas non si pone come fattore di delegittimazione nei riguardi di quella humana a motivo della precarietà o ingannevolezza dell’esercizio di quest’ultima. Essa non agisce cioè in veste di “tribunale” morale ma istituisce soggetti giuridici abilitati ad esercitare atti tra loro imputabili, all’interno di loro rapporti universali (ordo vitae e ordo studiorum). È in questo senso, genuinamente metafisico-giuridico, che, spiega Agostino, «si deve considerare divina l’autorità che non solo supera ogni umana facoltà nel produrre segni sensibili, ma, influendo direttamente anche sull’uomo, gli mostra fino a qual punto si è abbassata per lui (se propter ipsum depresserit). Ordina inoltre a coloro, cui appaiono i suddetti segni straordinari, di non attenersi ai sensi, ma di ricorrere all’intelligenza. Fa loro comprendere nello stesso tempo la grandezza del proprio potere sul mondo, il fine per cui l’ha creato e il dominio che su di esso esercita. È necessario che faccia apparire nell’opera il proprio potere (factis potestatem), nella sua umiltà la propria clemenza, nel modo d’insegnare la propria natura».35 L’autorità divina esercita il suo potere operando a vantaggio di quella umana (se propter ipsum) a titolo di paternità giuridico-legislativa: essa, mentre fa appello all’esercizio dell’intelletto umano, si sottopone alla sua verifica perché si faccia una ragione quanto a tale paternità, come anche alla sua esperienza del mondo. Si rivela dunque come divina proprio nel mentre “si lascia mettere in crisi” al cospetto di quella umana: il suo entrare nel merito delle cose umane non solo non è percepita come indebita ingerenza, ma si propone come attestazione di credito nei riguardi dell’originario statuto critico della ragione, nonché come riapertura dell’orizzonte della sua competenza conoscitiva. Ordo dice le due modalità di relazione giuridica (auctoritates) tra i soggetti. La flessione umana della divina auctoritas dimostra, per Agostino, che l’esercizio della potestas è normativamente funzionale all’affermazione dell’altro, rifuggendo da ogni economia autoreferenziale tra le due auctoritates. È evidente, da ciò, che l’unità tra le due non è qui un’idea bensì una Persona che entrambe le incarna per competenza non autolegittimata: anch’essa è filiazione dal Padre. Agostino vede così superabili le aporie di fondo della ragione antica, quella del dualismo manicheo e quella del dualismo platonico. Se il problema della ragione (al tempo della sua militanza manichea) era che “la verità le rimaneva nascosta soltanto perché non conosceva il modo secondo cui cercarla e che questo stesso modo doveva riceverlo da qualche autorità divina” e che “restava da cercare quale mai fosse questa autorità…” – ora (e dopo l’incontro coi platonici) dobbiamo registrare con G. Madèc che «la tradizione filosofica in ciò che essa ha di meglio, il platonismo, è ordinato al cristianesimo, per il fatto che il mondo intelligibile, oggetto della vera filosofia, sarebbe rimasto inaccessibile alla ragione, senza l’abbassamento dell’Intelletto divino fino al corpo umano, in altre parole senza l’Incarnazione del Verbo».36 Nel De ordine il Lògos indica un’unità nella quale la ragione dell’universo passa ad indicare la relazione personale tra le due auctoritates (umana e divina), il cui rispettivo esercizio giuridico permane legittimo sotto l’azione di una comune paternità normativa. Per Agostino non è solo questione di condannare (o “spiegare”) il male ma di dare e ridare continuamente diritto di cittadinanza (uni-versale) al “potere” legittimo della ragione ed ai soggetti che ne esercitino criticamente la potestas (facere oppure dare potestatem): la facoltà di istituire rapporti disponendosi a ricevere possibilità e senso di soddisfazione.
Le ultime tre occorrenze che troviamo sono relative proprio ad un a tale esercizio nell’ambito dell’ hordo studiorum. Innanzitutto il senso di ratio: «la ragione è l’atto con cui la mente (mentis motio) può distinguere e collegare tutto ciò che si apprende (ea quae discuntur). È molto raro (rarissimum) che gli uomini si servano di questa guida per elevarsi alla conoscenza di Dio o anche della stessa anima che è in noi (…) Così, benché gli uomini s’impegnino di trattare il tutto secondo ragione anche nell’ambito delle cose illusorie, ignorano del tutto, salvo pochissimi, la natura e le proprietà della ragione. Sembra strano ma è così (mirum est, sed tamen se ita res habet)».37 La prima debilitazione della ragione risiede nell’ignorare la sua propria potestas. Agostino, ripercorrendo, negli ultimi capitoli, il cammino creativo della ragione ne distingue tre ambiti di applicazione: «il primo è in ordine alle azioni compiute per un fine, il secondo in ordine al parlare, il terzo in ordine al diletto (in delectando)».38 Essi corrono lungo tutto l’arco delle discipline liberali e ne qualificano l’esercizio; ma tra esse fu la ragione a conferire agli uomini anche il potere della falsificazione (rationabilium mendaciorum potestatem39). Così, sulla soglia correlativa tra scienza e sapienza, Agostino trova il locus per la messa a tema del male nell’ordine razionale costituito da Dio: ha avuto inizio col tempo ed il mondo? «Nell’ipotesi che sia sempre esistito, è stato sempre sottoposto al potere di Dio (potestate Dei malum tenebatur)? Se è sempre esistito, è sempre esistito anche il mondo sensibile perché quel male rimanesse sottoposto al potere di Dio (tam Dei potestas frenabat)…?».40 Contro l’idea platonico-plotiniana del “male necessario” Agostino fa valere il principio della sua origine nella libertà dell’uomo “fuori dall’ordine” e del potere di Dio di riabilitare questa libertà nell’ordine originario conferitore della sua legittima potestas. Sul piano metafisico esso non trova spazio di legittimazione giuridica. Non si tratta, perciò, di dare legittimazione al male operato ma di riconsegnare la ragione al bene della sua propria auctoritas, al suo proprio diritto di cittadinanza universale: in ordine alle azioni compiute per un fine… in ordine al parlare… in ordine al diletto (in delectando). Ricostituire il soggetto nell’ordine universale, nella disposizione a recepire soddisfazione, è questione preminente nell’azione divina del riordinare il male al bene: proprio nella questione del male permane, così, condizionante l’opera di riedificazione dello statuto critico della ragione nella costitutiva correlazione della sua umana autorità a quella divina. Assumendole entrambe in persona giuridica competente, Cristo costituisce il cardine normativo e metodologico insostituibiIe ed imprescindibile per una tale urgenza della ragione universale. I tre Dialoghi di Cassiciaco profilano così l’esercizio ed il potere della ragione – nei tre ambiti della filosofia : logica, etica, metafisica – come sospeso e condizionato, storicamente e giuridicamente, all’avvenimento personale della Christi auctoritas. In tale prospettiva trovano senso giuridico le varie opportunità di esercizio della potestas riferite al lavoro critico della ragione nei vari ambiti della ricerca filosofica. Nell’epoca delle grandi crisi Agostino fa tesoro della sua esperienza di ricerca, salvaguardando, contro ogni deriva dogmatica, l’originaria apertura della ragione alla luce dei grandi apporti della sapienza antica: «ed infatti nel nostro spirito quale nozione la natura volle che fosse più aperta della sapienza (apertiorem notionem natura esse voluit quam sapientiae)?».41 Sotto l’egida della Christi auctoritas Agostino vede realizzata una tale apertura anche nell’orizzonte fisico-metafisico della razionalità filosofica.
Volendo trarre un qualche profitto conclusivo dal presente percorso dobbiamo anzitutto registrare come il giudizio kantiano da cui abbiamo preso le mosse trovi, nell’esperienza di Agostino, un centro correttivo di rilevante revisione critica: teoretica oltre che storiografica. Questi non solo assiste al passaggio della filosofia “dai Greci ai Romani” ma ne esperimenta personalmente la crisi. Nell’epoca della crisi della ragione egli si dà ad una revisione critica dell’intera tradizione filosofica classica, soffrendone direttamente – e dall’interno ! – le aporie nel suo impegno di ricerca del vero. L’esperienza dell’incontro cristiano segna per lui – retore e frequentatore delle discipline liberali – l’inizio di un lavoro critico mirante certamente a trattenere e sviluppare gli apporti positivi dell’eredità antica ma anche a colmarne le lacune, rimuovendo quelle premesse teoretiche che ne impediscono – o spesso precludono – pregiudizialmente fecondità e creatività quanto al vero. Vaglio critico, dunque, sul piano storiografico come anche su quello teoretico-fondativo. Di questo lavoro di pensiero abbiamo trovato attestazione nei testi dei Dialoghi di Cassiciaco. Con essi Agostino attesta – a disdetta del parere di Kant – che dopo i Greci e i Romani la filosofia ha trovato un suo sviluppo ed uno sviluppo genuinamente critico nell’esperienza di un semplice catecumeno cristiano.42 In questi Dialoghi non solo ci sono parsi quanto mai vivi la continuità e lo sviluppo della ricerca filosofica, ma, ci si è svelato altresì incrementato il suo potenziale critico-epistemico sotto l’incedere dialogico del pensatore africano. Diremmo che, con questo lavoro, Agostino ha contribuito, a pieno titolo di competenza, a preservare la filosofia dalle sue derive mitico-irrazionali nell’epoca davvero incipiente di barbarie non solo militare ma anche intellettuale. Egli ha difeso – per il vero e contro nessuno – la centralità del lavoro della ragione attestando l’uso del termine potestas in relazione a questo lavoro: si parla di “potere” della ragione e della sua apertura facoltosa al vero, in ambito logico, metafisico ed etico. È vero, Agostino non ci ha lasciato una “critica della ragion pura”. In lui la ragione non ha trovato necessario erigere un suo “tribunale” poiché le si è palesata più che soddisfacente l’esperienza della legittima paternità al suo esercizio critico. In un’epoca davvero incipiente di barbarie Agostino fa i conti con la crisi della ragione antica ormai inficiata da dogmatismi apparentemente opposti. La deriva scettica degli accademici e quella materialistica degli stoici appaiono come i due risvolti del dogma dualistico di matrice platonica. In forza degli apporti recepiti dall’incontro col cristianesimo – e proprio a ridosso del suo battesimo – ridiscute il triplice impianto della razionalità filosofica antica. Con i Dialoghi egli sposa l’originaria opzione del cristianesimo per la razionalità filosofica, prendendo subito le distanze dal mondo mitologico delle religioni e della letteratura ad esso correlata. Alla luce dell’esperienza del Dio fatto uomo egli recupera lo statuto della ragione come uno statuto critico che, attraverso le sue conquiste, non si chiude su se stessa e sulle sue misure ma s’apre ad una ricezione, per così dire, itinerante – cioè filosofica – del vero. Potestas dice questa disposizione aperta, ricettiva e itinerante della ragione e del sapere, sensibile alla triplice problematica istituzionale della razionalità filosofica antica: il criterio di verità (logica), il sommo bene-felicità (etica), l’ordine universale (fisica-metafisica). Si tratta, in questo senso da noi addotto, di un realismo critico che Agostino fa valere a tutto campo a motivo di quell’antidogmatismo liberante della Christi auctoritas, provato nella propria esperienza di ricerca e che ora lo vede neofita per l’imminente affiliazione battesimale. La ragione esperisce il sommo bene solo in forza di una opportunità unitiva al vero: l’autorità di Cristo è fatta valere proprio in questa prospettiva d’esperienza. Lo statuto critico della ragione è salvaguardato epistemicamente solo a motivo di questa possibilità di “godere di Dio” che è un vero “godere” della ragione. Essa si compie così come personale unificazione tra dimensione umana e divina della auctoritas: Agostino denominerà presto questa unità duale come “ordo amoris”. In esso la filosofia prosegue e rivive, a pieno titolo, come “amore della sapienza”. La potestas trova in esso un altro ordine di senso e di esercizio a causa dell’esperita paternità della auctoritas divina nell’ambito di competenza di quella humana. In fondo, per il neoconvertito l’esercizio della auctoritas divina coincide con la modalità più ragionevolmente compiuta e vantaggiosa di esercitare – come evidenziato, senza giustapposizioni né ingerenze – la stessa auctoritas humana: in ordine alle azioni compiute per un fine… in ordine al parlare… in ordine al diletto (in delectando). Conveniamo in questo senso col Boyer sul fatto che «anche S. Agostino saprà fare della certezza del proprio pensiero un punto di partenza per pervenire ad altre verità, alla conoscenza dell’anima e di Dio. Ma il primo uso che ne fa e condiziona tutti gli altri è di constatare l’esistenza non tanto di una verità quanto della verità, ed insieme il fatto del nostro potere di conoscerla, unendoci ad essa».43 È tutta in questa possibilità per la ragione di esperire, sul piano storico-esistenziale e teoretico, in delectando la paternità legittima della verità che consiste la sua suprema statura critica. Il retore Agostino, proprio nell’atto del domandare il battesimo dichiara il suo umile apporto alla ragione filosofica ad onore della statura dell’uomo nell’universo: l’insorgere dell’esperienza storica di questa paternità. V’è ora una paternità universale che abilita storicamente lo statuto critico della ragione. Il rinvenimento di essa polarizza la ragione in modo tale che l’esercizio della sua potestas si ponga come sua filiazione. Quello che era allora, in eredità greca, filo-sofia volge ora in filio-sofia; ciò che prima era solo pensiero-di-natura ora è, legittimamente ed a motivo di un’esperienza storicamente e teoreticamente abilitante, “pensiero del Padre”.44
1I. Kant, Vorlesungen über Metaphysik und Rationaltheologie, in: Kant’s gesammelte Schriften, Berlin 1970; tr. it. a cura di A. Rigobello, Realtà ed esistenza. Lezioni di Metafisica: Introduzione e Ontologia, Ed. San Paolo, Roma 1998, da cui citiamo, 63-64.
2Ibidem, Note – 163.
3Acad. 3,9; PL XXXII, 911. Le citazioni dei testi agostiniani seguiranno, d’ora in poi, le traduzioni e le versioni reperibili nell’edizione delle Opere di Sant’Agostino per i tipi della Nuova Biblioteca Agostiniana – Città Nuova Editrice, Roma. Eventuali discostamenti verranno segnalati all’occorrenza.
4Confessiones 5,10,19; PL XXXII, 715.
5N. Cipriani, I Dialogi di Agostino. Guida alla lettura, «Studia Ephemeridis Augustinianum» 134, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 2013, 24.
6De utilitate credendi 8, 20; PL XLII, 78-79.
7Retractationes 1, 1; PL XXXII, 585.
8Confessiones 6,11,18; PL XXXII, 729.
9Acad. 3,20,43; PL XXXII, 957.
10Epistola 1, 3 (ad Ermogeniano); PL XXXIII, 63 (con lieve discostamento nella traduzione).
11Cipriani, I Dialogi di Agostino. Guida alla lettura, cit. 80.
12Acad. 1,2; PL XXXII, 907.
13Ibidem 1,6,16; PL XXXII, 914. Agostino non fa altro che ribadire e citare quanto già acquisito dagli stoici senza pretenderne per sé la paternità innovativa: «Pertanto da me non avrai che la definizione della sapienza che non è mia né nuova, ma dei nostri antecessori e – aggiunge giudiziosamente – mi meraviglierei se non la ricordaste» (Ivi).
14Ibidem 1,8,23; PL XXXII, 917.
15Ibidem 2,13,30; PL XXXII, 934.
16Ibidem 3,2,3; PL XXXII, 935.
17Ibidem 3,2,4; PL XXXII, 935.
18La puntualizzazione in senso autocritico di Agostino giunge perentoria nel correggere l’equivoca versione fatalistico-impersonale dell’uso pagano del termine “fortuna”: «È vero, ho affermato questo. Mi pento però ugualmente di avere in quel passo menzionato in questo modo la fortuna: mi capita infatti di constatare che gli uomini hanno la pessima abitudine di dire: “L’ha voluto la fortuna”, quando si dovrebbe dire “L’ha voluto Iddio”» (Retract. 1, 2; PL XXXII, 585).
19Acad. 3,5,12; PL XXXII, 940 (con qualche personale discostamento dalla traduzione NBA).
20Acad. 3,11,26; PL XXXII, 947-948 (passim).
21M. Malatesta, Dialettica, in ( a cura di) A. Fitzgerald, Agostino, Dizionario Enciclopedico, Città Nuova, Roma 2007, 547
22Acad. 1,5,15; PL XXXII, 914.
23Acad. 3,19,42.20,43; PL XXXII, 956-957 (passim).
24J. Ratzinger, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, Kösel-Verlag, München 1968; tr. it. a cura di E. Martinelli, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, 1984 (settima edizione da cui citiamo), 64.
25Beata v. 4,34-35; PL XXXII, 975-976.
26Beata v. 4,34; PL XXXII, 976.
27Ivi.
28Ibidem, 4,35; PL XXXII, 976.
29Ivi.
30Ivi.
31De ordine 1,1,1; PL XXXII, 978.
32Ibidem 1,5,14; PL XXXII, 984.
33Ibidem 2,8,25; PL XXXII, 1006.
34Ibidem 2,9,27; PL XXXII, 1008.
35Ibidem 2,9,27; PL XXXII, 1007-1008.
36G. Madèc, Introduzione generale, in: Opere di Sant’Agostino. Le Ritrattazioni, NBA, Roma 1994, XXI. Altrove e precedentemente lo studioso francese spende un analogo giudizio nel rileggere il rapporto di Agostino col platonismo alla luce della sua conversione: «In tutti i casi è sicuro che il rapporto di Agostino con il platonismo non è di semplice dipendenza subita passivamente (…) Il platonismo, per Agostino, si compie nel cristianesimo (…) Al momento della sua conversione, nel 386, Agostino ha trovato nel cristianesimo la verità del platonismo. Non ha mai pensato di cercare nel platonismo la verità del cristianesimo» (G. Madec, La patrie et la voie. Le Christ dans la vie et la pensée de Saint Augustin, Parigi 1989; tr. it. a cura di G. Lettieri e S. Leoni, La patria e la via. Cristo nella vita e nel pensiero di Sant’Agostino, Borla, Roma 1993, da cui citiamo, 274-275).
37De ordine 2,11,30; PL XXXII, 1009.
38Ibidem 2,12,35; PL XXXII, 1011.
39Ibidem 2,14,40; PL XXXII, 1014.
40Ibidem 2,17,46; PL XXXII, 1016.
41Acad. 1,5,15; PL XXXII, 914.
42Lo attesta autorevolmente Luigi F. Pizzolato nell’introdurre il libro IX delle Confessiones, dove Agostino si sofferma sul racconto di quei giorni di Cassiciaco: «A Cassiciaco Agostino va a Dio col suo bagaglio intellettuale e con la sua coscienza professionale (…) Il periodo di Cassiciaco risulta decisivo ai fini della sua formazione cristiana e dell’acquisizione delle categorie cristiane di pensiero e di espressione (…) Si trattiene a Cassciaco fino al gennaio del 387, quando ritorna a Milano per iscriversi tra i catecumeni competentes (…) Ma Agostino non dismette mai l’habitus del ricercatore e la sua passione per la ricerca» (Luigi F. Pizzolato, Introduzione al libro IX, in: Sant’Agostino. Confessioni, vol. III, libri VII-IX, Fondazione Lorenzo Valla 1994, 297-299 – passim).
43C. Boyer, Agostino filosofo, Patron, Bologna 1985, 39-40
44G. B. Contri, Il pensiero di natura, Edizioni Sic, Milano 1994, 263.