Ror Studies Series | Storia e mistero
Le religioni in Joseph Ratzinger
Maria Vittoria Cerutti
Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano
Premessa
Nel presente contributo intendo delineare le caratteristiche e gli scopi dell’approccio squisitamente storico e più precisamente storico-comparativo alle religioni – e al posto del cristianesimo nel mondo delle religioni – quale sviluppato da Joseph Ratzinger e da lui considerato premessa necessaria per una valutazione teologica delle religioni e del rapporto tra cristianesimo e altre religioni. Non intendiamo, pertanto, illustrare i lineamenti di una teologia delle religioni né di una filosofia delle religioni, come espresse da Ratzinger,1 ma – appunto – le linee di una storia delle religioni intesa come approccio metodologico di tipo storico e più specificamente storico-comparativo alle religioni quali fenomeni storici.
L’ambito della nostra indagine è costituito da una serie di saggi risalenti agli anni sessanta, ma tali da essere riconosciuti da Ratzinger stesso – per sua esplicita ammissione in uno scritto del 2000 – come validi nelle loro linee generali ancora agli inizi di questo nostro secolo.2
Chi scrive si riconosce nella scuola di Storia delle religioni che si ispira alla lezione metodologica di Ugo Bianchi (1922-1995), allievo di Raffaele Pettazzoni (1883-1959). Con quest’ultimo nacque in Italia, negli anni venti del secolo scorso, la Storia delle religioni come disciplina scientifica, professata in sedi accademiche, con un proprio statuto epistemologico fondato sul metodo storico-comparativo. Solo in parziale continuità con quella di Pettazzoni, la proposta metodologica di Bianchi intende distanziarsi sia da un approccio storicistico (in nuce già in Pettazzoni ma esplicito in suoi allievi e non, come Angelo Brelich ed Ernesto De Martino3) sia dalla fenomenologia religiosa, quale venutasi a delineare – dopo gli studi di Rudolph Otto – in particolare con Gerardus van der Leeuw e Mircea Eliade.
In tal modo, rifiutando, da un lato, uno storicismo che si rinchiuda entro i confini di una ricerca idiografica e proponga forme esplicite o implicite di riduzionismo del fatto religioso a fattori culturali di natura altra (sociale, economica e così via), e, dall’altro lato, una fenomenologia radicale, troppo legata a presupposti filosofici e tesa a identificare ‘strutture’ e ‘tipi’ religiosi, avulsi dal concreto terreno storico, la lezione metodologica di Bianchi viene ad additare la via di un approccio al fatto religioso e ai fatti religiosi svincolato da teorie interpretative generali e generalizzanti e libero per quanto possibile da pre-comprensioni di ordine ideologico, filosofico e teologico.
Tale via si fonda sul metodo storico-comparativo, ossia un metodo induttivo e positivo (non positivistico), che a partire dallo studio – nutrito di attenzione filologico-documentaria – dei singoli fenomeni religiosi come fenomeni storici, manifestatisi e manifestantisi nella storia e indagabili con i mezzi della storiografia, non si fermi ad una, pur necessaria, attenzione idiografica ma si apra programmaticamente alla individuazione e allo studio di quei più vasti circuiti storici e culturali, di quella rete mobile di rapporti e di reciproche influenze nella quale ogni fenomeno religioso, in quanto fenomeno storico, è collocato. La comparazione tra fatti religiosi e processi religiosi, o comunque tra fatti inseriti in processi, porta alla individuazione di analogie significative, ossia di somiglianze e di diversità, ma mai sempre le stesse, tra quei fatti e quei processi, e tenta di offrire una ragione, storica, delle une come delle altre. Al contempo, la comparazione, sulla base di dette analogie, potrà addivenire alla costruzione di ‘tipi’ religiosi o – come preferiva chiamarle Bianchi – ‘tipologie storiche’, ossia di forme di classificazione da intendersi non come lo scopo e il fine della ricerca stessa, ma come duttili strumenti ulteriori di indagine e di interpretazione di quegli stessi fatti e processi.4 Scopo della comparazione sarà dunque il cogliere le specificità dei fenomeni comparati e con ciò l’operare una sempre più pertinente distinzione e chiarificazione degli stessi, a tutto vantaggio di una sempre miglior comprensione della ‘verità’ storica.5
Per un approccio storico-comparativo alla pluralità delle religioni in J. Ratzinger
Il plesso di problemi (storici, filosofici, teologici, culturali, pastorali) legati alla pluralità delle religioni e al posto del cristianesimo a fronte di queste è “con acuta preveggenza e sicura lucidità” – come riconosce Piero Coda6 – individuato da Ratzinger già quando esso – ai tempi della promulgazione del decreto conciliare Nostra Aetate – “è ancora, tutto sommato, al margine della consapevolezza e del dibattito ecclesiale, se si eccettuano affondi penetranti di pensiero come quelli offerti in quegli anni da Jean Daniélou e Henri de Lubac, per non portare che due esempi ben noti alla meditazione del giovane teologo Ratzinger”.7
A noi, tuttavia, qui compete, come detto, una disamina – nelle sue linee fondamentali – dell’approccio storico alla pluralità delle religioni – e al posto del cristianesimo a fronte di esse – come sviluppato da Ratzinger, in quello spettro di saggi che sopra è stato delimitato.
Perspicuo della necessità di un siffatto approccio come preliminare ad una riflessione teologica in merito a religione e religioni, appare il seguente passaggio che cade all’interno di un contributo di Ratzinger, su cristianesimo e religioni universali,8 alla miscellanea offerta nel 1964 a Karl Rahner per il suo sessantesimo compleanno:9
Le religioni, in fondo, sono sempre trattate come massa indistinta, considerate sempre sotto il profilo della possibilità di salvezza. La mia opinione, dopo gli anni dedicati allo studio della storia delle religioni, era che simili qualificazioni teologiche delle religioni dovessero essere precedute da una ricerca fenomenologica non impegnata in primo luogo a valutare il valore sub specie aeternitatis delle religioni e che perciò evitasse di accollarsi un problema sul quale propriamente può decidere solo il Giudice del mondo. Ero del parere che in primo luogo si dovesse cercare di avere una visione panoramica delle religioni nella loro struttura storica e spirituale. Mi sembrava che non si dovesse discutere su di un non meglio definito (e praticamente neanche analizzato) insieme di ‘religioni’, ma che si dovesse in primo luogo cercare di vedere se vi siano stati sviluppi storici comuni e se si possano riconoscere tipi fondamentali, sui quali semmai compiere poi delle valutazioni; infine che occorresse indagare su come si rapportano tra loro questi tipi fondamentali e se ci pongano di fronte ad alternative che potrebbero poi diventar oggetto di riflessioni e scelte filosofiche e teologiche.10
Tali affermazioni appaiono espressive di una istanza metodologica fondamentale per il nostro Autore, in base alla quale la valutazione teologica delle religioni deve essere preceduta da una ricerca di “sviluppi storici comuni” e di “tipi fondamentali”. Ovvero, da una indagine storica dei fenomeni religiosi, intesi e indagati non come fatti statici ma come processi dinamici, indagine cui sia strettamente legata (detto meglio altrimenti: a cui consegua) una indagine fenomenologica tesa a individuare e a descrivere – così come esse ‘appaiono’ agli occhi dell’indagatore – differenze e somiglianze e a delineare, sulla base di queste, tipi comuni fondamentali. È in questo senso che ci pare vada inteso il riferimento di Ratzinger alla fenomenologia nel passaggio sopra riportato.11 Si tratta di un riferimento che non comporta l’assunzione delle valenze metodologiche proprie della fenomenologia delle religioni quale si era sviluppata nel corso del XX secolo per contrastare i riduzionismi propri di interpretazioni del fatto religioso ispirate dall’evoluzionismo e dal positivismo ottocenteschi, e alla quale facevano riferimento – in particolare – i nomi di W. Otto (precursore, in realtà, di quella tradizione di studi), di G. van der Leeuw, di G. Widengren e, in una posizione specifica, più morfologica che fenomenologica, di M. Eliade.12
Ben vede P. Coda,13 allorché valorizza il distanziarsi di Ratzinger da una posizione quale quella fenomenologica che, tesa come è a individuare le strutture comuni soggiacenti alle manifestazioni storiche delle religioni e, in ultima analisi, l’univoca essenza del fatto religioso in sé, giunge a misconoscere le discontinuità tra le concrete esperienze religiose espressesi nella storia e, insieme, le loro specificità.14
Lontananza dalla fenomenologia, dunque, ma anche, possiamo qui aggiungere, lontananza da posizioni proprie di quella declinazione della fenomenologia religiosa che è costituita dall’antropologia religiosa, quale è venuta configurandosi, in particolare, nella produzione scientifica di Julien Ries, e che ha al proprio centro la nozione di homo religiosus, strutturalmente aperto al sacro.15 Tale nozione non sembra trovare eco negli studi di Ratzinger né lo trova certamente in quegli studi cui facciamo riferimento in queste nostre pagine.16 Di fatto, tale nozione, nella sua tensione a salvare la specificità del fatto religioso e la sua irriducibilità a ciò che religioso non è, come pure – e contestualmente – ad affermare la universalità del fenomeno religioso,17 troppo facilmente viene a identificare una essenza univoca del fatto religioso e con ciò a rischiare di misconoscere le specificità delle diverse tradizioni religiose e, tra di esse, di quella ebraico-cristiana.18
La presa di distanza da parte di Ratzinger da una indagine fenomenologica che ritenga di poter attingere strutture o essenze univoche e atemporali delle religioni, e – al limite – l’essenza della religione in quanto tale, emerge ancora nel seguente passaggio che compare nello scritto di Ratzinger del 1964 in omaggio a Karl Rahner – riproposto, ultimamente, nel 2005 – al quale abbiamo già sopra fatto riferimento:
La primissima impressione che si impone all’uomo quando incomincia, in materia di religione, a gettare lo sguardo al di là dei confini della propria, è quella di un illimitato pluralismo, di una molteplicità addirittura opprimente, che a priori fa apparire illusoria la questione della verità. […] questa impressione non dura a lungo, ma molto presto cede il passo a un’altra: quella di una nascosta identità delle aree religiose, che si distinguono certo nei nomi e nelle immagini di superficie, ma non nei grandi simboli fondamentali e in ciò che con essi si intende. In larga misura questa impressione è giusta. Di fatto esiste un’ampia area religiosa nella quale la comunanza dell’ ‘esperienza spirituale’ (per parlare col linguaggio di Radhakrishnan) è più decisiva della diversità delle forme esterne. In modo esplicito o implicito, tante religioni stanno in quella profonda, reciproca comunicazione spirituale che nell’antichità si esprimeva nella facilità con cui le divinità potevano essere scambiate da religione a religione, ‘tradotte’, considerate identiche nel loro significato. La diversità delle religioni assomiglia alla diversità delle lingue, che sono traducibili l’una nell’altra, perché fanno riferimento alla stessa struttura di pensiero. […] Come abbiamo detto, dall’impressione di piena pluralità, che per così dire rappresenta un primo stadio della riflessione, si sviluppa, in un secondo stadio, l’impressione di un’ultima identità. La filosofia moderna della religione è persuasa di poter persino addurre il fondamento di questa nascosta identità.19
Si tratta – prosegue Ratzinger – della concezione per la quale nell’esperienza mistica, ossia nella esperienza vissuta dal mistico di un contatto diretto col divino, esperienza di per sé ineffabile, starebbe il fondamento comune di ogni autentica religione e, insieme, la religione di prima mano, mentre la religione di seconda mano, espressa con molteplici variazioni formali, consisterebbe nella cognizione del divino trasmessa dal mistico a quei tanti cui non è dato compiere tale esperienza.20 Questione fondamentale, da cui potrà proseguire il cammino dell’indagine teologica, è allora – per Ratzinger – rispondere alla domanda se tale interpretazione mistica della religione regga o meno. La strada per giungere a una risposta è quella costituita da una indagine storica e comparativa. Afferma, infatti, il nostro Autore:
Non c’è dubbio che tale interpretazione coglie in modo giusto gran parte del fenomeno religioso, non c’è dubbio che […] esiste una segreta identità nel mondo molteplice delle religioni. È però altrettanto sicuro che essa non coglie l’intera realtà, anzi, se lo volesse fare, giungerebbe a una semplificazione errata. Quando si analizza la storia delle religioni nella sua totalità (nella misura in cui la conosciamo) si ha l’impressione di una staticità molto minore, ci si imbatte in una imponente dinamica, propria d’una storia reale (che è progresso, non costante ripetizione simbolica dell’uguale); la semplice in-distinzione a cui conduce l’interpretazione mistica viene meno a favore di uno strutturarsi ben definito, che oggi risulta oramai evidente, in cui la via mistica emerge come una via del tutto particolare tra svariate altre, in un punto assolutamente particolare della storia delle religioni, e presuppone una intera serie di sviluppi indipendenti da essa.21
È a questo punto che Ratzinger delinea quello che gli appare come lo strutturarsi storico delle religioni, scandito in tre stadi. Il primo stadio è quello delle religioni ‘cosiddette primitive’, che poi “si sviluppa nello stadio delle religioni mitiche, nelle quali le esperienze sparse dei primordi si raccolgono in una coerente visione unitaria”.22 Da questo secondo stadio, quello delle ‘religioni mitiche’, con un ulteriore e decisivo passaggio, si assiste alla uscita dal mito. Questo secondo passaggio appare alla indagine di Ratzinger strutturarsi nel modo seguente:
Se il primo grande passo nella storia delle religioni, dunque, consiste nel passaggio dalle esperienze sparse dei primitivi al mito in grande stile, il secondo passo, decisivo e tale da determinare l’attuale carattere della religione, consiste nell’uscita dal mito. Tale passo storicamente si è verificato in tre modi: 1. Nella forma della mistica, in cui il mito delude come mera forma simbolica e si rafforza l’assolutezza dell’ineffabile esperienza vissuta. Di fatto poi la mistica si dimostra custode dei miti, rifonda il mito, che spiega come simbolo della verità. 2. La seconda forma è quella della rivoluzione monoteistica, la cui forma classica si trova in Israele. In essa il mito è rifiutato come arbitrio umano. Viene affermata l’assolutezza della chiamata divina tramite il profeta. 3. Va aggiunto come terza forma l’illuminismo (Aufklärung), il cui primo grande momento si verificò in Grecia. In esso il mito come forma di conoscenza prescientifica viene superato e si instaura l’assolutezza della conoscenza razionale. L’elemento religioso diventa privo di significato, al massimo gli rimane una certa funzione puramente formale di cerimoniale politico (= riferito alla polis).23
Questa ‘formula strutturale’ (come la definisce Ratzinger);24 a base storico-fenomenologica, mette a frutto un’ampia conoscenza di studi sulle religioni maturata nel corso degli anni di insegnamento accademico,25 risultando però, al contempo, anche talora debitrice, come preciseremo tra poco in particolare in relazione alla via monoteistica, dei limiti di quegli stessi studi. Merita, prima, un ulteriore approfondimento questo ‘schema di massima’26 cui può condurre una “critica della ragione storica in materia di religione”27 e che si pone tra due percezioni estreme e tra di loro opposte del mondo delle religioni: la prima che lo identifica come una pluralità sconfinata e la seconda che lo vede come tale da rimandare a una profonda e altrettanto sconfinata indistinzione.
Orbene, prima via messa a fuoco in tale ‘schema’ è la via della mistica: “con tale termine non si designa quella forma di pietà religiosa che può trovarsi anche nell’ordine a cui appartiene la fede cristiana. Per ‘mistica’ qui si intende più radicalmente una via presente nella storia delle religioni, una disposizione che non tollera nessuna realtà sovraordinata a sé, considerando in ultima analisi le esperienze ineffabili e misteriose del mistico come l’unica realtà vincolante nell’ambito del religioso”.28
È l’atteggiamento caratteristico del Buddha come dei grandi pensatori del gruppo delle religioni induiste, persino quando le loro posizioni sono così diverse fra loro. “È la via che, con molteplici varianti, costituisce comunque lo sfondo unitario delle grandi religioni asiatiche. È caratteristica di tale via l’esperienza dell’indistinzione. Il mistico sprofonda nell’oceano dell’Uno-tutto (che esso sia definito come ‘nulla’, in un’accentuata teologia negativa, o positivamente come ‘tutto’, è la stessa cosa). […] La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lo stadio definitivo è la fusione, l’unità”.29 La categoria dell’in-distinzione si fa cifra teologica, ed ecco la teologia dell’in-distinzione, tipicamente asiatica, per la quale “tutte le diverse religioni, appunto perché sono diverse, vengono assegnate al mondo del provvisorio, in cui la parvenza della separazione copre ancora il mistero dell’in-distinzione. L’equiparazione di tutte le religioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentale contemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nell’asserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità”.30
Venendo alla seconda via, la via monoteistica, ci preme qui osservare come Ratzinger, al riguardo, dichiari31 il suo debito nei confronti degli studi dello storico delle religioni italiano Raffaele Pettazzoni, già da noi sopra ricordato, e nello specifico dell’opera di Pettazzoni L’onniscienza di Dio.32
L’idea pettazzoniana che il monoteismo costituisca una vera e propria rivoluzione, ovvero l’irruzione – con la figura di un fondatore – di una novità radicale in un panorama religioso a sfondo politeistico, nella stagione di studi in cui venne formulata – gli anni ’50 del ventesimo secolo – intendeva contrastare non solo l’idea tipicamente evoluzionistica circa la nascita del monoteismo a seguito di una evoluzione quasi meccanica a partire da precedenti quadri politeistici,33 ma anche la nozione, cara a Wilhelm Schmidt34 e alla sua scuola, e costruita sulla base della indagine di una imponente quantità di dati relativi alle più arcaiche culture etnologiche contemporanee, di un Urmonotheismus o ‘monoteismo originario’, caratterizzante i popoli della preistoria e rispetto al quale i politeismi delle culture superiori rappresenterebbero (non una evoluzione, come per gli studi improntati appunto alle tesi evoluzionistiche, bensì) una devoluzione. Accogliendo la posizione critica di Pettazzoni in merito al cosiddetto ‘monoteismo originario’, Ratzinger sembra prendere indirettamente le distanze dalle tesi schmidtiane in questione, particolarmente allora diffuse negli ambienti cattolici.35 Ma la nozione pettazzoniana di rivoluzione, che verrebbe a caratterizzare i monoteismi storici (ebraismo, cristianesimo, islamismo, zoroastrismo), nati appunto – secondo la interpretazione di Pettazzoni – allorché un fondatore con atteggiamento rivoluzionario nega i tanti per affermare l’Unico, e a distinguerli dal cosiddetto (e indebitamente detto) monoteismo originario, negli studi storico-religiosi sarebbe stata assoggettata a una revisione, che ne avrebbe denunciato la rigidità, quale formula incapace di dare conto di quelle dinamiche di continuità che pur si offrono, accanto alle dinamiche di rottura, o di ‘rivoluzione’, nelle fondazioni religiose di tipo monoteistico.36
Non ci soffermiamo sulla terza delle tre vie nelle quali si esprimerebbe, secondo la ‘formula strutturale’ proposta da Ratzinger e sopra da noi ricordata, l’uscita dal mito, ossia la via dell’ ‘illuminismo’, costituita dalle religioni dell’Aufklärung, come le designa Ratzinger, a partire dalle filosofie greche fino a quelle posizioni proprie dei tempi moderni, le quali rifiutano i miti come forma di conoscenza e subordinano l’esperienza religiosa all’assoluto della conoscenza razionale e scientifica.
Ci preme invece ritornare ora alle ‘due vie’, la via mistica e la via monoteistica, e, soprattutto, in un secondo momento, sottolineare la rilevanza metodologica del procedimento con cui Ratzinger giunge a proporre la ‘formula strutturale’ sopra illustrata. Oserei dire che tale procedimento metodologico appare un guadagno ancor più importante di quanto, forse, non lo sia il suo esito, ossia la delineazione delle tre vie di uscita dal mito nella ‘formula strutturale’ sopra illustrata.
Ancora su ‘via mistica’ e ‘via monoteistica’ in J. Ratzinger
Ritorniamo dunque alle due vie. In merito alla distinzione tra via mistica e via monoteistica, espressa dalla ‘formula strutturale’ di cui sopra, mette conto illustrare sia pur brevemente una sorta di evoluzione del pensiero di Ratzinger al riguardo di tale contrapposizione; il suo debito, parziale, nei confronti di analoga distinzione come occorsa in studi antecedenti e in particolare in quelli di J. Daniélou, cui Ratzinger guarda con particolare attenzione, ed infine la sua funzionalità ad una riflessione pertinente l’ambito della teologia delle religioni.
Innanzitutto occorre ricordare come la ‘formula strutturale’ di cui sopra costituisca – per Ratzinger – la base per proseguire in una analisi comparativa differenziante delle religioni, la quale pervenga a identificare – su base storica prima che teologica – la specificità del cristianesimo in rapporto alle altre religioni ovvero il posto del cristianesimo nel mondo delle religioni.37 In particolare, funzionale a tale identificazione gli appare la distinzione, che egli giudica caratterizzata da una irriducibilità marcata e insuperabile, tra la via percorsa dal monoteismo ‘di rivoluzione’, di ascendenza – come sopra detto – pettazzoniana, e la mistica ‘dell’ineffabile’, ossia la mistica nella specifica accezione proposta da Ratzinger e da noi sopra illustrata. Irriducibilità che del resto si dà anche tra mistica, sempre nel senso specifico di cui sopra, e fede, in senso biblico cristiano.38
Orbene – afferma Ratzinger – la scelta tra le due vie, quella mistica, astorica e fondata sulla concezione impersonale di un divino ineffabile, e quella monoteistica, storica, fondata sulla concezione personale di un Dio che si rivela, che possa parlare e a cui si possa parlare, “è una questione di fede, seppure di una fede che si avvale di preambula razionali. Quel che si può fare sul piano scientifico è, unicamente, tentare di conoscere ancor più da vicino la struttura delle due vie e la loro reciproca relazione”.39
È lo stesso Ratzinger, a distanza di tempo,40 e a seguito di un costante approfondimento della propria riflessione storico-fenomenologica e teologica – in ciò dimostrando, come rileva Coda,41 “umiltà e autentico spirito scientifico” –, a riconoscere una certa inadeguatezza della distinzione contrappositiva, a suo tempo proposta, tra ‘mistica’ e ‘monoteismo’.42 Il che non gli impedisce di mantenere, ed anzi di valorizzare, quella che rimane come una cifra qualificante la sua indagine storica e fenomenologica del mondo delle religioni, ovvero la distinzione tra la concezione personale di Dio che si rivela, propria della rivelazione ebraico-cristiana e la concezione impersonale del divino ineffabile propria della via mistica, quale si dà nelle religioni dell’Estremo Oriente. Distinzione che si esprime anche e di conseguenza nei seguenti termini:43
Da questo fatto [scil. dal fatto che nella via mistica ‘Dio’ rimane del tutto passivo e l’elemento decisivo è l’esperienza dell’uomo che sperimenta la sua in-distinzione rispetto all’essere di ogni ente, mentre nella via monoteistica si crede all’operare di Dio che chiama l’uomo] consegue una differenza ancor più profonda, che sul piano della fenomenologia della religione balza particolarmente all’occhio e a sua volta genera una serie di ulteriori conseguenze. Ne risulta infatti il carattere storico della fede che si basa sulla rivoluzione profetica e il carattere astorico della via mistica. L’esperienza vissuta, da cui nella mistica tutto dipende, si esprime solo in simboli, il suo nucleo è identico in tutti i tempi. Non è il momento cronologico dell’esperienza vissuta ad essere importante, ma unicamente il suo contenuto, che equivale a un travalicamento e a una relativizzazione di ogni realtà temporale. Al contrario la chiamata divina, da cui il profeta sa d’essere raggiunto, è databile; ha un ‘qui’ ed ‘ ora’, con essa ha inizio una storia, è stabilita una relazione, e le relazioni tra persone hanno carattere storico, esse sono quello che noi chiamiamo storia.
Jean Daniélou, in particolare, ha messo in forte risalto questo fatto. Sottolineando a più riprese che il cristianesimo è ‘essenzialmente fede in un evento’, mentre le grandi religioni non cristiane affermano l’esistenza d’un mondo eterno ‘che si oppone al mondo del tempo. Esse ignorano il fatto dell’irruzione dell’eterno nel tempo, che viene a dargli consistenza e a trasformarlo in storia’.44
Nel cammino di approfondimento delle due vie, Ratzinger viene così a esprimere il suo debito nei confronti di J. Daniélou.45 Egli ricorda come sia stato Daniélou a riconoscere con perspicacia la distinzione – conseguente a quella tra via astorica e via storica nel mondo delle religioni – tra le figure dei grandi fondatori delle religioni asiatiche e le figure dei patriarchi e dei profeti d’Israele, come pure tra l’agire di Dio che dà la salvezza nelle religioni bibliche e l’agire dell’uomo che cerca la salvezza; a tale riguardo riporta le parole di Daniélou, aggiornandole:
Per il sincretismo [così egli dice. E noi potremmo dire: “per le diverse vie religiose al di fuori di quelle inaugurate dai profeti”] le anime salve sono quelle capaci di interiorità, a qualsiasi religione appartengano. Per il cristianesimo, salve sono quelle che credono, qualunque sia il loro grado di interiorità. Un piccolo fanciullo, un operaio oppresso dal lavoro, se credono, sono superiori ai più grandi asceti.46
Non ci addentreremo nelle suggestioni storico-fenomenologiche di Daniélou qui da Ratzinger evocate, né nella questione dei debiti di queste nei confronti della letteratura scientifica del tempo, ad esempio – per quanto concerne la riflessione di Daniélou sulla via astorica – nei confronti della produzione scientifica di M. Eliade.47
Segnaliamo solo come sia nella direzione di un approfondimento della via storica propria del monoteismo, e ancora una volta non senza giovarsi di suggestioni offertegli da Daniélou, che Ratzinger viene a delineare la specificità – su base storico-fenomenologica prima che teologica – della peculiare via storica costituita dal cristianesimo. Infatti, afferma Ratzinger, “si potrebbe mostrare che solo nel cristianesimo l’impostazione storica è stata seguita in modo del tutto rigoroso, e che quindi solo nel cristianesimo la via monoteistica ha esplicato i suoi effetti in modo davvero autentico”.48 E sempre in merito a una riflessione sulla peculiare storicità della via cristiana, lo stesso Ratzinger ricorda49 come, a proposito dell’islam, già il Daniélou del Saggio sul mistero della storia50 avesse valorizzato quanto già affermato da J. Moubarac, ossia che “il pensiero maomettano ignora la durata e conosce solo atomi, momenti del tempo (anat)”.
La distinzione tra via mistica e via monoteistica, o, secondo la formulazione successivamente preferita da Ratzinger – come sopra visto –, tra via personale e storica e via impersonale e astorica, viene a precisarsi e ad arricchirsi nel prosieguo della riflessione di Ratzinger, confermandosi una chiave di volta del suo approccio storico e più precisamente storico-comparativo al mondo delle religioni e al posto del cristianesimo in esso.
Di fronte al mondo delle religioni, infatti, Ratzinger invita “a prendere atto delle differenze più tangibili in un paio di parole chiave”,51 che risultano essere, da un lato, il ‘tipo’ di religione teistica, ove l’apice dell’essere, il divino stesso, è Persona, e, dall’altro lato, larga parte della religiosità asiatica, ove l’Assoluto sta al di là del personale.52 Una contrapposizione, questa, che ne comporta una ulteriore, quella tra i concetti di separazione e di unità: “Questo vuol dire: se per il pensiero teistico l’ineliminabile contrapposizione di creatore e creazione fa parte dell’unità, la quale crea l’amore, per la mistica asiatica, invece, la fusione inscindibile all’interno dell’identità dell’uno, che è nel contempo tutto, è l’unico scopo sufficiente della sua aspirazione al divino”.53
Contestuale a tale riflessione e tale da giovarsi dei suoi guadagni, è la riflessione sviluppata dal nostro Autore in merito al rapporto tra politeismo e monoteismo, la quale evade rispetto a considerazioni ‘ingenue’ quali quelle che vedono il primo, il politeismo, come affermazione della molteplicità dell’Assoluto e il secondo, il monoteismo, come affermazione della sua unità. L’analisi di Ratzinger, infatti, viene a mostrare come vero discrimine tra politeismo e monoteismo sia piuttosto l’idea dell’inaccessibilità dell’Assoluto di contro all’idea che all’Assoluto si possa rivolgere la parola ed esso stesso possa parlare. Ne consegue la delineazione – da parte di Ratzinger – sia del carattere politeistico dell’ateismo moderno, sia della contiguità tra il politeismo del mondo antico e le religioni asiatiche, compreso il buddhismo, per altri versi così diverse da quello. Comune, infatti, all’antico politeismo e alle religioni asiatiche è l’idea che l’Assoluto divino sia impersonale o sovrapersonale e non destinatario di atti religiosi positivi, i quali possono essere – invece – destinati solamente a ciò che è penultimo.
Dopo aver ribadito che “l’illuminismo greco e il profetismo in Israele rappresentano ciascuno a suo modo un confronto con il problema del politeismo”,54 il nostro Autore precisa che “la posizione speciale della fede d’Israele” consiste essenzialmente nel fatto di “un Assoluto cui si possa parlare e che a sua volta possa parlare”,55 mentre la religiosità asiatica, e nello specifico la sua via mistica, attesta “una decisione sull’assoluto, che non segue così necessariamente dallo spunto politeistico e che non si registra ad esempio nell’ambito greco: il mondo (e l’uomo con esso e tutto ciò che è personale) viene compreso come l’apparizione finita dell’Infinito, solo apparenza e non essere”.56
Tuttavia, nella riaffermazione di tale distinzione tra la prospettiva biblica e quella asiatica, Ratzinger viene a precisare dove si ponga la fede cristiana rispetto a tale contrapposizione, e lo fa sulla scorta, per sua specifica e riconoscente ammissione,57 dei lavori di J.A. Cuttat,58 il quale vede la fede cristiana come il centro unificante tra l’Oriente e l’Occidente.59 Afferma Ratzinger:
E tuttavia: se la fede cristiana spinge al grado massimo di severità la sua contrapposizione, c’è pur in essa contemporaneamente il superamento della contrapposizione e l’apertura all’unità, anche se in un senso del tutto diverso dall’universalismo simbolico dell’Asia. Cristo non significa infatti soltanto alterità di Dio e uomo, ma anche unità: unità di uomo e Dio, unità di uomo e uomo, in una forma tanto radicale, che Paolo – lasciandosi alle spalle tutta la mistica asiatica dell’unità – può dire: “Voi siete uno solo in Cristo Gesù” (Gal 3,28). E ci troviamo così ricondotti alle parole di Cuttat, dalle quali siamo partiti: “Nel punto dove Oriente ed Occidente si incontrano e si dividono, si erige la croce del nuovo Adamo”, il quale crea nella croce l’incunearsi dei due legni divisi, dei due mondi divisi. “Egli, infatti, è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un solo popolo e ha abbattuto il muro che li separava, l’inimicizia … per riconciliarli con Dio, ambedue in un unico corpo, mediante la croce, dopo aver ucciso in se stesso l’inimicizia” (Ef 2,14ss).60
La rigorosa distinzione su base storica e fenomenologica di processi storici, quali quelli sopra delineati e costituiti dalla via mistica e da quella monoteistica, e di caratteristiche proprie di quegli stessi processi (indistinzione vs distinzione, astoricità vs storicità, impersonalità vs personalità), è purtuttavia, nella prospettiva di Ratzinger, tesa a una affermazione teologica, e nello specifico di una teologia della storia:
Tutto quel che s’è detto [scil. in merito alla distinzione tra monoteismo e mistica e alla insostenibilità di una identificazione della mistica come essenza della religione o come religione di prima mano e del mistico come del reale detentore della religione] non può né deve servire a creare una comoda giustificazione razionale per la fede cristiana nel conflitto delle religioni. Si è voluto piuttosto definire un po’ più chiaramente (eppure ancora in modo abbastanza generico) il posto del cristianesimo nel complesso della storia delle religioni, per conoscere meglio noi stessi e la nostra propria via in rapporto agli altri. Se la questione ha posto in primo piano ciò che separa, non si deve tuttavia dimenticare ciò che unisce: il fatto che noi tutti siamo parte di un’unica storia che, in vari modi, è in cammino verso Dio. Ci sembra che la conclusione decisiva sia che, per la fede cristiana, la storia delle religioni non è il ciclico ritorno di ciò che è sempre uguale, di ciò che non arriva mai al vero, che rimane al di fuori della storia. Chi è cristiano ritiene che la storia delle religioni sia una storia reale, una strada la cui direzione significa progresso, e il cui cammino significa speranza. Costui deve svolgere il suo servizio come uno che spera, che imperturbabilmente sa che il fine della storia, pur attraverso tutti i fallimenti e le contese degli uomini, infallibilmente si compie: la trasformazione del tohuwabohu, del caos con cui il mondo ebbe inizio, si realizza nella Gerusalemme eterna, in cui l’unico ed eterno Dio abita in mezzo agli uomini e splende ad essi come loro luce per sempre (cf. Ap 21,33; 22,5).61
Religione e religioni: questioni di metodo
Ma è giunto il momento, ora, di valorizzare la rilevanza della ‘formula strutturale’ sopra illustrata per le indicazioni metodologiche che essa offre.
Infatti, ad essa Ratzinger perviene mosso dalla esigenza di mostrare che dal punto di vista storico e fenomenologico “non esiste una generica in-distinzione delle religioni e neppure la loro pluralità senza rapporto, ma si può delineare – appunto – una formula strutturale che abbracci il momento della storicità (del divenire, dello sviluppo), il momento dell’essere in costante rapporto e il momento delle diversità reali, irriducibili. […] In questo schema di massima si dovrebbe afferrare l’esito a cui può condurre una ‘critica della ragione storica’ in materia di religione”. Detto in altri termini, “tra l’idea di una pluralità sconfinata e quella di una altrettanto sconfinata in-distinzione siamo rimandati invece a un numero limitato di strutture, che sono preordinate a un determinato sviluppo spirituale”.62
Una valutazione storico-fenomenologica dei fenomeni religiosi che evada dagli estremi di considerarli un coacervo anarchico di fatti e, all’opposto, di considerarli tali da offrir sotto le evidenti diversità un nucleo comune, si rivela funzionale a un giudizio teologico sulle religioni che, anche esso, evada dagli opposti costituiti, da un lato, dalla demonizzazione senza appello, dalla denuncia del totale non senso delle forme religiose altre e diverse dalla cristiana, e, dall’altro lato, dal riconoscimento delle religioni come altrettante vie ugualmente valide nel loro condurre all’Assoluto e nel loro offrire salvezza.
Una posizione, quest’ultima, propria – seppur in forme diverse – della cosiddetta teologia pluralista delle religioni cui Ratzinger dedica particolare attenzione nel corso dei suoi studi e del suo magistero. Affermatasi gradualmente fin dagli anni cinquanta, ma impostasi negli anni ’90 in particolare con J. Hick e P. Knitter, la teologia pluralista delle religioni per Ratzinger riveste il posto che negli anni 80 rivestiva la teologia della liberazione. Se da un lato la teologia pluralista delle religioni appare come un prodotto tipico del mondo occidentale e delle sue concezioni filosofiche, ed in particolare del relativismo come filosofia dominante, dall’altro lato, per Ratzinger, si pone in continuità con le intuizioni religiose e filosofiche dell’Asia, soprattutto con quelle del subcontinente indiano. Per dirla – sempre con Ratzinger – in altri termini, la filosofia post-metafisica dell’Europa si collega meravigliosamente alla teologia negativa dell’Asia, ed è – anzi – proprio il collegamento tra questi due mondi ciò che determina agli occhi del Nostro la sua particolare influenza sul momento storico che stiamo vivendo.
Orbene, funzionale a una denuncia della teologia pluralista delle religioni appare la riflessione storica e più precisamente storico-comparativa sviluppata da Ratzinger in relazione al mondo delle religioni e al posto del cristianesimo in esso. In particolare, funzionale a tale denuncia appare la modalità con cui il nostro Autore ritiene debba essere valutato su base storica il rapporto religione /religioni, ossia il rapporto tra la categoria concettuale di ‘religione’ e le religioni come fenomeni manifestantisi nella storia.
In un contributo – in forma di conferenza – di J. Ratzinger, all’epoca professore di Dogmatica e di Storia dei dogmi all’Università di Münster, in un convegno tenutosi a Tutzing dal 1 al 3 aprile 1966 e organizzato dall’Accademia Evangelica di Tutzing e dall’Accademia Cattolica di Baviera, contributo sul tema Il problema dell’assolutezza del cammino cristiano di salvezza,63 l’Autore afferma che la domanda sul rapporto tra il cristianesimo e le religioni mondiali è diventata oggi una necessità intrinseca per la fede.
In relazione a tale domanda, afferma Ratzinger, la nozione di ‘assolutezza’ del cristianesimo va compresa in relazione alla affermazione che
il cristianesimo non rientra in un generico concetto comune di religione insieme alle altre religioni, cosicché le diverse religioni sarebbero di diverse specie. In realtà noi ci lasciamo continuamente guidare, in maniera più o meno consapevole da quest’idea; anche la dogmatica ne è in gran parte succube, quando per esempio cerca di spiegare l’essenza del sacrificio cristiano in base a un concetto generale di sacrificio, o quello del servizio sacerdotale in base a una comprensione generale del sacerdozio. Contro una simile concezione si devono però sollevare delle obiezioni, non solo in base a considerazioni teologiche, bensì in primissimo luogo già in base a considerazioni puramente fenomenologiche: i fenomeni stessi non rendono possibile alcun concetto di religione che sia comune, continuo, onnicomprensivo. La filosofia della religione qui, volenti o nolenti, rinuncerà alla tendenza generalizzante di ogni filosofia e dovrà accettare la resistenza dei fenomeni che non sono classificabili in nessun genere universale. La religione ateistica del buddismo si oppone a ogni definizione comune con i tipi di religione teistici dell’Occidente. E nessuno ha il diritto di definire ‘religione’ solo quelle occidentali, cosa a cui facilmente tendiamo.64
Ratzinger, affrontando la questione del significato di ‘religione’, prende, dunque, le distanze da quelle posizioni che vedono la religione come un genere di cui le varie religioni sarebbero altrettante specie. Questa assimilazione del rapporto religione/religioni al rapporto genere/specie comporta – infatti – la identificazione all’interno delle religioni di una continuità, di una caratteristica comune universalmente riconoscibile e tale da riproporsi in maniera univoca in tutte loro al di sotto o al di là delle differenze. Il nostro Autore rifiuta questa posizione, in quanto essa non pare render conto delle abissali differenze che la indagine storica e più precisamente storico-comparativa rileva tra di esse.
Chi scrive vede una forte analogia tra la posizione qui espressa dal nostro Autore sul rapporto religione/religioni e la posizione propria della lezione metodologica dello storico delle religioni Ugo Bianchi. Questi, infatti, a fronte di un ampio ventaglio di proposte metodologiche che – pur formulate in ambiti diversi – convergono nel ritenere il rapporto religione/religioni identificabile come un rapporto genere/specie o, detto in altri termini, convergono nel ritenere la nozione di religione come una nozione univoca, tale cioè da esprimere un comune denominatore (sia esso un contenuto oppure una funzione oppure una forma) presente nelle religioni, sempre identico a se stesso accanto alla cangiante gamma delle differenze, ritiene che il rapporto tra religione e religioni non sia identificabile come un rapporto tra genere e specie perché le differenze – rilevabili da una ricerca storica ossia positivo-induttiva – tra le religioni vanno altrettanto nel profondo quanto le loro somiglianze, e le une come le altre – differenze e somiglianze – non appaiono sempre le stesse.
Pertanto, Bianchi afferma essere la nozione di religione non una nozione univoca (e neppure equivoca), ma una nozione ‘analogica’, nel senso aristotelico-scolastico del termine. E, pur riconoscendo il carattere storicamente condizionato della nozione moderna di ‘religione’, la quale pertiene alla storia dell’occidente nutrito di linfa cristiana, in grazia di tale carattere analogico della nozione stessa, ritiene legittimo applicare il termine religione a fenomeni pur lontani dal mondo occidentale e che offrano significative analogie con ciò che in occidente è inteso come religione e con questo termine definito.65
Con il che si ritiene di non dover rinunciare – come invece imporrebbero tendenze decostruttive cui sembra alludere Ratzinger nelle affermazioni poco sopra riportate – a una nozione, quella di religione, per designare contesti altri e diversi rispetto a quello occidentale cristiano ove essa – in parziale continuità con l’humus linguistica latina – si è formata.
Ma torniamo alla riflessione sul rapporto religione vs religioni come sviluppata da Ratzinger nell’ambito dei saggi in questo nostro intervento considerati.
L’attenzione alla prospettiva storica, e più specificamente storico-comparativa, lo porta a evidenziare come le religioni non stiano in un modo statico una accanto all’altra, ma si trovino in un dinamismo storico nel quale diventano anche sfide l’una per l’altra.66 Nate in momenti storici diversi e tali da conoscere dinamiche diverse, non sono equivalenti neanche dal punto di vista dei contenuti, come sopra esplicitato, ma anzi giungono – osserva il nostro Autore – ad essere contraddittorie. Pertanto – si chiede Ratzinger – come possono essere vere e mezzi della salvezza realtà contraddittorie? Una indagine che sia storica e comparativa mostra la insostenibilità di posizioni relativistiche che affermino la uguaglianza delle religioni nel senso del loro offrire – al di sotto e al di là delle differenze – un quid comune a tutte esse, un contenuto o, come si diceva sopra, un denominatore comune. È noto come l’individuazione di un tale denominatore comune sia la base su cui poggiano diverse teorie pluralistiche delle religioni in sede teologica.
Ben si comprende – allora – l’insistenza di Ratzinger su un modello interpretativo del rapporto religione/religioni quale quello che andiamo illustrando.
Ne troviamo conferma nel già sopra citato Saggio introduttivo alla nuova edizione del 2000 del volume Introduzione al cristianesimo, scaturito dalle lezioni tenute da Ratzinger a Tubinga nel semestre estivo del 1967 a uditori di tutte le facoltà. In tale saggio, dal titolo Introduzione al cristianesimo ieri, oggi, domani, scritto nell’aprile del 2000,67 Ratzinger, dopo avere affermato come due date appaiono epocali nel secolo scorso, ovvero il 1967 e il 1989, osserva come i fatti del 1989 fossero l’inizio di una fase per la quale non solo si smise di auspicare la cessazione della religione ma, anzi, si assistette al proliferare della religione in forme diverse. Una “riscoperta della religione”, come la chiama Ratzinger, la quale tende a presentare la religione come “esperienza di vita” e in particolare come “incontro tangibile con il totalmente Altro”; tale idea di ‘religione’, al contempo, offre la caratteristica che Ratzinger denuncia in questi termini:
un po’ ovunque le religioni sono sottoposte oggigiorno a una relativizzazione, per cui, al di là delle differenze o delle contraddizioni, sotto le varie figure a interessare la gente in fin dei conti è soltanto l’aspetto interiore di tutte le diverse forme, l’incontro con l’indicibile, con il mistero nascosto. E vi è accordo sul fatto che questo mistero non si mostra totalmente in nessuna forma di rivelazione, ma rimane piuttosto sparso e frammentario, e tuttavia come unico e medesimo è ricercato e agognato. […] A questa relativizzazione si ricollega l’idea della grande armonia delle religioni, che reciprocamente si riconoscono come modi diversi di rappresentare l’unico Eterno e che dovrebbero lasciare all’uomo la libertà di scegliere quali vie percorrere per raggiungere ciò che le unisce tutte.68
In questo processo di relativizzazione – osserva il Nostro – sono sottoposti a modificazione soprattutto due aspetti fondamentali della fede cristiana, vale a dire la figura di Cristo e il il concetto di Dio.
Per contro, l’indagine storica del mondo delle religioni – per il nostro Autore –, se non lo rivela come una massa indistinta, non lo mostra neppure come tale da offrire un denominatore comune, ma – piuttosto – consente di individuare nella trama complessa della storia del passato e del presente sviluppi storici comuni ossia ‘tipi’ di religioni.
Nella delineazione di questi tipi, Ratzinger si distanzia ancora una volta da tipiche categorizzazioni diffuse in sede teologica o fenomenologica, e propone quale distinzione di base del mondo delle religioni la distinzione tra il tipo delle religioni etniche e il tipo delle religioni universali.
Se ci si sforza di riconoscere degli elementi di contatto nella varietà sconcertante delle religioni mondiali, si può anzitutto distinguere le religioni etniche dalle religioni universali, benché, certamente, anche le religioni etniche siano caratterizzate da modelli fondamentali comuni che, a loro volta, sono in modo diverso legati alle grandi tendenze delle religioni universali.69
In queste ultime, ché parlando di incontro delle religioni, è a questo ambito che occorre rivolgersi,
allo stato attuale della ricerca, possiamo distinguere due tipi fondamentali, che J.-A. Cuttat ha cercato di caratterizzare con i concetti di ‘interiorità’ e ‘trascendenza’ e che qui, a partire dal loro centro concreto e anche dall’atto centrale del loro culto, mi permetto di contrapporre, certamente con una qualche semplificazione, come tipo teistico e tipo mistico. Per l’ecumenismo delle religioni, se queste diagnosi sono corrette, si offrono due vie: si può tentare di accogliere il modello teistico in quello mistico, considerando quindi il modello mistico come il più ampio, in cui anche l’eredità teistica può trovare posto, oppure si può tentare di percorrere la via opposta. […] Oggi è entrata in campo una terza alternativa, che vorrei definire ‘pragmatica’: tutte le religioni dovrebbero rinunciare all’interminabile controversia sulla verità e riconoscere la loro vera essenza, la loro effettiva finalità spirituale, nell’ortoprassi, la cui via, ancora una volta, appare chiaramente tracciata dalle sfide del tempo presente. L’ortoprassi potrebbe in fondo consistere solo nel servizio alla pace, alla giustizia e alla salvaguardia del creato. Le religioni potrebbero conservare tutti i loro credi, forme e riti, ma finalizzati a questa giusta prassi: ‘Le riconoscerete dai loro frutti’.70
E ancora, in relazione specificamente a quella fondamentale distinzione tra una visione personale e una impersonale del divino, la quale – come sopra abbiamo voluto documentare – costituisce una delle cifre costitutive del suo approccio al mondo delle religioni, Ratzinger denuncia:
Sembra […] che si vada sempre più sviluppando un orientamento a considerare ambedue le maniere di vedere il divino compatibili e in fondo equivalenti. Il problema, in sostanza, non è se il divino debba essere concepito in modo personale o impersonale. Il Dio che parla e la silenziosa profondità dell’essere sarebbero alla fin fine solo due modi differenti di pensare l’ineffabile al di là di tutte le categorie concettuali. (…) L’adorazione che il Dio d’Israele pretende e lo svuotamento della coscienza, che dimentica il proprio io e si lascia dissolvere nell’infinito, potrebbero essere considerati come varianti di un unico e medesimo atteggiamento di fronte all’infinito.71
‘Guardiamo alla storia effettiva’ (J. Ratzinger)
È ormai evidente come per Ratzinger a tale deriva relativistica occorra opporre una indagine storica e più specificamente storico-comparativa, che compari per distinguere e distingua per comprendere.72 In tale prospettiva metodologica il nostro Autore si pone per affrontare nodi problematici della cultura contemporanea, quali – e con questo esempio concludiamo la nostra riflessione – l’equazione tra monoteismo e violenza, diffusasi a seguito – in particolare – degli studi dell’egittologo Jan Assmann.
Questi, come noto, identifica in quella che lui chiama ‘distinzione mosaica’ il vero spartiacque della storia delle religioni, nel suo introdurre la distinzione tra vero e falso nel mondo delle religioni, una distinzione che gli antichi politeismi non avrebbero conosciuto, al pari della conseguente distinzione tra deus e natura, tra bene e male, peccato e redenzione.
Tali distinzioni nascerebbero, invece, con la introduzione della fede in un Dio unico, non più strumento – al pari degli dei delle religioni politeistiche – di traducibilità interculturale e dunque di legittimazione degli dei altri e delle religioni altre, ma strumento di uno straniamento interculturale nonché di quella carica di odio e di violenza che – per Assmann – si sarebbe sempre tradotta in atto nella storia delle religioni monoteistiche.73 Da qui la necessità – per Assmann – di un ‘ritorno’ all’Egitto, a prima della distinzione mosaica, un ritorno già vagheggiato nelle pagine bibliche e poi espresso nella storia dell’Occidente a partire dal Rinascimento e in particolare con l’Illuminismo.
Alle tesi di Assmann Ratzinger risponde: “guardiamo alla storia effettiva delle religioni politeiste”. Ossia:
Poiché Assmann espone le sue tesi in quanto uomo di scienza, è dunque ad esse che occorre chiedere se siano vere. […] Se si guarda alla storia effettiva delle religioni politeiste, l’immagine da lui abbozzata – in maniera invero abbastanza vaga – appare essa stessa come un mito. Innanzi tutto, già le religioni politeiste sono molto diverse fra di loro.74
E principia una analisi storica e comparativa, in cui non potremo seguirlo passo per passo, che perviene tuttavia a “smitizzare l’immagine di un mondo degli dei così pacifico”, ovvero a dimostrare l’arbitrarietà dell’equazione monoteismo/violenza e politeismo/tolleranza.
Infatti Ratzinger, sul piano delle attestazioni storiche di quei fenomeni propri delle alte culture del mondo antico che furono i politeismi, mostra le differenze tra le diverse realizzazioni storiche del politeismo e attira la attenzione sul fatto che le religioni politeiste “non sono una realtà statica, data una volta per tutte come grandezza in sé sostanzialmente identica, e che si potrebbe ricostruire se lo si desidera. Esse sono comunque sottomesse ad un processo storico, che possiamo osservare in modo particolarmente evidente nella tarda antichità”.75
Un processo storico cui sono sottoposte pure quelle forme narrative, solidali con i (ma non coestensive ai) complessi politeistici, che sono definite ‘miti’:
I miti, che inizialmente esprimono l’esperienza del mondo e della vita, vengono vissuti nel culto e prendono forma nella poesia, perdono – proprio nel corso della loro concreta assunzione di una forma – sempre più credibilità. Lo sviluppo dell’antichità greco-romana mostra in maniera esemplare il processo per il quale la maturazione della coscienza comune inevitabilmente conduce con insistenza sempre maggiore alla domanda, se sia poi tutto vero. La questione della verità non è stata inventata da ‘Mosé’.76
E qui le osservazioni di Ratzinger sembrano echeggiare alcune suggestioni di Pettazzoni,77 mentre lo stesso Ratzinger78 esplicita il debito di tale sua riflessione, circa l’emergere della domanda veritativa nel ‘mondo antico degli dei’, nei confronti di Christian Gnilka.79
Emerge da tale analisi (seppur qui da noi solo abbozzata) dei contesti politeistici del mondo antico e dei loro ‘linguaggi’ mitici una caratteristica metodologica che merita di essere valorizzata: la comparazione, quale strumento di comprensione dei processi storici delle singole culture, è una comparazione non propriamente tra fatti ma tra processi.80
Tale caratteristica di una comparazione che sia fruttuosa ai fini di una sempre miglior comprensione della verità storica delle singole culture e delle loro tradizioni religiose è così ribadita dal Nostro, in occasione di una riflessione su mondo biblico e classicità di fronte del tema della condizione dell’uomo dopo la morte:
Tentando di esaminare a fondo il dato storico-filosofico nella sua coerenza oggettiva, si noterà anzitutto che il confronto (qui greco-biblico) tra le civiltà e i modi di pensare è sotto l’aspetto storico senza senso. Le grandi civiltà e il pensiero da esse scaturito non sono strutture statiche, divise tra di loro da confini ben definiti. La grandezza di una civiltà si manifesta nella sua capacità di recepire, di arricchirsi o di mutare; essa dipende dal fatto di non essere incapsulata in se stessa, ma di possedere una dinamica di crescenza, per la quale è essenziale lo scambio reciproco del ricevere e del dare. Il che significa che riguardo al nostro problema (scil. la condizione dell’uomo dopo la morte) tutte le civiltà e filosofie hanno subito un processo di trasformazione i cui singoli stadi mostrano fra di loro una notevole somiglianza.81
Il nostro compito di storici delle religioni si conclude allorché Ratzinger passa da una indagine storica a una indagine teologica, mettendo a frutto i guadagni di quella.
In particolare, come abbiamo già sopra segnalato, una considerazione differenziata e non omogeneizzante delle religioni, frutto di una indagine storica e storico-comparativa, porta Ratzinger – in sede di giudizio teologico sulle religioni – a valutarne il rispettivo e diverso posto in una storia delle religioni in sé molteplice e variegata. Da qui – afferma Ratzinger – si può misurare la loro vicinanza e lontananza rispetto all’evento-Cristo che ne realizza la determinazione-vocazione storica, il loro essere in misura diversa “prov-visorie (vor-läufig) e quindi pre-corritrici (vor-läuferisch) rispetto al cristianesimo”.82 In questo senso vanno valutate positivamente. Il loro lato negativo appare quando esse si sottraggono alla propria determinazione finale e rifiutando questa apertura attribuiscono a se stesse la funzione di vie salvifiche compiute e definitive per l’umanità. Per questo, Ratzinger può parlare di un rapporto di sì e di no che lega il cristianesimo alle altre religioni.83
1“Dal 1955 al 1963, nel quadro dei miei corsi di teologia fondamentale a Freising e a Bonn avevo insegnato anche filosofia della religione e storia delle religioni e avevo scoperto l’importanza del tema delle religioni” [J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2005 (prima ed. 2003), 13].
2Si tratta del Saggio introduttivo alla nuova edizione del 2000, con titolo Introduzione al cristianesimo, ieri, oggi e domani, premesso a J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico. Con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 2000 (ed.or. Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, München 1968), ove il Nostro afferma: “Se oggi dovessi riscrivere l’Introduzione al Cristianesimo, non potrei non includervi tutte le esperienze degli ultimi trent’anni e, di conseguenza, non potrei non affrontare con maggior vigore rispetto al passato anche gli interrogativi interreligiosi. Credo, tuttavia, di non aver sbagliato l’orientamento di fondo ponendo al centro della discussione la questione di Dio e la questione di Cristo, che sfocia in una ‘cristologia narrativa’ e indica il ruolo della fede nella chiesa. L’orientamento di fondo, quindi, era a mio avviso corretto” (Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 24).
3Perspicua, al riguardo, per limitarci a una sola citazione, la seguente espressione di E. de Martino [Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 28 (1957), 89-107, 90]: “conoscenza storica delle religioni significa risolvere senza residuo in ragioni umane ciò che nell’esperienza religiosa in atto apparvero ragioni numinose”.
4La prospettiva metodologica qui evocata trova efficace espressione in U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni (Nuovi saggi 75), Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1979. Ad essa fanno riferimento, tra gli ultimi studi al riguardo, G. Casadio (a cura di), Ugo Bianchi. Una vita per la Storia delle religioni, Il Calamo, Roma 2002; G. Sfameni Gasparro, Introduzione alla Storia delle religioni (Manuali di base 55), Laterza, Roma-Bari 2011, e M.V. Cerutti, Storia delle religioni. Oggetto e metodo, temi e problemi, EDUCatt, Milano 2014.
5Tale propspettiva appariva già efficacemente delineata nelle parole di R. Pettazzoni, Il metodo comparativo, «Numen» 6 (1959), 1-14, 10-11: “In sede metodologica si tratta di vedere se la comparazione non possa essere altro che una meccanica registrazione di somiglianze e differenze, o se non si dia – invece – una comparazione che, superando il momento descrittivo e classificatorio, valga a stimolare il pensiero alla scoperta di nuovi rapporti e all’approfondimento della coscienza storica”.
6P. Coda, Sul posto del cristianesimo nella storia delle religioni: rilevanza e attualità di una chiave di lettura, in Aspetti del pensiero teologico di J. Ratzinger, «PATH» 6 (2007), 239-253, 240.
7Coda, Sul posto del cristianesimo, 240-241.
8Nelle sessioni del Concilio Vaticano II – osserva H. Bürkle, Religione o religioni?, in G. Tanzella-Nitti – G. Maspero (a cura di), La verità della religione. La specificità cristiana in contesto, Cantagalli, Siena 2007, 13-34 – si era ancora occupati con altri temi, in particolare quelli legati alla comprensione della rivelazione e al rapporto della Chiesa con la società. Si riconosce ai lavori pionieristici di Ratzinger e agli impulsi del suo pensiero se, riguardo al tema del rapporto del cristianesimo con le religioni non cristiane, non ci si sia limitati – come era il programma originario dei padri conciliari – a varare una dichiarazione sul rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, ma si sia approdati al documento Nostra Aetate che, appunto, mette a tema il rapporto tra il cristianesimo e un più ampio spettro di mondi religiosi (religioni tradizionali, ebraismo, islamismo, religioni asiatiche).
9J. Ratzinger, Der christliche Glaube und die Weltreligionen, in H. Vorgrimler hrsg., Gott in Welt. Festgabe für Karl Rahner zum 60. Geburtstag, Freiburg im Br. 1964, II, 287-305; rist. in J. Ratzinger, Vom Wiederauffinden der Mitte. Grundorientierungen, Freiburg im Br. 1997, 60-82; riproposto con il titolo Einheit und Vielfalt der Religionen. Der Ort des christlichen Glaubens in der Religionsgeschichte, in J. Kard. Ratzinger, Glaube – Wahrheit – Toleranz, Freiburg im Br. 2003, 14-37. Il contributo in questione è stato tradotto in italiano come La fede cristiana e le religioni del mondo, in Orizzonti attuali della teologia, Roma 1967, II, 319-347, e successivamente riproposto, come primo capitolo, dal titolo Unità e molteplicità delle religioni. Il posto della fede cristiana nella storia delle religioni, in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 13-43.
10Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 15-16. I corsivi sono nostri.
11E in molti altri luoghi ove il Nostro utilizza tale espressione. Un esempio: “In verità “Dio” (anche nell’ambito della fenomenologia della religione) è qualcosa d’altro dagli “dei”[…]” (Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 35).
12Possiamo, qui, solo ricordare come il rapporto tra indagine storica e indagine fenomenologica fosse stato messo a tema – a partire dagli anni venti del secolo scorso – da R. Pettazzoni, il quale riteneva che la indagine storica e più specificamente storico-comparativa e quella fenomenologica dovessero costituire i due corni di una “scienza delle religioni” integrale, laddove il discepolo di Pettazzoni, U. Bianchi, riprendendo e ulteriormente articolando tale posizione, ma anche in parte prendendo le distanze da essa, avrebbe parlato della fenomenologia religiosa come di un capitolo della storia delle religioni, ossia, secondo altra formulazione, della necessità che l’indagine fenomenologica fosse costantemente controllata da quella storica. Usiamo qui l’espressione “scienza delle religioni” nella specifica accezione che essa assume in R. Pettazzoni, distinguendoci in ciò da un uso non meglio precisato, o piuttosto, da un uso della stessa espressione come somma di approcci metodologici diversi al fatto religioso e ai fatti religiosi, quale trovo, ad esempio, in Coda, Sul posto del cristianesimo, 242, che parla di “metodo (molteplice) della scienza delle religioni”.
13Coda, Sul posto del cristianesimo. Di tale studio non condividiamo, tuttavia, alcune affermazioni circa i rapporti tra teologia delle religioni, storia delle religioni e fenomenologia delle religioni. Afferma, infatti, lo studioso: “L’una e l’altra […], scienza delle religioni e teologia, non hanno che da guadagnare da un utilizzo incrociato, e scevro da pregiudizi scientisti o fondamentalisti, dei loro rispettivi metodi” (Coda, Sul posto del cristianesimo, 242). Ritengo che l’utilizzo non possa essere incrociato ma possa essere soltanto a senso unico, ovvero che la teologia delle religioni possa servirsi dei dati forniti dalla storia delle religioni o più in generale dalla scienza delle religioni, ma non viceversa. Infatti, teologia delle religioni e storia delle religioni partono da orizzonti diversi e procedono con metodi diversi, deduttivo la prima, a partire da un orizzonte di fede (come deduttivo è il metodo della filosofia delle religioni), induttivo la seconda, a partire dall’orizzonte storico variegato delle molteplici manifestazioni che, con termine problematico e che comunque essa – la storia delle religioni – farà oggetto di indagine, sono comunemente definite “religiose”. Problematica, poi, troviamo questa ulteriore affermazione di Coda, Sul posto del cristianesimo, 243: “In questa chiara e articolata impostazione metodologica [n.d.r.: quella di Ratzinger, che l’A. aveva precedentemente esposto], trovano posto, al loro proprio livello d’esercizio, la fenomenologia, la storia e la teologia delle religioni. In tal modo, in particolare, è inoltre destituito di fondamento critico e scientifico, sin dal principio, ogni approccio che assolutizzi uno soltanto di questi metodi a detrimento degli altri: con ciò stesso, in definitiva, contravvenendo a una positiva configurazione e a un proficuo utilizzo del metodo stesso che indebitamente viene assolutizzato”. Di fatto, la Storia delle religioni, ché di questa intendo qui parlare, nel momento in cui offre un oggetto specifico e un metodo cosciente per analizzarlo, ha una posizione assoluta, nel senso di “sciolta”, ovvero ha una sua autonomia rispetto quantomeno ad approcci quali quello della filosofia delle religioni e della teologia delle religioni, pur servendosi (e per questo si parla di una “autonomia relativa”) dell’ausilio di discipline altre e diverse e in particolare di quelle che un tempo definite discipline ausiliarie della storia sono assurte a dignità di discipline autonome (ad es. numismatica, epigrafia, e così via).
14Afferma, infatti, Coda (Sul posto del cristianesimo, 243): “A cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60 del secolo scorso, Ratzinger ha giustamente di mira un’estensione impropria del metodo fenomenologico come quello che – assai diversamente dalle intuizioni originarie dei suoi propugnatori nello studio del fatto religioso […] – permetterebbe di accedere a una comune “esperienza spirituale” per sé costituente il nucleo sorgivo e comune di tutte le tradizioni religiose, che dunque non farebbero altro che rappresentarne una diversa e alla fine congruente e complementare traduzione storica. Così che, per usare il calzante esempio portato da Ratzinger per illustrare tale posizione, “la diversità delle religioni assomiglia alla diversità delle lingue, che sono traducibili l’una nell’altra, perché fanno riferimento alla stessa struttura di pensiero” [n.d.r. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 24]. La plausibilità di una simile tesi, che si fonda in ultima istanza su un dato incontestabile: quello dell’esperienza religiosa come fatto universalmente umano, mostra però il suo carattere ideologico nel fatto che praticamente destituisce di rilevanza e di portata le oggettive differenze tra le diverse esperienze e le diverse tradizioni religiose. Destituendo così di rilevanza e di portata la storia e, di concerto, la rivelazione di Dio in essa. Con ciò, a ben vedere, non solo, in primis, è messa in questione l’originalità ebraico-cristiana, ma anche – direi di conseguenza – l’originalità di ogni altra autentica esperienza e tradizione religiosa, negando la possibilità e il significato di una qualunque storia delle religioni”. Osserviamo, peraltro, come non sembri condivisibile la distinzione qui delineata da Coda tra intuizioni originarie (quali quelle, come precisa lo stesso Coda (Sul posto del cristianesimo, 243, n.8), di Max Scheler, G. van der Leeuw, G. Widengren, H. Duméry) ed estensione impropria delle premesse proprie del metodo fenomenologico, il quale invece, ci pare, e già a partire da colui che in un qualche senso fu l’anticipatore della fenomenologia religiosa, ossia R. Otto, nella tensione alla ricerca di una univoca essenza del fatto religioso viene appunto a misconoscerne le diverse declinazioni storiche. U. Bianchi – alla cui lezione metodologica qui specificamente ci riferiamo – manifesta insoddisfazione per una certa modalità fenomenologica (oltre che psicologistica) di affrontare la religione, riducendola – in maniera troppo rapida e generica – a religiosità, ovvero a ‘senso del sacro’ – nello specifico con Otto – oppure a connaturata apertura dell’uomo in quanto tale al trascendente. Tali impostazioni – infatti – rischiano di far perdere di vista la specificità delle religioni e dunque anche del fatto cristiano stesso. Per Bianchi ogni impostazione fenomenologica deve essere controbilanciata o comunque attende sempre di essere integrata da una contestualizzazione storica.
15Di tale autore è in corso di pubblicazione l’Opera Omnia (12 voll.) per i tipi dell’editore milanese Jaca Book e a cura di N. Spineto. Per un confronto tra metodo della storia delle religioni e metodo della antropologia religiosa, in relazione in particolare alla produzione scientifica di Ries, ci permettiamo rinviare a M.V. Cerutti, Storia delle religioni e antropologia religiosa, in N. Spineto (a cura di), L’antropologia religiosa di fronte alle manifestazioni della cultura e dell’arte, Jaca Book, Milano 2009, 115-126.
16Non è questo il luogo per una disamina dei rapporti personali ed epistolari tra Ratzinger e Ries, rapporti culminati – se così ci è consentito esprimerci – nel conferimento a Ries da parte di Ratzinger della berretta cardinalizia, il 23 febbraio del 2012. In una intervista raccolta da Lorenzo Fazzini (Avvenire, 15 febbraio 2012) Ries afferma di Ratzinger: “L’ho incontrato più volte, ad esempio al Meeting di Rimini. E già nel 1978 mi aveva omaggiato di un suo libro sull’escatologia con questa dedica: «Al grande storico delle religioni Julien Ries»”.
17Una universalità che essa viene ad affermare per via deduttiva, a partire dalla nozione – appunto – di homo religiosus, laddove la storia delle religioni – in particolare secondo la lezione metodologica di Bianchi – viene ad affermare l’universalità del fatto religioso (e parla della religione come di un “universale storico” o “universale concreto”) per via induttiva, a partire da una analisi di tipo storico e comparativo e da una nozione di religione di tipo analogico e non univoco, come sopra illustravamo.
18In tal senso va anche la critica di Bianchi alla fenomenologia religiosa alla Otto e alla antropologia religiosa, allorché lo storico delle religioni italiano afferma: “il concetto di sacro e anche quello di homo religiosus, oltre che generici e perciò in parte arbitrari, specie il concetto di sacro, sono anche fortemente ambivalenti; lo sono non soltanto nel senso di quell’ambivalenza posta dall’Otto tra l’aspetto fascinans e quello tremendum del sacro, ma anche nel senso che la pretesa uniformità sostanziale della percezione del sacro nelle diverse religioni e culture impedisce una valutazione sia storica che teologica del processo evolutivo e ‘revolutivo’ cui il fatto religioso come ogni altro fatto è disponibile nella storia dell’umanita. In altre parole, non è che nelle diverse forme religiose Dio, o gli dei, o gli spiriti, o altre entità oggetto di credenze, siano percepiti come tali solo tramite la loro appartenenza alla categoria del sacro, oppure siano riducibili a questa, quasi che il sacro si manifesti o esista allo stato puro e in sé e per sé; ma, al contrario, la categoria del sacro costituisce un aspetto dove piu dove meno risultante da quelle diverse concezioni, dalle quali la coscienza religiosa mai prescinde. Dunque, si danno nel concreto varie e diverse forme del sacro, che si riferiscono alla diversità dei contenuti di credenza” (U. Bianchi, Tra mondo e salvezza. Problemi del cristianesimo di oggi, Vita e Pensiero, Milano 1979, 215).
19Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 23-24.
20Ibidem, 24.
21Ibidem, 25-26.
22Ibidem, 26.
23Ibidem, 26-27.
24Ibidem, 27.
25Per l’elenco delle attività accademiche (corsi, seminari, colloqui e conferenze accademiche) svolte dal Professor J. Ratzinger nelle Università tedesche, si veda G. Valente, Ratzinger Professore. Gli anni dello studio e dell’insegnamento nel ricordo dei colleghi e degli allievi (1946-1977), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008. Se ne evincono (ibidem, 189-196) le seguenti tappe accademiche: Rheinische Friedrich-Wilhelms – Universität Bonn – Facoltà di Teologia cattolica (semestre estivo 1959-semestre estivo 1963); Westfälischen Wilhelms-Universität Münster – Facoltà di Teologia cattolica (semestre estivo 1963-semestre estivo 1966); Eberhard-Karls-Universität Tübingen – Facoltà di Teologia cattolica (semestre invernale 1966-1967 – semestre invernale 1969-1970); Universität Regensburg – Facoltà di Teologia cattolica (semestre estivo 1970-semestre estivo 1977). Il 24 marzo 1977 è nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e è creato cardinale da Paolo VI nel Concistoro del 27 giugno dello stesso anno. Il 25 novembre del 1981 è chiamato a Roma come nuovo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il 19 aprile del 2005 è eletto Pontefice con il nome di Benedetto XVI. L’11 febbraio 2013 comunica la sua rinuncia al ministero petrino (a partire dal 28 febbraio dello stesso anno). Quanto ai corsi di Storia delle religioni tenuti da Ratzinger negli anni della sua attività accademica, vanno ricordati i cicli di lezioni tenuti a Bonn nell’ambito del corso di Teologia Fondamentale. Fu negli anni di Bonn che conobbe l’indologo Paul Hacher, che si trasferì pure lui a Münster poco dopo il trasferimento di Ratzinger, il quale riconobbe di essergli debitore in più punti nell’ambito della storia delle religioni (J. Ratzinger-Benedetto XVI, La mia vita. Autobiografia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 112-113). Ch. Gnilka attesta (in una comunicazione personale in forma di lettera datata al 25.2.2014) l’importanza – quanto agli studi di Ratzinger sulle religioni – dell’ “influsso di Paul Hacker, professore di indologia, scienziato di ottima reputazione, convertito, grande figura nella battaglia contro la decadenza del cattolicesimo negli anni dopo il concilio (per me maestro in un senso molto profondo), che fu collega di Ratzinger a Bonn e dopo a Münster”.
26Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 28.
27Ibidem.
28Ibidem, 31.
29Ibidem, 31-32.
30Ibidem, 32.
31Ibidem, 33, nn. 19 e 20.
32Edizioni Scientifiche Einaudi, Torino 1955.
33Come rileva Coda, Sul posto del cristianesimo, 246.
34W. Schmidt, Der Ursprung des Gottesidee. Eine historisch-kritische und positive Studie, 1-12, Aschendorff, Münster 1912-1955. Per un approccio critico, si veda – ad esempio – Sfameni Gasparro, Introduzione alla Storia delle religioni, 81-95.
35Parlando della contrapposizione tra monoteismo e mistica, Ratzinger afferma che da tale contrapposizione sono escluse “a priori due forme di monoteismo: anzitutto le diverse forme di fede in un Dio che si possono incontrare nell’ambito primitivo e che non entrano nella dinamica storica delle grandi religioni; poi quel monoteismo evolutivo, quale si è andato formando fin dal Medioevo, diciamo, nell’India. Il monoteismo dell’India si distingue da quello di Israele per due motivi: in primo luogo esso è ordinato alla mistica, il che significa che tende al monismo e appare così solo uno stadio preliminare di quanto è più definitivo, vale a dire dell’esperienza dell’in-distinzione; in secondo luogo è sorto non, come in Israele, attraverso una rivoluzione, ma tramite l’evoluzione, e questo ha come conseguenza che non è giunto mai alla caduta degli dei, ma piuttosto a diverse forme di amichevole accomodamento tra Dio e gli dei, tra la fede in un solo Dio e quella in una pluralità di dei” (Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 33).
36Perpicua di tale revisione della nozione pettazzoniana di ‘rivoluzione’ monoteistica appare la critica di U. Bianchi, come sviluppata, ad esempio, in Problemi di storia delle religioni, Edizioni Studium, Roma 1986.
37Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 37.
38Cfr. sul tema e sulle fonti del pensiero di Ratzinger in merito a tale distinzione, Coda, Sul posto del cristianesimo, 247.
39Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 31.
40E specificamente nelle pagine, raccolte sotto il titolo Interludio, scritte nel 2003 da Ratzinger a commento del saggio del 1964 sopra citato, offerto a Karl Rahner, e degli altri più recenti, risalenti agli anni ’90, insieme a quello riproposti in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza.
41Coda, Sul posto del cristianesimo, 247.
42Afferma, infatti (Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 45): “Oggi parlerei piuttosto di «mistica dell’in-distinzione» e di «comprensione di Dio come persona». In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia «Dio», qualcuno che ci sta di fronte – così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (“Dio tutto in tutti”, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’«io» e del «tu» – o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a – e il dissolversi nell’Uno-tutto”.
43Ibidem, 37-38.
44Ibidem, 38, mentre la citazione di Daniélou è – come precisa Ratzinger, ibidem n.26 – tratta dal suo Saggio sul mistero della storia, tr. it., Morcelliana, Brescia 1978 (ed. or. Essai sur le mystère de l’histoire, Seuil, Paris 1953), 121.
45Non è nostro compito dar conto delle disamine sviluppate da Daniélou in merito alle religioni diverse dal cristianesimo e specificamente in merito al paganesimo, al giudaismo e all’Islam. Al riguardo si potrà far utilmente riferimento – oltre a quanto segnalato nella nota precedente – alle seguenti sue opere: Les saints païens de l’Ancien Testament (tr. it. I santi pagani dell’Antico testamento, Queriniana, Brescia 1988), Seuil, Paris 1956; Le mystère du salut des nations (tr. it. Il mistero della salvezza delle nazioni, Morcelliana, Brescia 1954), Seuil, Paris 1948. Né qui ci compete riflettere sull’influsso (così per Juvénal Llunga Muya, La teologia delle religioni. Uno sguardo d’insieme, in G. Lorizio (a cura di), Teologia Fondamentale. Contesti, vol. 3, Città Nuova Editrice, Roma 2005, 53-118, 66) delle distinzioni operate da Daniélou in merito al mondo delle religioni, sul pensiero di H.U. von Balthasar (Das Christentum und die Weltreligionen. Ein Durchblick, Informationszentrum Berufe der Kirche, Freiburg 1979; tr. it., Cristianesimo e religioni universali, Piemme, Casale Monferrato 1987), il quale ritenne necessario operare una fondamentale distinzione tra le religioni di rivelazione (ebraismo, cristianesimo, Islam), che condividono la fede in un Dio creatore personale, e le religioni orientali, per le quali dietro i fenomeni transitori del mondo si nasconde una Realtà divina impersonale, i due gruppi essendo caratterizzati da approcci opposti, ossia da Dio alla persona umana nelle religioni monoteiste, dalla persona umana all’Assoluto divino nelle altre.
46Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 41, che cita Daniélou, Saggio sul mistero della storia, 126.
47Ratzinger – rimandando al Daniélou del Saggio sul mistero della storia, p. 121 – afferma che “la mistica, del resto, condivide questo carattere dell’astoricità con il mito e con le religioni primitive, nelle quali, secondo Mircea Eliade, è tipica «la ribellione contro il tempo concreto, la loro nostalgia d’un periodico ritorno al mitico tempo originario»” (Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 38, mentre la citazione di M. Eliade è tratta – come precisa Ratzinger ibidem n. 27 – da Il mito dell’eterno ritorno, tr. it., Roma 1982, p. 7).
48Ibidem, 39.
49Ibidem, 39, n.28.
50Daniélou, Saggio sul mistero della storia, 123.
51J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, Rizzoli, Milano 2008, 40.
52Distinzioni queste, e quelle che immediatamente seguiranno, per le quali Ratzinger riconosce il suo debito nei confronti di J.A. von Cuttat e in particolare di J.A. von Cuttat, Begegnung der Religionen, Johannes Verlag, Einsiedeln 1956 (tr. it., L’incontro delle religioni, Rocco, Napoli 1958).
53J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 41.
54Ibidem, 46.
55Ibidem.
56Ibidem, 47. Va segnalata la dipendenza, esplicitata da Ratzinger, di sue analisi del buddhismo e della ricerca da parte di questo della verità e della salvezza (ad esempio in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 240 n.23) da H. Bürkle, Der Mensch auf der Suche nach Gott. Die Frage der Religionen, Bonifatius, Paderborn 1996 (tr. it. L’uomo alla ricerca di Dio. La domanda delle religioni, Jaca Book, Milano 2000), 143-160.
57J. Ratzinger-Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 49.
58In particolare von Cuttat, Begegnung der Religionen.
59J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 41.
60Ibidem, 49.
61Fede Verità Tolleranza, 43.
62Ibidem, 27-28.
63Già raccolto, con altri contributi suoi, in J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, tr. it., Queriniana, Brescia 1972 (ed.or., Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie, Patmos Verlag, Düsseldorf 1969), 391-404, e ora riproposto in J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 37-57.
64J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 39-40.
65Cfr. al riguardo U. Bianchi (a cura di), The Notion of ‘Religion’ in Comparative Research. Selected Proceedings of the XVI IAHR Congress, L’ ‘Erma’ di Bretschneider, Roma 1994.
66Si veda l’intervista rilasciata in data 28.11.2003 da J. Ratzinger ad Antonio Socci a commento di Ratzinger, Fede Verità Tolleranza (www.chiesa.espressonline.it).
67Ratzinger, Introduzione al cristianesimo.
68Ibidem, 15-16.
69J. Ratzinger-Benedetto XVI, Molte religioni. Un’unica alleanza. Il rapporto tra ebrei e cristiani. Il dialogo delle religioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2007 (già pubblicato dalle Edizioni San Paolo nel 2000 con il titolo La Chiesa, Israele e le religioni del mondo; ed.or., Die Vielfalt der Religionen und der Eine Bund, Verlag Urfeld GmbH, Bad Tölz 1998), 69.
70J. Ratzinger-Benedetto XVI, Molte religioni. Un’unica alleanza, 70.
71Ibidem, 72.
72Ci piace qui riportare l’efficace suggestione di R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Les Belles Lettres, Paris 1992 (prima ed. 1989), 16: “Il faut comparer pour distinguer, distinguer pour comprendre”.
73Le tematiche sviluppate da J. Assmann, Moses der Ägypter. Entzifferung einer Gedächtnisspur, München – Wien 1988 (tr. it., Mosé l’Egizio, Milano 2001), sono affrontate in particolare in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 223-244.
74Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 230.
75Ibidem, 233. Sul dinamismo dei politeismi come realtà storiche ritorna Ratzinger poco dopo le affermazioni in questione: “Possiamo concludere: il politeismo delle ‘religioni naturali’ non è una entità statica alla quale si possa ritornare in ogni momento” (Ibidem, 237). È evidente che qui si sta contrastando l’auspicio di Assmann di un ritorno – che è una via di fuga – al politeismo, come sopra illustrato. Si osservi anche l’utilizzazione e nel contempo – ci pare – la presa di distanza di Ratzinger dalla categoria di ‘religioni naturali’, una espressione che appare virgolettata nel testo stesso. E prosegue: “Il movimento religioso procede – per quanto sia possibile vedere – in tre stadi, mentre rimane aperto l’interrogativo se il politeismo sia stato preceduto da altri modi di rivolgersi alla divinità” (Ibidem). E di seguito delinea quelli che appaiono i tre stadi di tale movimento, ossia il primo costituito dal politeismo, il quale “si trova sempre più esposto alla critica della ragione, vale a dire all’interrogativo sulla sua verità, che a poco a poco lo dissolve e – dopo una fase della doppia verità (la finzione utile e il sapere degli iniziati) – lo lascia cadere in rovina” (Ibidem). Il secondo, nel bacino del Mediterraneo e più tardi nel mondo arabo e anche in varie parti dell’Asia, costituito dal monoteismo, che “si presenta come la riconciliazione tra ragione e religione: la divinità alla quale giunge la ragione è identica al Dio che si mostra nella rivelazione. Rivelazione e ragione si corrispondono” (Ibidem, 237-238). Ma esiste anche, come faccia opposta di un esito quale quello descritto, che constava della “fusione dell’attesa greca e della sua domanda sulla verità con la risposta cristiana e la sua rivendicazione di verità” (Ibidem, 238), esiste anche – si diceva – nella tarda antichità il tentativo di restaurazione del politeismo attraverso una sua legittimazione filosofica (Ibidem, 238-239).
76Ibidem, 233.
77 R. Pettazzoni, Verità del mito, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 21 (1947/1948), 104-116.
78Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 233-234.
79Ch. Gnilka, Chrêsis. Die Methode der Kirchenväter im Umgang mit der antiken Kultur. II. Kultur und Conversion, Schwabe Basel 1993.
80Tale caratteristica della comparazione, che per essere fruttuosa in sede di studi storico-religiosi deve essere fondamentalmente una comparazione non tra fatti ma tra processi o tra fatti ma in quanto inseriti in processi, appartiene anche alla lezione metodologica di Pettazzoni e di Bianchi. Pettazzoni e Bianchi affermavano doversi attuare la comparazione tra processi religiosi e non tra singoli elementi religiosi, non tra diapositive ma tra filmati. Inoltre Bianchi affermava che la storia è fatta di contatti tra fatti, i quali sono inseriti in processi, contatti di simpatia o di ripulsione, come pure è fatta di influssi esercitati e subiti (Bianchi, Saggi di metodologia).
81J. Ratzinger-Benedetto XVI, Escatologia. Morte e vita eterna, Edizione rinnovata e ampliata a cura di S. Ubbiali (Teologia Saggi), Cittadella Editrice, Assisi 2008 (ed.or., Eschatologie – Tod und ewiges Leben, Friedrich Pustet, Regensburg – Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007), 83-84. E prosegue il Nostro: “In tutte le civiltà troviamo infatti all’inizio la sicurezza mitica del continuo rinnovarsi delle cose, la soddisfatta sazietà dell’al di qua, il desiderio di una lunga vita nella pienezza delle ricchezze e l’assillo di perpetuarsi nei figli e nei figli dei figli. E che non è soltanto la concezione del mondo arcaico dell’Antico Testamento, ma è la visione in tutto e per tutto identica dell’Antica Grecia – Achille preferisce infatti essere mendicante nell’al di qua piuttosto che il re delle ombre, la cui vita è non vita – ed è pure quella dei primi stadi della più spiritualistica di tutte le civiltà, quella indiana […]. Occorre tuttavia aggiungere: ciò nonostante, da nessuna parte la morte viene concepita come morte integrale nel senso più stretto. Ovunque viene supposto un qualche tipo di esistenza ulteriore; il puro nulla non è mai stato pensato. Questa esistenza ulteriore che pure non è vita, ma una strana mescolanza di essere e non- essere, sebbene venga da un lato invocata mediante i riti funebri, è insieme temuta: il defunto, e con lui il nulla, potrebbero irrompere nella zona della vita; per cui i riti funebri sono contemporaneamente riti di difesa che debbono relegare i defunti nel loro mondo. Forme di culto degli antenati o la credenza nei morti esistono da quando esiste l’umanità. La via verso il passato conduce attraverso le tombe (Bachofen)” (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Escatologia. Morte e vita eterna, 84).
82 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 17.
83Ibidem, 19.