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Ror Studies Series | Storia e mistero

“Da un estremo all’altro”: la missione in Jean Daniélou

Jonah Lynch

Pontificia Università Gregoriana, Roma

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O Gesù! Vedo queste immense folle e vedo il tuo desiderio immenso di nutrirle. E questa folla ha fame. Cosa manca, o Gesù? Abbiamo bisogno di santi, veri santi. […] Ti chiedo di suscitare dei santi. Da parte mia, mi sento profondamente indegno di questo. Aiutami ad essere semplicemente un buon servo. (Carnets, 296)

Introduzione

Nella sua giovinezza, Daniélou faticava a comprendere chiaramente il rapporto reciproco tra l’azione e la contemplazione nella sua vita. Gli sembrava che la prima fosse in contraddizione con la seconda, o perlomeno successiva cronologicamente e ontologicamente. Ma la sua personalità inquieta e brillante lo portava continuamente a sentire urgente l’azione. Come trovare l’unità della propria vita?

Una prima risposta si trova nel suo diario: “l’azione stessa è l’esercizio e la dimostrazione dell’amore, l’amore della volontà, fedeltà, devozione, di cui la dolcezza della preghiera è la risposta e la ricompensa”.1 Per Daniélou era chiaro che non poteva sacrificare né la sua vita intima di preghiera, né il suo desiderio di agire nel mondo. Vedeva che doveva “unificare la mia vita attraverso il desiderio di Dio, anziché fare due parti con la formula: ‘nascondi la mia anima […] lontano dal tumulto degli uomini’”.2 L’unità che cercava doveva tenere conto di entrambe le estremità.

“Il mio errore è di aver distinto l’ambito umano, l’attività, come cattivo e disturbante – e l’ambito divino, la pura passività, come la sola realtà”.3 L’unità che Daniélou cercava nella propria vita è la stessa che è cercata dagli uomini e donne di ogni lingua e cultura. Cercano una strada verso Dio che non richiede l’uscita dal mondo, che per quasi tutti sarebbe impossibile. Cercano una strada che non separa la vita spirituale dalla vita mondana, il soprannaturale dal naturale. Cercano Cristo, l’uomo-Dio.

Perciò non sorprende il fatto che al cuore del pensiero missionario di Jean Daniélou c’è la croce. Sulla croce, il Figlio di Dio viene lacerato tra cielo e terra. Egli appartiene sia al cielo, sia alla terra, e accetta di portare dentro di se lo scandalo della separazione tra gli uomini e Dio. Per Daniélou, il missionario accetta altrettanto di essere configurato alla croce di Cristo, teso tra le due estremità opposte della contemplazione e dell’azione. Cristo, “senza lasciare il seno della Trinità, si estende fino alle estreme frontiere della miseria umana, e riempie tutto l’intervallo”.4 Nello stesso modo, il missionario vive immerso nella vita della Trinità e immerso nella vita degli uomini, e accetta di portare dentro la propria carne la conseguente tensione. Un missionario non oppone più la contemplazione all’azione, ma vede che l’azione è missione, configurazione alla missione del Figlio.

Dicendo questo, in un certo senso abbiamo già detto tutto. Ma non è inutile dettagliare ulteriormente la posizione di Daniélou, per meglio comprendere il significato della missione. Per fare ciò, confrontiamo due tesi contrapposte. La prima, presente in molti strati della cultura europea e nordamericana, ritiene che le religioni sono in sé portatori di valori importanti. Contengono molto di buono e di bello, e presentano anche delle importanti somiglianze. Si è tentato perciò di pensare alla categoria “religione” come a una cosa sostanzialmente omogenea, buona, con effetti simili anche se sotto vesti variegate.

Questa opinione è molto diffusa, e non solo nel senso superficialmente irenica che non vuole vedere contrasti. È anche una posizione seria che nasce dall’osservazione di elementi positivi e costruttivi in ogni popolo e religione. Si cita ad esempio il rispetto per la trascendenza di Dio proprio dell’Islam, il primato del mondo spirituale dell’Induismo, e la saggezza di Confucio.

Tuttavia è piuttosto frequente che si passi da questa posizione di rispetto a delle conseguenze eccessive, ad esempio ritenendo che tutte le religioni sono strade a Dio e quindi la conversione al cristianesimo non solo non è necessario, ma non è neanche utile. Occorre qualche distinzione qui per comprendere il significato dell’azione missionaria, innanzitutto quella di Cristo stesso.

La seconda posizione è il reciproco, che si può indicare con la tesi che H. Kraemer, discepolo di K. Barth, ha espresso nel suo Il messaggio cristiano in un mondo non-cristiano. Kraemer sostiene che il messaggio cristiano, in quanto messaggio divino, non incontra nulla che lo prepari nel mondo. Il mondo, e in particolare le religioni, sono essenzialmente il rifiuto di Dio, e ostacolo alla conversione a Cristo.

Questa idea può sembrare superficiale come la prima, ma anche qui vi è una verità importante. Se il vero Dio si manifesta nella carne e viene a camminare sulla terra, cosa si può fare se non convertirsi a lui? Pone l’uomo di fronte a una decisione radicale, per lui o contro di lui, tertium non datur. Se questo uomo è Dio, questo fatto cambia tutto e non può lasciare nessuno indifferente. Esige la conversione, ma il mondo è lontano dall’essersi convertito. Quindi, occorre la missione.

Queste due posizioni sono esaminati nel “manifesto missionario” di Daniélou, Le mystère du salut des nations. Il capitolo drammaticamente intitolato “ciò che deve vivere e ciò che deve morire” indica che in ogni religione e cultura ci sono elementi che sono vere ricchezze e che devono vivere, e altri elementi che devono essere purificati. Ciò che deve rimanere sono le ricchezze che sono una vera preparazione per ricevere la buona novella di Cristo. Tale era la filosofia greca: insufficiente da sola a dare la salvezza al mondo, ma una preziosa preparazione per comprendere e esprimere ciò che è stato rivelato in Cristo. Per Daniélou, lo stesso si può dire della legislazione romana e dello spirito nordico che ha dato impulso a tanta cultura medievale, e anche delle culture dell’India e della Cina, che hanno ricchezze che ancora non sono entrate a far parte della Chiesa. Essa attende il loro contributo, e il vestito della Sposa non sarà completa fino a che non contenga tutti i colori che appartengono a questi popoli.

Allo stesso tempo, ogni cultura contiene elementi che devono essere purificati. Qui sta il dramma di Israele, secondo Daniélou: non ha accettato la purificazione finale che l’avrebbe permessa di accogliere il suo sospirato salvatore. Lo stesso dramma, reso in modo più simpatico, si trova nell’affermazione di un uomo cinese che “se Dio avesse deciso di farsi uomo, sarebbe diventato sicuramente cinese, perché è il popolo più stabile e colto del mondo”. Potrebbe aver ragione nel suo giudizio sulla cultura cinese, eppure è proprio questo (giusto) orgoglio che deve far spazio per lasciare che Cristo entri e porti la cultura cinese alla sua piena fioritura.

La creazione

La dicotomia che abbiamo così abbozzato evidentemente richiede una soluzione complessa. Daniélou indica una strada che inizia nella contemplazione del mistero della creazione. Sottolinea l’unità dell’azione delle tre persone divine: nella creazione, il Padre agisce attraverso la sua Parola, nello Spirito. “Tutta la creazione è sospesa in ogni istante dalla parola creativa. Non sussiste se non nella misura in cui è offerta. È interamente, in ogni istante, sostenuto in esistenza. Questa visione assolutamente radicale è a volte ciò che ci aiuta di più a trovare nuovamente un rapporto autentico con Dio e con la creazione”.5 Daniélou tornava spesso alla creazione e alla dipendenza ontologica per fondare la sua fede. “Per riscoprire la realtà della Trinità in se stessa, dobbiamo cominciare dalla manifestazione della Trinità nella creazione stessa”.6 Il mondo materiale ha il suo origine nell’azione delle Tre Persone, ed è chiamata ad essere trasfigurata da loro.

Quest’idea è una critica profonda del modo solito di concepire il mondo, come cosmo desacralizzato, estraneo a ogni origine o destino divino.7 Daniélou nota la dissociazione tra un destino religioso puramente personale e il destino cosmico del mondo materiale. Si potrebbe dire che il tentativo di affermare la dignità indipendente del mondo materiale e le sue strutture conoscitive (scienza, filosofia) appare a prima vista come l’esaltazione delle sue capacità. Ma in realtà, lo vota alla disperazione, perché non può attraversare lo iato tra il materiale e lo spirituale. Daniélou afferma invece che alla sua origine, il mondo materiale è legato alla Trinità. Perciò, il suo destino spirituale non è l’annullamento del suo valore intrinseco, ma il suo compimento. Contemplazione e ricerca scientifica riguardano lo stesso mondo, che origina in Dio.

Secondo Daniélou, la grazia è già presente nell’inizio dell’ordine cosmica. È presente nei primi uomini,8 molto prima della vocazione di Abramo, come si vede dalle sue parole positive e piene di stima per l’uomo pagano, che si trovano in molte opere, in particolare la serie di ritiri pubblicati come Les saints paiens de l’ancien testament. Il pagano può percepire nella bellezza del creato e nella potenza delle forze naturali, nei cicli delle stagioni e della fecondità, una presenza a lui superiore. Attraverso il mondo visibile, qualcosa del mondo invisibile può essere conosciuto. In questo senso Daniélou non accetta il pessimismo di chi vede nel paganesimo un puro ostacolo alla fede in Gesù Cristo.9 Per lui, la religiosità naturale dell’umanità è un presupposto indispensabile per la rivelazione della grazia.10 Ricordiamo qui una pagina del suo primo libro, Le signe du temple:

A un primo livello, che non è cristiano per essenza, ma che si trova a far parte del patrimonio storico del cristianesimo, e che ordinariamente si degrada fuori di esso, il mistero cristiano è il mistero della creazione. Intendo per questo non solamente la dipendenza originale dell’Universo rispetto al Dio personale e trascendente, ma anche la dipendenza attuale di ogni cosa da Lui, e per conseguenza una presenza di Dio che dona al Cosmo intero un valore sacrale.11

Dirà, tipologicamente, che anche “L’alleanza cosmica è già un’alleanza di grazia”.12 Daniélou si appoggia in questo giudizio su idee antiche come i logoi spermatikoi di Giustino, e sul testo nella lettera agli Ebrei che elogia la fede esemplare di tre uomini che vengono prima della chiamata di Abramo, Abele, Enoch, e Noè (Eb 11, 4-7), e parla di Melchisedek come di una persona addirittura superiore ad Abramo, “fatto simile al Figlio di Dio” (Eb 7, 3).

A questo punto si aprono una serie di questioni circa la salvezza dei non-cristiani. Le tesi di Daniélou in questo campo sono state oggetto di molto apprezzamento e di molte critiche. Ad esempio, una tesi alla Gregoriana nel 1970 scritta da R.E. Verastegui argomentava per una “tendenza Daniélou” nell’interpretazione del significato delle religioni non-cristiani nella storia della salvezza, che si opporrebbe ad un’altra linea rappresentata dal “cristianesimo anonimo” di K. Rahner. Questo giudizio è stato recepito anche nel documento della Commissione Teologica Internazionale nel suo rapporto Cristianesimo e religioni (1996).13

Per i nostri fini è sufficiente qui ricordare che Daniélou affermava sia una lettura “positiva” della storia pre-cristiana come preparazione, sia la necessità in un mondo caduto che questa stessa storia fosse redenta e trasfigurata. Daniélou era cosciente della tentazione di affermare un “universalismo dissolvente”, un universalismo fatto più di buone intenzioni che di chiare distinzioni. In Le mystère du salut des nations, afferma chiaramente che la mistica plotiniana, ad esempio, è stata una “preparazione provvidenziale di cui il cristianesimo si è servito”.14 Nello stesso tempo, non si stanca mai di ribadire, con Pascal, l’esistenza di “ordini” diversi: né la religione naturale, né la speculazione filosofica, sono dello stesso ordine dell’evento storico dell’Incarnazione del Figlio di Dio.15 È qui che bisogna focalizzare l’attenzione per capire come tenere insieme continuità e discontinuità, preparazione e trasfigurazione, nella vita e nella missione del cristiano.

Su questo sfondo, riprendiamo l’affermazione fondamentale del pensiero di Daniélou sulla missione. Coincide con la tesi classica: la missione del cristiano è la continuazione della missione di Cristo, come impariamo dal vangelo di Giovanni: “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo” (Gv 17, 18).16

Come si vede da questa citazione, parlare di missione implica i rapporti intratrinitari. La missione del cristiano è il prolungamento (per usare una parola cara a Daniélou) della missione del Figlio, e si svolge quindi in stretta analogia alla sua. Possiamo sintetizzare questa analogia con due parole: incarnazione e redenzione, che sono la trasposizione sul piano della storia della salvezza della dicotomia con cui abbiamo cominciato.

Incarnazione

L’incarnazione del Figlio di Dio era il suo ingresso nel mondo. Anche se ci sono parole dure contro il “mondo” nel quarto vangelo, e la tentazione nel deserto in Lc 4 e Mt 4 indica il primato dello spirituale, sarebbe sbagliato interpretare questi elementi nel senso dualistico di un’opposizione tra materia e spirito. Dio si è fatto uomo, ha vissuto, sofferto, è morto ed è risorto nella sua umanità. Per Daniélou, ciò significa che il mondo creato, anche se decaduto e sottomesso alla morte, rimane un mondo buono. Il mondo creato da Dio è lo stesso mondo che Egli è venuto a salvare.

Negli anni della sua maturità, in Les laics et la mission de l’eglise, scriverà che “niente sarebbe più falso che affermare che c’è da una parte la Chiesa e dall’altra il mondo ateo. Il mondo non è ateo. Ci sono degli atei nel mondo, ma il mondo stesso è divino. Gli atei sono un accidente”.17

Di conseguenza, il missionario dovrà “incarnarsi” nella cultura in cui si trova, farsi tutto a tutti, come indica san Paolo. Daniélou era in contatto con molte persone che avevano questa attenzione, come l’abbé Monchanin18 in India. In uno dei suoi libri, elogia un chierico a Damasco che era riuscito a farsi accettare negli ambienti musulmani perché parlava perfettamente l’arabo.19 Mentre questo esempio è debole, mostra che c’è un’urgenza nella carità che determina la formazione di competenze intellettuali, umane, scientifiche, e che porta il missionario ad assumere il carattere di un determinato ambiente per lievitarlo.

Queste considerazioni nascono immediatamente dalla contemplazione della condiscendenza di Cristo e la sua disponibilità a condividere in tutto, eccetto il peccato, la condizione umana. È un’ideale molto impegnativa se realizzata seriamente. Non è cosmesi, ma la condivisione seria della vita altrui.

Pensiamo, come esempio nella vita personale del nostro autore, all’enorme energia richiesta a Danielou per i suoi impegni di insegnamento e scrittura, per dar vita e spessore al lavoro culturale missionario del Circolo san Giovanni Battista, alla rivista Dieu Vivant, agli incontri con gli intellettuali, come quelli con George Bataille20 organizzati da Marcel Moré, agli interventi in televisione… e osserviamo come Daniélou ha fatto tutto ciò senza glissare sull’essenziale della fede, vediamo che l’incarnazione vissuta richiede grande dedizione. Uno degli esempi più brillanti di questa condivisione è il dialogo pubblico con l’ebreo André Chouraqui21, in cui Daniélou ha dato prova di profonda conoscenza e sincera simpatia per le posizioni del suo interlocutore, e allo stesso tempo è riuscito ad esprimere in pubblico il suo desiderio che l’altro incontrasse Cristo. “In quanto sono cristiano, devo annunciare Gesù Cristo a lei, e spero una sola cosa, che lei lo riconosca – il che non mi impedisce di rispettare profondamente i valori del giudaismo”.22

È anche vero, e Daniélou lo dice frequentemente, che il missionario deve fare i conti con la sua incompleta santità. Non può iniziare dal Cantico del Sole, scrive ad un certo punto del Mistero della salvezza delle nazioni, ma deve ricordare che anche la missione di san Francesco comprende il dolore delle stimmate. Scrive ancora, a proposito delle periferie in cui amava avventurarsi:

bisogna che abbiamo delle anime di diamante per essere capaci di mescolarci [con i pagani] senza essere contaminati. È il marchio di un’anima veramente pura di essere capace di passare attraverso tutte le cose, ritenendo ciò che è buono e eliminando ciò che è cattivo. […] Tutto sarebbe mancato se, andando verso di loro, fossimo noi a diventare come loro e non loro che diventano come noi. Allora ci sarebbe incarnazione, ma senza trasfigurazione, non vale nulla.23

Redenzione

Che cosa si intende per “trasfigurazione”? Per Daniélou, il punto irriducibile nell’incontro con gli altri è il bisogno di salvezza. Tutta la simpatia reciproca, lo studio, l’avvicinarsi all’altro, è un prerequisito necessario ma insufficiente per operare la salvezza dal peccato e dalla morte. Assieme alla lettura positiva della creazione, occorre anche guardare il fatto che il mondo è caduto e anela alla redenzione che è incapace di operare con i propri mezzi. In questo senso, l’Incarnazione appare non come un fine, ma come un passo necessario e intermedio attraverso cui la divinizzazione dell’umanità avviene.

Danielou insiste su questo punto. Scrive: “se dobbiamo rivolgerci verso il mondo, è affinché possiamo rivolgere il mondo verso Cristo, e l’Incarnazione è il primo tempo di un movimento che deve essere compiuto nella Trasfigurazione, cioè nella penetrazione del mondo dalla luce di Cristo”.24 Come ha affermato lungo tutta la sua vita, citando le varie formulazioni patristiche, Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio.

Questo passaggio non avviene a buon prezzo. Da Cristo ha richiesto la morte. La sua missione incontra il male, e nella collisione con esso si scatena la guerra nel cielo di cui leggiamo nell’Apocalisse. Nel suo Essai sur le mystère de l’histoire, Daniélou scrive che “la missione non è soltanto una presentazione del messaggio evangelico adattato alle civiltà differenti. Si tratta di un conflitto contro le forze del male. E questo conflitto si gioca nei misteriosi combattimenti della santità. È per mezzo della preghiera e la penitenza che i demoni sono cacciati”.25

Tutto ciò suggerisce che anche dal missionario un prezzo alto sarà richiesto.

Ricordiamo quel titolo drammatico: “Ciò che deve vivere e ciò che deve morire” da Le mystère di salut des nations. La stessa serietà che motiva lo studio e il lavoro culturale di entrare in contatto con l’altro, fino a farsi cinese con i cinesi, porta fino alla croce, al sangue versato per amore. E la vittoria avviene attraverso il fallimento totale, offerto al Padre, come è stato per Cristo.

Il sacrificio, però, ha come scopo la vita. Le doglie del parto sono il preludio alla bellezza di una nuova vita, non lo scopo stesso.26 È notevole come per Daniélou la dinamica che abbiamo rapidamente disegnato sfoci senza soluzione di continuità nelle espressioni più varie, persino nella politica. Qui ci limitiamo a fare due brevi esempi di questo, forse per invogliare qualcuno a studiare più a fondo questo aspetto del pensiero di Danielou. Egli amava citare Giorgio La Pira, come esempio dell’integrazione tra fede e vita pubblica. E la notte prima della sua morte, aveva parola altissime per una figura di uomo pubblico santo (e perciò missionario), Sant’Ivo:

Che sete di vedere riconosciuta la realtà delle cose, la grandezza di Dio confessata da tutti, la verità che è l’ordine delle cose riconosciuta e confessata dalle persone, e attraverso loro, l’ordine ristabilito nella società! Perché sant’Ivo, non lo dimentichiamo, è stato un teologo, un predicatore, ma anche allo stesso tempo un uomo di diritto, un uomo della giustizia, cioè un uomo pratico, un uomo che cercava di far passare nell’esistenza cristiana la verità della fede cristiana, di far riconoscere la dignità dell’uomo perché è un figlio di Dio, di difendere il diritto di coloro che erano oppressi dai soldi o dalla potenza.27

La fretta missionaria

Fino a qui, abbiamo visto per sommi capi una spiritualità missionaria abbastanza classica. Questo era un punto di onore per Daniélou, che non si vedeva come il proponente di una soluzione radicalmente nuova. Non voleva alterare il peso relativo negli elementi essenziali della vita cristiana. Piuttosto volevo ricuperare alcuni elementi perenni dalla Chiesa dei primi secoli per illuminare i bisogni della Chiesa di oggi. Ciò che rende la sua proposta originale non sta in una nuova articolazione degli elementi in gioco, ma nella completezza della sua visione, che include la storia cosmica con la storia della salvezza in un intero continuo, il che lo rende altamente pedagogico.

Assieme alla visione equilibrata che abbiamo cercato di descrivere sopra, Daniélou ha spesso insistito su un’altra questione, che situa la missione al cuore del significato del tempo storico presente. Egli dice, in una parola, che con la missione si affretta la parusia. Nelle pagine dell’Essai sur le mystère de l’histoire, sviluppa quest’idea nel capitolo intitolato “La speranza”.

Da una parte, notiamo la sua fede:

Fra amici, tutto è comune; fra Dio e noi, tutto è comune; essendo Figli, abbiamo un diritto ai beni divini. […] Aspiriamo a che ciò che si è cominciato si realizzi, che la vita invada tutto. … Attendiamo che la salvezza acquisita dal Cristo sia estesa a tutti gli uomini. E questo l’attendiamo non per la fine dei tempi, ma all’interno del tempo. È l’oggetto più immediato della speranza.28

Daniélou nota che uno può avere il desiderio di essere presi da Gesù con una tale forza da non poter più ritornare agli idoli che tante volte lo hanno sedotto. “Ma il Signore è saggio, e non vuole darci questo. Da che è attraverso le nostre lente fedeltà e i nostri umili esercizi di preghiera, le nostre umili pratiche di carità, che si elabora in noi la sostanza incorruttibile dell’amore spirituale e non il fervore di un istante che passa come un fuoco di paglia”.29

Daniélou si chiede: “cosa possiamo fare, già ora, per lavorare alla liberazione dell’uomo?” Sa, e l’ha scritto molte volte, che il lavoro del cristiano non può eliminare la sofferenza e il male. Sa pure che per quanto riguarda il tentativo importante di lenire le sofferenze, di dar da mangiare agli affamati e curare i malati, non è detto che i cristiani siano più bravi a farlo che i musulmani o gli atei. Ben spesso, dice Daniélou, gli atei sono altrettanto capaci, o anche più capaci dei cristiani, di risolvere problemi di ordine materiale.

Ammette tutto questo, ma Daniélou ricorda pure la parola di Péguy, che ha detto che “non lavorare, e pregare per riempire ciò che manca, trovo che sia maleducato”.30 È una parola precisa e efficace: più che illogico, il quietismo è maleducato, ingrato, meschino. Un grande cuore vuole dare qualcosa a colui che ama. Un grande cuore vuole partecipare alla battaglia, non soltanto godere dei frutti della vittoria. In un testo dedicato ai laici scrive che “l’opera è di Dio. Ma a questa opera ognuno deve cooperare. Ogni cristiano è operaio con Dio”.31

È in questo senso che Daniélou cita la seconda lettera di Pietro (2Pt 3:11) e il finale del vangelo di Matteo (Mt 24:14). La scrittura afferma che c’è qualcosa che possiamo fare per affrettare la liberazione e la trasfigurazione del mondo. Possiamo lavorare all’evangelizzazione del mondo, affrettare la conversione delle anime in vista della parusia, cioè il compimento di tutte le attese. “Noi siamo all’interno di questo processo di compimento”.32

A margine, è interessante notare la somiglianza tra questa idea e il recente testo del papa emerito (Urbaniana, 23 ottobre 2014), che riecheggia alcuni dei temi più cari a Daniélou. Vi troviamo due linee in particolare, il movimento di compimento delle attese dei popoli, e nello stesso tempo la loro ricchezza che e’ chiamata a far parte del vestito multicolore della Chiesa.

Ratzinger scrive:

Le religioni sono in movimento a livello storico, cosi come sono in movimento i popoli e le culture. Esistono religioni in attesa. Le religioni tribali sono di questo tipo: hanno il loro momento storico e tuttavia sono in attesa di un incontro più grande che le porti alla pienezza. Noi, come cristiani, siamo convinti che, nel silenzio, esse attendano l’incontro con Gesù Cristo, la luce che viene da lui, che sola può condurle completamente alla loro verità. E Cristo attende loro. L’incontro con lui non è l’irruzione di un estraneo che distrugge la loro propria cultura e la loro propria storia. È, invece, l’ingresso in qualcosa di più grande, verso cui esse sono in cammino. Perciò quest’incontro è sempre, a un tempo, purificazione e maturazione. Peraltro, l’incontro è sempre reciproco. Cristo attende la loro storia, la loro saggezza, la loro visione delle cose.33

Il missionario ha ricevuto il dono della fede e desidera, con lo stesso cuore di Cristo, estendere il dono a coloro che non l’hanno ancora conosciuto e abbracciato. Ragionando per analogia con l’Incarnazione del Figlio di Dio, Daniélou afferma che la missione avviene nell’amore che va alla ricerca delle persone che ama.

La parola di Dio viene a cercare le persone perché le ama. Il punto di partenza per ogni apostolato è di amare come Cristo ama; cioè, con un amore che realizza nell’altro ciò che Cristo ama in lui. Questo è l’atteggiamento basico del missionario, amare nelle anime ciò che lo Spirito cerca di compiere in loro, di co-spirare con questa azione dello Spirito che cerca di rendere ogni anima umana un capolavoro.34

Il missionario è come la mano di Cristo, che vuole risanare il cieco nato; come la Sua voce, che vuole consolare la vedova di Nain; è come i suoi piedi che hanno camminato per tutta la Giudea annunciando la liberazione dei prigionieri. Ancora di più, se notiamo questa bella parola, “co-spirare”, il missionario respira insieme a Cristo, in qualche modo egli si muove assieme allo Spirito inviato dal Padre e dal Figlio. Il missionario partecipa realmente alla missione eterna del Figlio, e sa, per usare la simpatica formulazione di Daniélou, che “tutti, senza eccezione, i Maometti, i Confucio, i Karl Marx, tutti quelli che volete si troveranno ultimamente davanti alla Trinità. È semplicemente caritatevole avvisare la gente anzitempo”.35

Dentro a quel tono vivace e sorridente troviamo l’esperienza che sta al cuore della missione secondo Daniélou, la carità. È l’amore del Padre per il mondo che lo spinge ad inviare il Figlio (1Gv 3,16). È l’amore del Figlio che raggiunge i discepoli e li converte. Alla cena dell’addio, egli svela i nessi: “come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore”. (Gv 15, 9) E prosegue: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. Di conseguenza, occorre “dare la vita per i propri amici”. E questo sacrificio ha come scopo la fecondità: “io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. (Gv 15, 12-16) Infine, ritorniamo alla frase con la quale abbiamo iniziato: “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo”. (Gv 17, 18)

Nel contesto dell’amore crocifisso, si può comprendere un’affermazione che riprende il senso aperto e rispettoso verso la varietà delle culture con cui abbiamo aperto questo articolo. Daniélou asserisce in Le mystère de l’avent che “il grande ostacolo all’unità e di voler esser al centro. […] Nella misura in cui vogliamo essere al centro, cioè nella misura in cui Cristo non è l’unico centro, noi ci opponiamo a lui”.36 Fino a questo punto, l’affermazione non è particolarmente sorprendente. Ma Daniélou scrive anche che persino la chiesa Latina non è il centro, nel senso che la chiesa Latina non può imporre le sue strutture sulla chiesa dell’Est, né le sue idee su tanti temi. Non è facile immaginare e accettare che ci sia una chiesa veramente Russa, Indiana, o Cinese – ma per Daniélou, proprio questo vuol dire l’unità.

Il rispetto per ciò che costituisce l’altro nella sua essenza è la condizione dell’unità nella carità, e si oppone all’imperialismo o la pressione esterna. Questo rispetto presuppone la croce, presuppone la rinuncia al proprio egoismo, imperialismo, volontà di imporsi sugli altri, e desiderio di essere servito dagli altri. “Dobbiamo invece decidere di essere i servi degli altri. Cristo stesso ha fatto questa rinuncia: la morte di Cristo è la morte simbolica di tutto il popolo ebraico con i suoi privilegi, significa accettare in lui la distruzione di tutto ciò che esisteva prima, in modo che i pagani possano entrare nella Chiesa”.37

Per Daniélou, la missione doveva essere popolare e accessibile all’uomo comune. Un suo amico, Xavier Tilliette, ha scritto che egli “deplorava la speculazione teologica, decorata con il nome confuso della ricerca, e anche la sacramentalità pastorale utopica e senza radici, senza l’esperienza vera e molteplice della gente, delle anime, dei loro bisogni e la loro fame. Sfidava la teologia del laboratorio con tutta la sua forza”.38 Daniélou stesso, con meno enfasi e più profondità, diceva che “dobbiamo sperare che la massa degli uomini sia cristiana. La nostra posizione oggi non può essere diversa da quella dei primi apostoli, che intendevano portare il vangelo di Gesù Cristo a tutti gli uomini, non soltanto ad una élite spirituale, ma ai poveri, cioè alle masse, la gente umile, le famiglie”.39

Un esempio di missione

Il missionario Daniélou univa in se stesso le profondità della vita mistica e l’azione più febbrile, la simpatia per ogni cultura e il radicamento stabile dentro alla storia cristiana e occidentale. Ha trovato la sua identità, l’unità della propria vita, come immagine e somiglianza del Missionario divino, Gesù Cristo. Un esempio particolarmente eloquente che illustra l’identità missionaria di Daniélou riguarda il suo rapporto con il suo fratello Alain.

Alain è nato nel 1907, due anni dopo Jean. A differenza del primogenito, ha vissuto dalla tenera età un’avversione all’educazione cristiana che sua madre offriva loro. Alla fine della sua adolescenza, ha dichiarato di essere omosessuale, si è traslocato, e ha cominciato a convivere con un amante. A causa di questo atto, sua madre Madeleine ha smesso di sostenerlo economicamente.

Dopo la rottura con la famiglia, Alain ha presto lasciato la Francia. Nei suoi viaggi ha studiato la musica folkloristica di paesi come la Cambogia, l’Afghanistan, e l’Algeria. In seguito, è andato in India e ha lavorato per un tempo alla guida della scuola di musica che R. Tagore ha fondato. Poi è andato a Benares ed è stato iniziato come induista.

Nel ricordo di quelli anni, Alain ha parole amare per tutti i membri della sua famiglia, ma per Jean ha anche delle parole di stima. Scrive, per esempio, “egli aveva, durante un tempo, celebrato una messa per gli omosessuali. Cercava di aiutare i prigionieri, i delinquenti, i giovani in difficoltà, le prostitute. Non aveva alcun pregiudizio borghese”.40 E ancora: “Verso di me, Jean è stato sempre perfettamente gentile. Ha conservato tutta la vita un rimorso per il modo in cui la famiglia mi aveva trattato, lasciandomi senza appiglio. L’ha spesso detto agli amici comuni”.41

Esistono numerosi riferimenti ad Alain nei Carnets di Jean Daniélou, il diario privato in cui ha tenuto traccia dei suoi ritiri e pensieri più privati per decenni. Spesso sono preghiere piene di amore per il fratello fisicamente e spiritualmente lontano. Troviamo in quelle pagine anche una lettera scritta ai superiori nel 1936, in cui Jean elenca i motivi che lo portano a desiderare di essere inviato come missionario in Cina. Il terzo di questi motivi dice che “una vita di gesuita non è completa senza la partecipazione alla passione del nostro Signore”. Daniélou ammette di avere paura che si rilasserà in questa disponibilità a condividere la passione di Cristo, e ritiene che le difficoltà della vita missionaria sarebbero un aiuto in tal senso. Ma l’ultima riga è ciò che veramente sorprende. Scrive: “mi sembrerebbe di non essere vissuto invano se, a causa di essa, l’anima di Alain sia salvata e non so quale misura di immolazione Dio desidera da me per questo”.42

Qualche anno più tardi, durante il grande ritiro del “Terzo anno”, scrive nella stessa vena: “Gesù, ho capito che tu non voglia che io distingui i miei peccati dai peccati altrui, ma che io entri più profondamente nel tuo cuore e che, come tu prendi i peccati del mondo, anche io prenda i peccati del mondo: che io mi consideri responsabile dei peccati di quelli che tu vorrai: di Alain, dei miei fratelli del Terzo anno, di ogni uomo che ti piacerà”.43

Il martirio, lo scambio mirabile della propria vita a favore della vita di chi si ama: questo è il fuoco segreto nel cuore missionario. Questa è la nostra somiglianza con la missione del Figlio, inviato dal Padre nel mondo perché gli uomini e le donne abbiano la vita, abbondantemente.

1J. Daniélou, Carnets spirituels, Cerf, Paris 1993, 20072 (=Carnets), 45.

2Carnets, 63.

3Carnets, 88.

4Idem, D’une extremité à l’autre, in F. Jacquin, Histoire du cercle St. Jean Baptiste, Beauchesne, Paris 1987, 246.

5J. Daniélou, La Trinité et le mystère de l’existence, Desclée de Brouwer, Paris 1968 (=La Trinité), 15-16.

6La Trinité, 14.

7René Guenon scrive: “La civiltà moderna appare nella storia come una vera e propria anomalia: fra tutte quelle che conosciamo essa è la sola che si sia sviluppata in un senso puramente materiale, la sola altresì che non si fondi su alcuno principio d’ordine superiore. Tale sviluppo materiale, che prosegue ormai da parecchi secoli e va accelerandosi sempre più, è stato accompagnato da un regresso intellettuale che esso è del tutto incapace di compensare”. (R. Guenon, Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 19943, 15).

8È suggestiva in questo senso una recente scoperta che sembra indicare una forma arcaica di carità fra ominidi vissuti circa 1,8 milioni di anni fa. Vedi D. Lordkipanidze et al., A complete skull from Dmanisi, Georgia, and the Evolutionary Biology of early Homo, «Science» 342 (18 ott. 2013) 326-331

9Il tema è legato alla disputa sulla natura e la grazia, perché l’esistenza di santi prima della redenzione di Cristo metterebbe in difficoltà l’interpretazione che vorrebbe separare nettamente tra il prima e il dopo: i personaggi trattati dal nostro autore sono considerati dalla Bibbia in un ordine storico che è già dall’inizio un ordine di grazia. Tutt’ora il canone Romano cita alcuni fra di loro come facenti parte dei “santi”. Poco importa poi se l’uno o l’altro di essi possa sembrare mitologico più che storico: anche se Melchisedek, Enoch o Giobbe raccogliessero i tratti di più persone storiche, ciò non metterebbe in discussione il carattere storico dei typoi che rappresentano. “Je me refuse avec l’Eglise à les rejeter dans la catégorie des mythes. Ils attestent qu’il y a eu parmi le païens de saints prêtres, de saints rois, de saints justes” (J. Daniélou, Les saints païens de l’ancien testament, Seuil, Paris 1955, 11-12).

10È una tesi classica del pensiero cattolico. Vedi H. U. von Balthasar e la sua introduzione al libro di J. Danièlou Prayer: mission of the Church, Eerdmans, Grand Rapids 1996 (Prayer), xiii.

11“A un premier degré, et qui n’est pas chrétien par essence, mais qui se trouve faire partie du patrimoine historique du christianisme, et qui se dégrade d’ordinaire en dehors de lui, le mystère chrétien est le mystère de la création. J’entends par là non seulement une dépendance originelle de l’Univers par rapport à un Dieu personnel et transcendant, mais la dépendance actuelle de toutes choses à son égard; et par conséquent une présence de Dieu qui donne au Cosmos tout entier une valeur sacrale”. (Idem, Le signe du temple ou De la présence de Dieu, Gallimard, Paris 1942, 9).

12Idem, Les saints paiens de l’ancien testament, Ed. du Seuil, Paris 1956, 29.

13Per un’analisi della questione della priorità di Daniélou e non invece di De Lubac nel pensare e esporre ciò che si chiama “tendenza Daniélou”, si veda I. Morali, J. Daniélou e la teologia della salvezza dei non cristiani in H. De Lubac: Dati ed argomenti per il superamento della tesi di R. E. Verastegui sulla Tendence Daniélou, «Euntes Docete» LIII/1 (2000) 29-51.

14J. Daniélou, Le mystère du salut des nations, Éd. du Seuil, Paris 1946, 54.

15Sarebbe interessante a questo proposito confrontare il testo Dio e noi di Daniélou con Il senso religioso di L. Giussani. A nostro parere ci sono tanti punti di contatto, tali che si potrebbe ipotizzare una dipendenza significativa del secondo dal primo, che lo predata di pochi anni e che si sa è stato letto e apprezzato da Giussani appena pubblicato. Egli lo dava infatti da leggere ai suoi studenti negli anni Cinquanta. L’insistenza sulla categoria di evento sarebbe un elemento importante in questo confronto.

16In un piccolo libro meditativo pubblicato postumo con il titolo Contemplation: croissanie de l’Eglise (Fayard 1977), Danielou espone il nucleo del suo pensiero in proposito. Si tratta di un libro che nasce da una serie di conferenze o ritiri, come molti dei libri più divulgativi del nostro Autore, e conserva il carattere talvolta estemporaneo di questo tipo di insegnamento. Il testo segue uno sviluppo Trinitario: dall’incontro con il Dio vivente, ai presupposti di questo incontro nella storia della salvezza nell’Antico Testamento, all’incontro con Cristo e il mistero della redenzione nel Nuovo Testamento, e infine all’esistenza nello Spirito nella Chiesa. Per Daniélou la missione non era una sottocategoria della teologia. Come gli altri temi che lo preoccupavano particolarmente, come i sacramenti (prolungamento dei magnalia dei, le grandi azioni di Dio nella storia) e il significato della storia, la missione costituisce nel pensiero di Daniélou una linea continua che non si delimita facilmente. Nella prefazione a firma di Von Balthasar, leggiamo ciò che sarà evidente a ogni lettore di Daniélou: anche se si può individuare una struttura classica, ben fondata nella tradizione della Chiesa e nella Scrittura, questa struttura ha le maglie abbastanza larghe da ospitare considerazioni di ogni genere, con un movimento a volte circolare, a volte più errabondo ancora. Fa parte dello charme dell’Autore; ma è anche una caratteristica profonda e importante del suo lavoro. Ogni tema si intreccia con ogni altra, ed è difficile dare un’esposizione completa che non sia, per la sua completezza stessa, un po’ aggrovigliata. Credo che in questo Daniélou si sentiva giustificato dallo stile che ha imparato nei suoi studi patristici: non esita di citare poesie o pensatori lontani dal suo campo specifico, né di scrivere in modo poetico e di lasciare spazio ai salti intuitivi che gli erano naturali, forse anche perché così facevano i grandi del terzo e quarto secolo che più di altri hanno formato il suo spirito.
In questo si potrebbe forse vedere qualche somiglianza fra gli scritti di Daniélou e quelli del suo amico e compagno di banco a Fourvière, von Balthasar. Ma a differenza di quest’ultimo, Daniélou ha insegnato per tutta la vita, sia nelle aule sia nei ritiri per laici, e ha imparato in questo modo a coniugare profondità e semplicità. Questo è un elemento importante che lo avvicina allo stile di J. Ratzinger.

17J. Daniélou, Les laics et la mission de l’eglise, Editions du centurion, Paris 1962 (=Les laics), 119.

18Jules Monchanin, dopo qualche anno di ministero a Lyons, aveva sentito la chiamata a impiantare la Chiesa in India partendo dalla cultura dei Veda. Intendeva un’inculturazione “come se fossimo nell’anno 34 dell’era cristiana”. Il contatto con lui ha profondamente nutrito il pensiero di Daniélou e il suo gruppo di giovani studenti nel Circolo san Giovanni Battista. Vedi J. Monchanin, Mystique de l’Inde, mystère chrétien, Fayard, Paris 1974.

19Les laics, 122.

20George Bataille, noto per le sue tesi sull’erotismo e per un libro dal titolo Expérience intérieure, che cerca di creare una spiritualità naturale indipendente di ogni dogmatismo, e di guardare a grandi mistici come Giovanni della Croce e Teresa di Lisieux – senza tuttavia credere in Gesù, la Trinità, o la Chiesa. Per una discussione dettagliata e illuminante sul rapporto fra Daniélou e Bataille, vedi S. Lewis, Contestation and Epektasis in the “Discussion on Sin”, «Analectica Hermeneutica» 4 (2012) 1-33.

21Pubblicato con il titolo Dialogo con Israele.

22J. Daniélou, Et qui est mon prochain?, Stock, Paris 1974, 150.

23Idem, Le mystère du salut, 88. Sia detto a margine: la prudenza non era una virtù connaturale a Daniélou. Era per natura piuttosto un uomo degli estremi, allo stesso tempo mistico e uomo d’azione, nella tradizione dei più grandi gesuiti. Era consapevole di correre dei rischi, e si ha l’impressione che i numerosi testi simili a quello che ho citato, sia nelle sue conferenze sia nei suoi diari privati, erano un richiamo si ai suoi ascoltatori, ma anche un richiamo a se stesso.

24Ibidem, 71.

25Idem, Essai sur le mystère de l’histoire, Éd. du Seuil, Paris 1953 (=Essai), 207.

26Vedi Rm 8.

27J. Daniélou, Homélies au pardon de Saint Yves le 19 mai 1974, «Bulletin des amis du Cardinal Daniélou» 1 (1975) 20.

28Essai, 336-337.

29Essai, 338.

30Les laics, 122

31Idem, Approches du Christ, Grasset, Paris 1960, 228.

32Essai, 340.

33J. Ratzinger, Discorso all’Università Urbaniana, 23 ottobre 2014.

34Prayer, 108.

35J. Daniélou, Mythes paiens et mystère chrétien, Fayard, Paris 1966, 89.

36Idem, Le mystère de l’avent, Éd. du Seuil, Paris 1948, 155. Notiamo l’assonanza con il richiamo di Francesco di essere “decentrati”.

37Essai, 157.

38X. Tilliette, “Avant-propos”, in Carnets, 16.

39J. Daniélou, La risposta dei teologi, in A.A. V.V. La risposta dei teologi, Queriniana, Brescia 1969, 50.

40A. Daniélou, Le chemin du labyrinthe, Editions du Rocher, Monaco 1993, 37.

41Ibidem, 36.

42Carnets, 50.

43Ibidem, 308-9. Marie-Josephe Rondeau, curatrice dei Carnets, mi ha confermato questo fatto nel corso di un’intervista privata nella sua casa parigina il 24 ottobre 2013. Lo ha anche scritto, nel suo articolo “Jean Daniélou théologien”, in J. Fontaine (Ed.), Actualité de Jean Daniélou, Cerf, Paris 2006, 147, nota 2. In diversi altri passaggi dei Carnets Alain appare come il destinatario di preghiere.