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Ror Studies Series | Storia e mistero

J. Ratzinger come Agostino: Religiosità della ragione, laicità della fede. L’attualità di un dibattito antico

Giuseppe Fidelibus

Università “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara

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La correlazione tra ragione e religione viene oggi comunemente stabilita secondo una previa equivalenza: ragione a laicità, fede a religione – salvo muoversi poi in un contesto di significato dove tra queste due equivalenze si arriva a stabilire un rapporto di opposizione, quando non addirittura di contrapposizione in ordine di principio.1 Nell’attuale quadro storico-sociale segnato dal funesto fenomeno del terrorismo internazionale – spesso pretestuosamente motivato in senso religioso – vorremmo provare a ripensare criticamente un tale presupposto alla luce di alcuni passaggi nei quali il teologo J. Ratzinger rilegge il nostro tempo, facendo sua la provocazione di un dialogo critico ad esso pertinente, sebbene situato in un’epoca storicamente distante dal presente. Alcuni passaggi di questa rilettura – lo diciamo esplicitamente – hanno rappresentato, almeno per noi, occasione per una vera e propria scoperta di carattere storico-filosofico e per un’autentica provocazione sul piano teoretico.2

Il contesto, la questione, la prospettiva

Nel corso del suo noto dialogo con J. Habermas, Ratzinger fa osservare:

Nel frattempo non ci spaventa più tanto la paura di una grande guerra, bensì la paura del terrorismo onnipresente, che può colpire e attivarsi in ogni luogo. L’umanità, vediamo oggi, non ha bisogno della grande guerra per rendere invivibile il mondo. I poteri anonimi del terrore, che possono essere presenti ovunque, sono sufficientemente forti da perseguitarci tutti fin nella vita d’ogni giorno, dove permane la minaccia che elementi criminali guadagnino l’accesso a grandi potenziali di distruzione e perciò possano sprofondare il mondo nel caos […] Se il terrorismo è alimentato dal fanatismo religioso, come è, la religione è salvifica e risanatrice, o non piuttosto un potere arcaico e pericoloso, che crea falsi universalismi e perciò induce all’intolleranza e al terrorismo? La religione non deve pertanto essere posta sotto la tutela della ragione e attentamente delimitata?3.

Se la situazione storico-sociale così descritta è attraversata dal pericolo di collusione tra potere e criminalità, ad essere chiamato in causa, più propriamente al cospetto del pensiero, è quello pretestuoso tra fenomeno terroristico e giustificazione religiosa della pratica criminale. L’interrogativo di Ratzinger su un necessario, auspicabile controllo razionale su questa malaugurata strumentalizzazione del religioso ci porta subito al cuore della questione. È lo stesso Habermas che, da filosofo, ce ne propone i termini in ambito odierno:

Le teorie postmoderne concettualizzano le crisi attraverso una critica della ragione: non le descrivono come la conseguenza di un esaurimento selettivo dei potenziali di razionalità comunque insiti nella modernità occidentale, ma come logico risultato del programma di una razionalizzazione spirituale e sociale autodistruttiva. Uno scetticismo radicale nei confronti della ragione è invero originariamente estraneo alla tradizione cattolica.4

Insomma, nell’articolata congerie delle posizioni di marca postmoderna, per una seria critica della ragione, non appaiono percorribili né la via dello scetticismo radicale – piuttosto imperante – nei confronti del suo potenziale né quella che fa leva su un suo presunto potere onnicomprensivo. Il filosofo tedesco riconosce però, in tale contesto, alla tradizione cattolica una posizione realisticamente aperta ed alternativa ad entrambe quelle vie. Il teologo J. Ratzinger sembra aprire, a questo punto, una prospettiva di dialogo nell’orizzonte critico dischiuso da Habermas.5 Egli scoraggia subito ogni tentativo di appoggiarsi ad una qualche forma di dogmatismo religioso, facendo osservare:

Ci sono patologie nella religione che sono assai pericolose […] Ma […] esistono patologie anche nella ragione (cosa che all’umanità oggi non è altrettanto nota); una hybris della ragione, che non è meno pericolosa […] Di conseguenza parlerei della necessità di un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente.6

Niente scappatoie, dunque. Il vero snodo teoretico è situato laddove sia possibile questa chiarificazione a tutto campo per un riconoscimento reciproco. Ne deriva subito un richiamo provocatorio alla stessa tradizione cattolica evocata da Habermas. L’asse portante di questa reciproca chiarificazione coinvolge a pieno titolo – a detta di Ratzinger – l’essenza stessa del cristianesimo ed il suo eventuale apporto ad un tale riconoscimento reciproco. L’operazione appare però tutt’altro che scontatamente facile. Questo asse, segnato dal dialogo tra religione e ragione in ambito odierno, investe infatti il cristianesimo sul piano di quella che viene indicata come una sua, storicamente inedita, crisi di identità; la crisi, appunto, della sua intrinseca pretesa alla verità. Ora, nella produzione culturale dell’allora Cardinale la messa a tema di questa crisi precede il dialogo del 2004.7 Il nucleo interrogativo di fondo è se in questa crisi dell’umanità, ove emerge la divisione tra ragione e religione con le loro rispettive “patologie”, possa ancora avere un senso ragionevole la nozione di cristianesimo come religio vera. “Questa crisi – fa osservare Ratzinger – ha una doppia dimensione: innanzitutto ci si domanda con sempre maggiore insistenza se sia giusto, in fondo, applicare il concetto di verità alla religione, in altri termini, se sia dato all’uomo conoscere la verità propriamente detta su Dio e le cose divine”.8 Si direbbe che, per l’autore, l’epoca della crisi della ragione costringa la religione (ma a maggior ragione il cristianesimo) ad una serietà di verifica quanto al suo intrinseco contenuto veritativo. La possibilità stessa della collaborazione e del riconoscimento tra fede e ragione viene, così, fatta dipendere dalla verifica della fede nella tradizione cattolica in modo da venire a capo – ragionevolmente e senza sotterfugi apologetici – della “sua” crisi: quella, appunto, della sua intrinseca pretesa alla verità. È problema premesso – storicamente e teoreticamente – ad ogni possibile sviluppo nel dialogo: “Come si vede, dietro tutti i vari problemi, l’autentico problema è quello della verità. Si può conoscere la verità? O il problema della verità nell’ambito della religione e della fede è puramente e semplicemente inappropriato? Ma, allora, che cosa significa la fede, che cosa significa positivamente la religione se non può entrare in rapporto con la verità?”.9 Così impostata, la posizione del teologo cattolico di fronte alla proposta del filosofo appare particolarmente esigente più con la religione che neanche con il lavoro della ragione. D’altra parte la preminenza data alla questione della verità in fatto di religione è ritenuta conditio sine qua non del suo effettivo contributo a questo lavoro: il dialogo tra ragione e fede non è autoreferenziale ma si dà, per la seconda, come subordinato ed aperto all’ordine superiore della verità. Se dunque il primo servizio della religione al dialogo con la ragione dipende dalla verifica della sua verità, d’altro canto senza previo credito dato alla verità, la fede potrà solo contagiare patologicamente lo sforzo già oneroso e criticamente infragilito dell’odierna ragione. Il ché equivale a ritenere che fuori dalla verifica della sua verità, la religione non potrà pretendere per sé l’ascolto dall’umana ragione: la cecità della religione quanto al vero non farebbe bene alla ragione. Il riferimento suggestivo alla parabola buddhista dell’elefante e dei ciechi viene efficacemente applicato da Ratzinger allo stato della questione nell’uomo contemporaneo.10 Egli ne ricava utilmente un quadro della situazione per cui

la disputa tra le religioni sembra agli uomini di oggi come questa disputa tra ciechi nati. Poiché sembra che di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi. Per il pensiero contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una prospettiva più favorevole rispetto alle altre religioni, anzi: con la sua pretesa alla verità, sembra essere particolarmente cieco di fronte al limite di ogni nostra conoscenza del divino, sembra caratterizzato da un fanatismo particolarmente stolto, che incorreggibilmente scambia per il tutto la porzione toccata nella sua propria esperienza […] L’uomo non può rassegnarsi a essere e restare, quanto a ciò che è essenziale, un cieco nato. L’addio alla verità non può mai essere definitivo.11

L’apparente indifferenza della ragione a tal questione o l’illusoria soddisfazione di non doverci fare più i conti non sono una soluzione del problema, esse denotano piuttosto uno stato patologicamente ingannevole della ragione in se stessa. Il teologo J. Ratzinger vede invece in tale situazione l’occasione per riproporre la domanda sulla verità del cristianesimo, dunque sulla sua originaria “pretesa” nell’ambito del variegato universo delle religioni. Riandare criticamente al fondamento di questa peculiarità comporta non solo mettere a tema la radice della sua “crisi” odierna ma, al contempo, affrontare senza timore “le diverse istanze che sono state sollevate contro la rivendicazione, da parte del cristianesimo, della verità nel campo della filosofia, delle scienze naturali, della storia”.12

Attestarsi, dunque, sui fondamenti originari della sua pretesa risiede, a detta del teologo tedesco, il miglior servizio del cristianesimo a quella “reciproca chiarificazione” tra ragione e fede, tra ragione e religione, necessaria per “riconoscersi reciprocamente” in un dialogo costruttivo e non-falsificante nell’attuale contesto problematico. È questa la modalità con cui il teologo J. Ratzinger corrisponde all’appello del connazionale filosofo J. Habermas: seguire un “processo di argomentazione sensibile alla verità” ed attenervisi – una modalità che impressiona per onestà intellettuale oltre che per effettivo rigore teoretico. Ora, ci risulta quanto mai significativo e davvero spiazzante il fatto che, per svolgere una tale operazione, Ratzinger attinga lumi da un antico dibattito, seguendo il quale perviene alle sue conclusioni propositive sul presente.13 Trattandosi della pretesa di verità in ambito “religioso”, si sarebbe portati a pensare subito al noto ed innovativo saggio filosofico agostiniano dall’eloquente titolo De vera religione, sicuramente pertinente all’argomento?! Ed invece…

Quel testo illuminante del cristianesimo antico

Ci troviamo spostati su ben altro terreno dell’immensa mole dell’opera agostiniana: “Che io sappia – esordisce cautamente nella sua conferenza del 1999 alla Sorbona – non esiste alcun testo del cristianesimo antico che getti sulla questione tanta luce quanto il confronto di Agostino con la filosofia religiosa del «più erudito tra i romani», Marco Terenzio Varrone”.14 Tale confronto ha luogo nelle pagine che occupano i libri IV, VI e VII del De civitate Dei con riferimento alle Antiquitates, opera nella quale il reatino raccoglie con sistematicità l’intero patrimonio teologico-religioso dell’antichità. La tripartizione sostanziale di tale patrimonio in theologia mythica, theologia civilis e theologia naturalis (physiké) è data secondo 4 parametri di fondo: i rispettivi teologi competenti (i poeti, i popoli, i filosofi), le relative sedi ove vengono coltivate (il teatro, l’urbs, il kósmos), il contenuto appropriato (le favole sugli dèi, il culto relativo, la domanda su chi sono gli dèi) ed infine le realtà che esse indicano (alle prime due corrispondono le istituzioni divine degli uomini, la teologia naturale invece si occupa della “natura degli dèi). Stando a simili parametri – l’ultimo, in particolare, relativo alle res su cui vertono – la conclusione di Varrone, sottolineata dal vescovo d’Ippona e messa a profitto da Ratzinger, è duplice. In prima istanza

tutta la differenza si riduce a quella che c’è tra la fisica nel significato proprio dell’antichità classica e la religione cultuale dall’altra parte (…) Così religio (termine che designa essenzialmente il culto) e realtà, la conoscenza razionale del reale, si configurano come due sfere separate, l’una accanto all’altra. La religio non trae la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica. È un’istituzione di cui lo Stato ha bisogno per la sua esistenza.15

D’altra parte, il dio dei filosofi (Varrone adotta l’espressione stoica di anima mundi in una tendenza fortemente monoteistica, sebbene affissata sulla nozione greca di kósmos) non si dà come oggetto di religio/culto, ragion per cui

verità e religione, conoscenza razionale e ordinamento cultuale sono situati su due piani totalmente diversi. L’ordinamento cultuale, il mondo concreto della religione, non appartiene all’ordine delle res, della realtà come tale, ma a quello dei mores – dei costumi. Non sono – conclude Ratzinger – gli dèi che hanno creato lo Stato, è lo Stato che ha istituito gli dèi, la cui venerazione è essenziale per l’ordinamento dello Stato e per il buon comportamento dei cittadini. La religione è nella sua essenza un fenomeno politico.16

In un tale regime dualistico di pensiero non si sfugge, oggi come allora, ad un’insana alternativa tra la “tendenza alla depoliticizzazione dei cittadini” (Habermas) per via filosofica e quella alla debilitazione del razionale per via religiosa (Ratzinger). Così, mentre lo spazio cosmico della teologia naturale si libra su di un cielo astratto dalla vita della civitas ed i filosofi non hanno diritto di cittadinanza né alcuna competenza sulla pubblica piazza, la vita dei popoli viene consegnata, col culto, alla teologia di stato, lasciandosi così beare dal contenuto delle favole sugli dèi, create dai poeti in funzione del potere politico. Il quadro che ne scaturisce è quello di una duplice contrapposizione d’analogia: quella tra verità e religione e quella tra ragione e culto. In tale contesto di significati J. Ratzinger ravvisa l’esautoramento del religioso, identificato ormai col culto tout-court, dal terreno della realtà (res). Ciò che risulta dall’eredità del dialogo tra Agostino e Varrone è la concezione di un ordinamento giuridico della città (dunque del politico correlato) che poggia tutto sul congedo del culto e della religione corrispettiva dall’istanza normativa di verità; per converso, questa si vede delegittimata proprio sul terreno fondativo su cui viene fatta poggiare la vita della civitas. La fondazione della città sta sotto il segno di un’immunizzazione di principio dalla norma del vero. Il ché equivale a riconoscere che il contesto politico e quello religioso-cultuale rifuggono così (ed è qui che viene individuato il motivo attualizzante di quel dibattito in ordine al “nuovo” odierno) da ogni “processo di argomentazione sensibile alla verità”. Sostenere o “rivendicare” qualsivoglia forma di diritto non è più competenza della ragione bensì di una politica privata di ogni controllo razionale e di una religione cui è coessenziale l’elemento mitico-irrazionale. In questa direzione – almeno così a noi pare di poter riconoscere – Ratzinger imprime, con la sua “critica della religione”, un rinnovato vigore alla verifica dell’attuale statuto critico della ragione stessa. Ciò che evidenzia di quel dibattito è che ad un diritto senza verità viene fatto corrispondere una verità senza diritto di cittadinanza politica: la ragione si vede esautorata per via politica una volta identificata – questa – con l’intero suo apparato mitico-religioso. È quanto il vescovo cristiano Agostino è messo in grado di rilevare sulla scorta delle ricerche del pagano Varrone: mentre le sorti della città sono sottratte alla competenza del lavoro della ragione ed al contatto legittimante della verità, il potere dello Stato si autolegittima nell’uso ideologico-funzionale della religione. Una tale consacrazione “teologica” della divisione tra ragione e città si vede esplicitamente derivata da un principio di potere e realizza a tal fine, legittimandola in linea di principio, una concezione strumentale della ragione. Il campo della pratica religiosa si rende infatti immune dalle esigenze normative di una conoscenza razionale al servizio della verità. Sta qui la fonte della disagevole posizione di pensiero nella quale si viene a trovare il reatino di fronte alla plurisecolare tradizione religiosa greco-romana. La tripartizione delle competenze “teologiche” nella sistematizzazione varroniana della tradizione antica risuona, al tempo stesso, teoreticamente disagevole ma anche ragionevolmente provocatoria per i nostri tre soggetti in parola: Varrone ne soffre l’irrazionalità evidente e le vistose aporie epistemiche17, Agostino ne fa occasione per mostrare la ragionevolezza e la pertinenza della proposta cristiana18, Ratzinger vi trae un’eloquente lezione sull’argomento per il nostro tempo.

Torniamo dunque ad Agostino – invita il teologo tedesco nel suo saggio. Dov’è che egli situa il cristianesimo nella triade varroniana delle religioni? Quello che stupisce è che senza la minima esitazione Agostino attribuisce al cristianesimo il suo posto nell’ambito della “teologia fisica”, nell’ambito della razionalità filosofica. Si trova così in perfetta continuità con i primi teologi del cristianesimo, gli Apologisti del II secolo […] Il cristianesimo ha, in questa prospettiva, i suoi precursori e la sua preparazione nella razionalità filosofica non nelle religioni.19

Non possiamo lasciarci sfuggire la svolta epistemica, prima che esegetica, che corre lungo il filo di queste osservazioni di J. Ratzinger. La metabolizzazione dell’opera di Varrone per conto di Agostino è parte di quel suo lavoro di ragione con cui prospetta il cristianesimo come l’inizio della possibilità – al contempo di diritto e di fatto – della ragione di avere campo aperto sul terreno della religione come su quello della civitas. Il dibattito tra i due mette a tema, sul piano della conoscenza razionale (filosofia), la verità su Dio, dunque su ciò che viene posto a fondamento della civitas: la “laicizzazione” di questa passa proprio per la demitizzazione del fenomeno religioso ad opera del lavoro della ragione, raccordando, mediante questo lavoro, la fondazione della civitas al problema stesso della “fondazione del mondo”. Agostino “illuminista” è figura suggestiva che Ratzinger individua all’interno di questo dialogo critico nel tardoantico: l’opzione primigenia del cristianesimo a favore della razionalità filosofica antica anziché per il mondo delle religioni costituisce un’acquisizione notevole sul piano storiografico come su quello teoretico. In Agostino – fedele in ciò al cristianesimo delle origini – la ragione viene sorpresa nell’atto del gettare luce nuova su quell’insano dualismo a motivo del quale il politico ed il religioso si sostanziano in un comune regime di immunizzazione e preclusione dalle esigenze del vero. Il vescovo d’Ippona, infatti, richiama a quel divino

che può essere percepito dall’analisi razionale della realtà. In altri termini – aggiunge Ratzinger – Agostino identifica il monoteismo biblico con le vedute filosofiche sulla fondazione del mondo che si sono formate, secondo diverse varianti, nella filosofia antica. È questo che s’intende quando il cristianesimo […] si presenta con la rivendicazione di essere la religio vera. Il che significa: la fede cristiana non si basa sulla poesia e la politica, queste due grandi fonti della religione; si basa sulla conoscenza.20

Le fonti della religione non coincidono con quelle della fede cristiana: né la fantasia mitico-poietica né il potere politico (compresa la sua forma attuale data dal processo democratico) sono a capo della novità di quel fenomeno. Il giudizio del teologo cattolico, recettivo all’insegnamento di Agostino, suggella i termini della “laicità” che connota la sostanza della fede cristiana: se la sua base è la conoscenza allora è la ragione il suo proprio interlocutore. Questo può indicare a miglior titolo la direzione per un processo di declericalizzazione/laicizzazione della civitas e, correlativamente, di legittimazione politica della razionalità filosofica. Risulta così acclarato il significativo contributo che Agostino/Ratzinger danno alla laicità del dibattito in corso.21 Con ciò risalta al contempo la connaturale “laicità” della fede cristiana a confronto con la sostanziale coloritura clericale della religione tardoantica: ciò in forza dell’avvenimento della “laicizzazione” a cui si sottopone il divino medesimo nella persona del Verbo fatto uomo, dentro la congerie ordinaria delle circostanze che corredano la storia. Ne consegue, ora, un’altra acquisizione per il nostro dibattito; essa non sfugge alla considerazione del nostro teologo: “nel cristianesimo, la razionalità è diventata religione e non più il suo avversario. Perché ciò avvenisse, perché il cristianesimo si comprendesse come la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli”.22 Declericalizzazione e demitologizzazione. Si tratta qui della scoperta, affatto scontata, della religiosità della ragione centrata sulla novità della pretesa inedita del “vero Dio”. L’esperibilità di quest’ultimo sul terreno della conoscenza storica costituisce un fattore di purificazione delle possibilità della ragione e, contemporaneamente, di sopraelevazione del suo ambito di competenza. Essa attinge “per se” un terreno che non è “suo” non potendovi reclamare alcun possesso. Se ciò doveva apparire, ai tempi, intollerabile nemico della religione (ateismo) è perché, certamente, il senso della proposta cristiana “non si fondava sulla relatività e sulla convertibilità delle immagini, disturbava perciò soprattutto l’utilità politica delle religioni, e metteva così in pericolo i fondamenti dello Stato, nel quale non voleva essere una religione tra le altre, ma la vittoria del pensiero sul mondo delle religioni”.23 Quanto alla pretesa del “vero Dio” non si tratta appena di “farsi-una-ragione-della-religione” bensì di scoprire il senso religioso della ragione come apertura polarizzata originariamente sulla conoscenza della verità del divino. In questa prospettiva la religiosità non si dà più come indiscriminata indifferenza al vero in nome del servizio nel culto. Entrare conoscitivamente nel merito della verità delle res divinae costituisce il centro affettivo (il “cuore”) del problema delle res humanae: trova così legittimazione epistemica l’indagine teologica, avendo essa trovato davvero la sua propria “res”. D’altro canto, il filosofico domandare greco trova ora su questo terreno conoscitivo – e non più su quello del culto – la sua strutturale dimensione religiosa. Si direbbe dunque che, per Ratzinger, proprio in forza di questa sua “laicità” – centrata sulla ragione – la fede cristiana non entra nel mondo in connivenza con la “religione oppio dei popoli” bensì in sostanziale contestazione critica con essa in quanto formalizzazione destitutiva e degenerativa della dignità della ragione. D’ora in poi e sotto l’azione dell’avvento della fede cristiana la religiosità si connota conoscitivamente e, reciprocamente, la conoscenza scopre la sua originaria connotazione religiosa. Non si tratta più di mettere la ragione in dialogo con la religione ma di riconoscere alla ragione la sua elementare e coessenziale dinamica religiosa; non solo, è proprio qui che risiede la sua capacità di differenziarsi cognitivamente dal mondo mito-poietico delle religioni. A ciò sta in capo l’annuncio di un Dio la cui pretesa di “verità” non solo non rifugge dalle vie dell’umana conoscenza né ad esse si sottrae, anzi esige, per potersi esplicitamente dichiarare e farsi liberamente accettare, il lavoro della sua necessaria verifica che compete alla ragione. D’ora in poi il suo il suo campo d’indagine supera la misura del suo potere, proprio rendendosi oggetto legittimo della sua competenza epistemologica (teo-logia).

Religiosità della ragione, laicità della fede… allora.

Ed ora? Che ne è della lezione di quel dialogo ovvero di quella “vittoria del pensiero sul mondo delle religioni”? La rivisitazione ratzingeriana di quel dialogo fa risaltare subito come storiograficamente e teoreticamente pertinente il dire, già citato, di Habermas: “Uno scetticismo radicale nei confronti della ragione è invero originariamente estraneo alla tradizione cattolica”: se vi è una “radicalità” è quella di una originaria connaturalità della ragione a questa tradizione. Egli stesso ne fa fede nell’oggi quando riconosce come filosoficamente auspicabile per lui quella che fu, storicamente, la corrispondenza alla ragione della “rivoluzione” cristiana nel/per il pensiero tardoantico. Il suo intento in proposito è esplicitamente dichiarato in termini ragionevolmente appropriati a quella che egli stesso denomina “modernità contrita”:

Qui trova oggi risonanza quel teorema secondo cui solo l’orientamento religioso verso un punto di riferimento trascendente potrebbe far uscire dal vicolo cieco una modernità contrita […] Per questo vorrei far entrare nella discussione il fenomeno della persistenza della religione in un ambiente sempre più secolare, assumendolo, però, non in qualità di semplice dato di fatto sociale. La filosofia deve prendere sul serio questo fenomeno, per così dire, dall’interno, assumendolo come una sfida cognitiva.24

Lungi dal confondere una simile istanza con una forma aggiornata dell’antica gnosi, il pronunciamento di Habermas stabilisce piuttosto una condizione essenziale per il dialogo odierno tra fede e ragione, tra la razionalità filosofica ed il mondo delle religioni. “Prendere sul serio questo fenomeno dall’interno” significa appunto, per la filosofia, ritenere la corrispondenza dell’esperienza della fede ad un problema che è-della-ragione come tale; analogamente, assumerlo “come una sfida cognitiva” è recepirne l’essenziale inerenza – senza legittima pretesa ricomprensiva del suo oggetto – allo statuto epistemico proprio della razionalità filosofica. Con ciò il pensatore tedesco incontra favorevolmente il richiamo di J. Ratzinger ad una riscoperta della religiosità della ragione filosofica nella sua originaria apertura interrogativa, apertura tutta attestata, incondizionatamente, sull’esigenza di verità. Se è oggi epistemologicamente conveniente (per “far uscire dal vicolo cieco una modernità contrita”) che la filosofia si appresti ad assumere normativamente, cioè “dall’interno”, questa che è riconosciuta come la sua sfida cognitiva – vale a dire quell’ “orientamento religioso verso un punto di riferimento trascendente” – è altrettanto urgente che la fede cristiana torni a portare (con rinnovate e più urgenti ragioni) il suo contributo originario ed originale al nostro tempo: la laicità della “vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità…) la vittoria del pensiero sul mondo delle religioni”. Come nel dialogo a distanza tra Agostino e Varrone così in quello odierno tra Habermas e Ratzinger l’assetto teoretico-normativo dell’attuale rapporto tra fede e ragione trova il suo fondamento costruttivo nella comune ricerca di questa irrinunciabile, inderogabile “vittoria”. Anziché dichiararsi guerra, perseguire questa vittoria comune. Recepire questa sfida cognitiva comporta, infatti, per la filosofia l’opportunità di trarre profitto – oggi più che allora – da una delle conquiste più alte che la ragione abbia attinto nella storia dagli approvvigionamenti culturali della fede cristiana: nell’economia di quest’ultima la misura e la statura della dignità della ragione coincidono con la sua facoltà di attingere e riconoscere la verità sulle res divinae unitamente alla scoperta del loro nesso con le res humanae. Il quanto mai prezioso e rinnovato incontro tra razionalità e fede operato dalla “vittoria della verità” rappresenta oggi la questione aperta su cui si può decidere profittevolmente la vita del pensiero e dei popoli (politica e società), in un’epoca che vede il proliferare delle conquiste della ragione (la tecnica) da una parte ed il discredito di essa dall’altra (nihilismo e relativismo, postmodernità).

Nel mezzo della crisi della ragione, quella relativa all’intrinseca pretesa cristiana alla verità può trovare ora una qualche possibilità di essere affrontata con ragioni utili ad un dialogo costruttivo ed esente da ogni formalismo. Alla voce di Habermas in ambito filosofico corrisponde quella, altrettanto autorevole, di J. Ratzinger nell’odierno panorama della teologia; quale sarebbe, dunque, la funzione che la fede potrà far valere come conveniente al lavoro della ragione – oggi? Risposta: “Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa. Lo strumento storico della fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che quest’ultima – messa sulla strada della fede – possa vedere di nuovo da se”.25 La risposta insinua la prospettiva per la quale, nella proposta della fede, il lavoro della ragione può trovare un alleato non trascurabile in quel suo “processo di argomentazione sensibile alla verità”. In questa direzione prospettica si può anche verificare la valenza antropologica e la ricaduta socio-politica di un tale auspicabile incontro; lo stesso Ratzinger ce le propone sinteticamente: “L’incontro delle culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte le differenze della sua storia e delle sue creazioni comunitarie, è un identico e unico essere. Quest’essere unico che è l’uomo, nella profondità della sua esistenza, viene intercettato dalla verità stessa”.26 È proprio in questa capacità d’intercettamento dell’umano – nella complessità delle sue dimensioni – che la verità della fede cristiana può dirsi ragionevolmente e adeguatamente comprovata.

Ci si può chiedere ora: a quale condizione essa potrà essere presa sul serio “dall’interno” della razionalità filosofica ed assunta a titolo di una non impertinente sfida cognitiva entro tutte le svariate latitudini culturali ed attraverso l’articolata molteplicità delle traversie esistenziali? Cosa può fare ragionevolmente sperare che la fede si veda liberamente accolta nell’avventura conoscitiva di una ragione in crisi? Nella risposta di Ratzinger si profila una motivazione antropologica anziché un’argomentazione di ordine teologico: ancora la fede potrà far breccia “perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo […] Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito”.27 Nell’assunzione di questa via antropologica come insostituibile istanza metodologica risiede la peculiare laicità della risposta della fede cristiana alla domanda religiosa della ragione, nel mezzo della sua crisi postmoderna e tra le macerie umane del terrorismo dilagante: proprio la risposta su cui J. Ratzinger dischiude il suo magistrale contributo al dibattito in corso. Di essa proviamo, in conclusione, a raccogliere alcuni rilievi metodologici di fondo.

Dischiusure

Ciò che in primo luogo risalta nella proposta di Ratzinger è la necessità di un’opzione primigenia alla quale la fede cristiana è chiamata, in consonanza con la tradizione di pensiero del cristianesimo delle origini di cui Agostino, nel suo dialogo con Varrone, ci è presentato come testimone anticipatore. Tale opzione sovrintende ad ogni prospettiva metodologicamente percorribile: “La fede cristiana è oggi come ieri l’opzione per la priorità della ragione e del razionale […] Con la sua opzione a favore del primato della ragione, il cristianesimo resta ancor oggi “razionalità”, e penso che una razionalità che si sbarazzi di questa opzione significherebbe per forza, contrariamente a tutte le apparenze, non un’evoluzione ma un’involuzione della razionalità”.28 A fronte dell’irrazionalità di miti riemergenti e di slanci religiosi a sfondo emotivo una tale opzione è diretta filiazione di quella convinzione fondamentale per la quale al principio di tutte le cose c’è il moto creativo della ragione (In principio erat Verbum). Così la fede cristiana prendeva e prende le distanze dovute dal mondo mitico delle religioni: la sua confusione con esse è solo – oggi come allora – frutto di grave mancanza di discernimento razionale. C’è tuttavia chi, ai giorni nostri, ha acutamente osservato come “in questa temperie postmoderna, impaurita di sé […] riemerge il basso di fondo di ogni vita che almeno una volta si sia interrogata su se stessa, o sia stata costretta a farlo. Il sentimento della friabilità dell’umano, e questo a dispetto di tutte le utopie di salvezza del moderno affidate alla scienza alla tecnica all’ingegneria sociale della politica; e con esso la fine del mito che l’economia della salvezza potesse essere ristretta al mondo dell’al di qua”29. Al cospetto di una tale sfida la fede deve poter trovare ancora il modo di presentare ragionevolmente la percorribilità attuale della sua originaria opzione per la razionalità. Si potrebbe forse pensare ad un annacquamento di questa sua opzione al cospetto “di ogni vita che almeno una volta si sia interrogata su se stessa, o sia stata costretta a farlo”? Forse che dinanzi a quel “sentimento della friabilità dell’umano” si tratterà di rinunciare – con la pantomima del cosiddetto “aggiornamento” – alla pretesa di verità che il cristianesimo ha rivendicato in obbedienza all’identità del suo Fondatore? Nella ricognizione di simili questioni fatta da Ratzinger la questione sembra ancora più radicale e suona come richiamo ad una maggiore autenticità, suggerendo un’altra fonte di forza persuasiva:

la rivendicazione del cristianesimo di essere la religio vera – ammonisce interrogativamente – sarebbe dunque superata dal progresso della razionalità? Il cristianesimo è dunque costretto ad abbassare le sue pretese e a inserirsi nella visione neoplatonica o buddhista o indù della verità e del simbolo, a contentarsi […] di mostrare della faccia di Dio la parte rivolta verso l’Europa? Questa è la vera domanda alla quale oggi la Chiesa e la teologia devono far fronte […] I problemi delle istituzioni così come delle persone, nella Chiesa, derivano in ultima istanza dal potente impatto di questa questione […] questa provocazione radicale […] non può trovare risposte puramente teoriche, così come la religione, in quanto atteggiamento supremo dell’uomo, non è mai solo teoria. Esige quella combinazione di pensiero e di azione, su cui era fondata la forza persuasiva del cristianesimo dei Padri.30

Nel vasto e variegato supermarket religioso dell’attuale mondo globalizzato si tratta – nell’insegnamento di Ratzinger – di tener viva questa primigenia “forza persuasiva” nell’incontro con la domanda religiosa di ciascun uomo. La “radicalità” della questione (il suo non potere trovare risposte puramente teoriche) consiste nel fatto di toccare il nucleo animatore dell’annuncio cristiano (basato non su sola teoria ma su viva combinazione di vita e pensiero): l’insorgenza storica del lògos nella forma personale del Verbum caro factum est. Ciò stabilisce, metodologicamente, la percorribilità storica dell’opzione cristiana per la razionalità (lògos). La dinamica stessa della razionalità filosofica ne potrà essere intercettata “dall’interno”. Ora e fuori da questa insorgenza la stessa istanza della religio vera perderebbe ogni possibilità di significato per la vicenda temporale dell’esistenza umana. D’altro canto, le movenze più radicalmente critiche – con l’odierna forma nichilistica in pieno mondo globalizzato – sembrano reclamarne ed invocarne l’urgenza anziché perseguirne, in via di principio, la delegittimazione: “in presenza di troppi candidati «veri» ad essere Dio – ha eloquentemente dichiarato E. Mazzarella – e tra questi andrebbe computata anche la sua assenza, la sua negazione nichilistica, non certo il meno potente tra gli dei in circolazione, proverei con una formula a dire che quello di cui abbiamo bisogno è di un’idea «buona» di Dio, piuttosto che di un’idea «vera»”.31 In tale prospettiva il candidato “buono” e quello “vero” rimangono entrambi accomunati nelle sorti di un Dio comunque ipostatizzato in “idea”, dunque esistenzialmente impercorribile dall’uomo ed ordinariamente inaccessibile. Nella proposta cristiana indicata da Ratzinger l’economia del “vero” e quella “del “buono” si presentano, invece, sostanzialmente inscindibili nell’ordine dell’avvenimento che li rende esperibili e, dunque, ragionevolmente “accettabili”. Egli situa la questione su di un piano che è metodologicamente ancor più esigente, oggi, al cospetto del pensiero; si tratta di individuare un’altra via di accesso, che non sia l’idea, sulla quale la ragione sia messa in grado di riconoscere come “buono” il “vero” Dio:

il tentativo di ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassi e sull’ortodossia. Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere, oggi – come sempre, in ultima analisi –, nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e il fine di tutto.32

Con ciò la questione metodologica trova una profittevole dischiusura all’interno della stessa pretesa cristiana alla verità. Nell’agostiniano/cristiano ordo amoris si realizza, infatti, l’unità normativa di verità e bontà. Quest’ultima viene a costituire semplicemente la modalità oblativa ed ostensiva della verità di Dio nei riguardi della ragione e della libertà degli uomini, pluralmente individuabili. Nella giurisdizione dell’ordo amoris la verità stessa non si dà nella modalità della “appropriazione” bensì in quella di un’esperienza di relazione, di un’esperienza che è relazione: ad essa si è liberamente convocati così come si è, senza precondizioni (etiche, culturali, religiose o sociali). D’altro canto, proprio nella dimensione oblativa ed ostensiva dell’unità tra ragione ed amore, tra verità e bontà nell’ordo amoris si rende possibile la scoperta e l’affermazione dell’altro come locus propizio del compimento di sé: non si tratta di “avere in tasca la verità” né d’imporla a chicchessia, ma di sperimentarne – in gusto, piacere e convenienza – la bontà nel farsela, per così dire, regalare per mano dell’altro. Se, per Ratzinger, la verità (su/di Dio) non è questione di “averla-in-tasca”, la (Sua) bontà è tutt’altro che oggetto di umana pretesa. Ciò è intrinsecamente costitutivo della pretesa cristiana alla verità. Si tratta di una pertinente uscita da sé, in un libero esodo dalle proprie misure senza la quale diventa inaccessibile la piena dimensione dell’umana dignità. Sta qui la connotazione totalmente laicale della fede cristiana; la sua stessa forza persuasiva è fatta poggiare interamente sull’esperibilità della bontà e della verità in cui si propone la persona del Verbum. L’avvenimento dell’impatto storico con essa non consiste semplicemente in un prolungamento teologico-religioso della razionalità filosofica bensì la scoperta di un’altra fonte di ragioni per il suo connaturale senso religioso: l’esperienza – non appena “l’idea” – di vedersi incondizionatamente amati nelle dimensioni fontali ed integrali della natura stessa del proprio essere uomini. I connotati che rendono quest’esperienza – che identifica la fede nelle vicende intramondane – riconoscibile come tale al cospetto dell’umana ragione sono: la gratuità della sua origine, la ragionevolezza della sua credibilità umana, la verificabilità storica della sua proposta di vita nell’ordine del presente, la sorprendente familiarità conoscitiva con la realtà – vissuta ed affermata fino al suo senso ultimo. Con simili connotati metodologici la fede cristiana si propone come spazio rivelativo storico per il disvelamento del divino nell’ordine della domanda religiosa dell’umana ragione. Proprio in questa tenuta metodologica della sua esperibilità lo stesso contenuto dogmatico della fede cristiana può sottrarsi laicamente ad ogni clericale riduzione secolarizzante – nelle variegate forme “sacerdotali” dell’odierno mondo globale (cfr. i nuovi clercs dello spazio tecnologico-cibernautico).

È stato obiettato che questo medesimo mondo

può forse fare a meno di un Dio che si incarni nella storia, e che si faccia carico del suo travaglio, che è il presupposto di ogni secolarizzazione “positiva” del divino (è il caso del cristianesimo), ma non può fare a meno di un Dio che la rispetti, che ne rispetti, nell’autonomia, l’autonomia dell’uomo che vi vive, che per la fede, per ogni fede, deve sempre restare un “invitato” alla salvezza, non un coscritto delle “guerre sante”.33

Tra invitati alla salvezza e coscritti di guerre sante, sta di fatto che la storia – quella odierna a maggior titolo di cronaca – annovera tra le sue pagine funeste quelle scritte con sangue sparso “in-nome-di” una fede. Ciò, tuttavia, suona per Ratzinger come una ragione in più per rivisitare criticamente, ai nostri giorni, la questione del metodo che qualifica la proposta della fede cristiana all’uomo d’oggi nel cuore stesso della sua pretesa di verità. Prima di delegittimare indifferentemente (“per ogni fede”), è più ragionevole gettare luce di discernimento critico su una tale questione per rispondere alla domanda: di ché si tratta quando si parla di fede cristiana e del suo dichiararsi religio vera al cospetto di religioni e culture d’ogni specie? Qual è il portato più autorevole del suo dirsi tale al cospetto dei nostri contemporanei? Nel rispondere egli riutilizza – quasi a ridosso dell’inizio del suo pontificato – un termine sintetico che raccorda alla tradizione della fede delle origini e nel cui senso ravvisa l’espressione paradigmatica di questo metodo; di fatto, quella nel quale si svela la sua suprema attualità, la perenne novità del vero che vi si comunica:

Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini.34

La “testimonianza” della novità umana generata dalla fede segna, in Ratzinger, il vertice del suo metodo sulla scena della storia. Il testimone non appare qui come un semplice “invitato alla salvezza” bensì una mediazione personale per accertarne ragionevolmente veridicità e credibilità. La sua consistenza è tutta riposta nella res che attesta; la sua identità personale è radicalmente correlata all’iniziativa beneficiaria e gratuita di un “Altro”. Nel suo io già albeggia la soggettività relazionale del noi. Alla sua vitalità è consegnato anche il destino del dialogo odierno tra fede e razionalità filosofica: la sfida cognitiva evocata da Habermas raggiunge in essa il suo apogeo sul piano teoretico e si accende, in forte coloritura antropologica, sul piano storico. Nella logica di un tale fenomeno si trova delegittimata ogni forma di connivenza col metodo delle “guerre sante”35: la santità degli uomini anziché quella delle guerre avrà diritto di cittadinanza nel regime di pensiero animato dall’esperienza della fede36. In essa risplende propositivamente la circolarità inscindibile, interna alla vita divina, dell’unità trascendentale tra verità, bontà e bellezza: la sua testimonianza identifica perciò il nucleo ove si accende massimamente quella sfida cognitiva in cui Habermas indica il punto d’intersezione e d’intendimento nell’attuale dialogo tra la fede e la razionalità filosofica. Al cospetto di un tale testimone si è condotti, infatti, sul terreno di una vita ove corrono in simbiosi antropologica la laicità della fede e la religiosità animatrice del cuore interrogante della ragione. Ne deriva che la testimonianza, nella concezione cristiana di J. Ratzinger, non è fenomeno annoverabile nella cosiddetta letteratura dell’edificante, in esso vive e si profila invece un’opera che è genuina paternità del pensiero. Riproponendolo egli si pone in continuità con la tradizione dei primi teologi del cristianesimo. Nel suo alveo si rende compiutamente attuale l’opzione di Agostino e del cristianesimo delle origini per la razionalità filosofica anziché per i miti delle religioni. Di ciò J. Ratzinger è stato ed è autorevole testimone ai nostri giorni, nel secolo delle camere a gas e dei campi di sterminio, dei gulag e delle pulizie etniche, del progresso tecnologico e delle “idee assassine” spesso costruite su di esso. Vogliamo perciò affidare la conclusione del nostro percorso ad una delle pagine più efficaci ed eloquenti della sua autorevole e prolifica produzione teologica.

Intento a commentare, ancora una volta, il pensiero e la vicenda umana di Sant’Agostino, egli evoca – con sconcertante pertinenza all’argomento da noi preso in considerazione – il racconto della clamorosa conversione dell’insigne retore neoplatonico M. Vittorino. Da quella pagina delle Confessioni trae un insegnamento che può esprimere sinteticamente e più felicemente il senso delle nostre riflessioni. In esso sono armonicamente adunate le istanze di fondo fin qui raccolte. Ratzinger come Agostino: nel loro segno può tornare ancora una volta profittevole constatare l’attualità di quella testimonianza che sconvolse di stupore gli ambienti intellettuali e popolari del mondo tardoantico. Lontano da ogni tentazione apologetica, l’impressione lasciata da quel fatto sul neoconvertito africano può suonare ancora provocatoriamente feconda in chi voglia avventurarsi in un serio lavoro di pensiero sull’argomento; così Ratzinger in quella pagina che ci permettiamo di riportare integralmente, con i toni della sua retrospettiva sul tardoantico:

il cristianesimo non è un sistema di nozioni, bensì una via. Il ‘noi’ dei credenti non è un accessorio, buono per spiriti piccini; è invece, in un certo senso, la sostanza stessa: la fraterna comunione inter-umana è una realtà situata su un piano completamente diverso da quello in cui viene a collocarsi la mera “idea”. Se il platonismo dà un’idea della verità, la fede cristiana ci offre invece la verità come via; e solo in quanto essa assurge a via, può dirsi divenuta verità dell’uomo. La verità vista come mera nozione, come pura idea, resta priva di mordente; autentica verità dell’uomo essa lo diventa soltanto come via che lo chiama direttamente in causa, come via che egli può e deve battere […] La fede cristiana non è una idea bensì una vita; non è uno spirito a sé stante, bensì un’incarnazione, uno spirito incorporato nella storia e nel suo ‘noi’. Non è una mistica dell’auto-identificazione dello spirito con Dio, bensì obbedienza e servizio; superamento di sé, liberazione del soggetto credente ottenuta tramite la sua assunzione in servizio da parte del non fatto e non pensato da lui; affrancamento acquisito mediante il lasciarsi impegnare per il bene dell’intero corpo sociale.37

Appena tre anni dopo che queste righe sono state scritte, il mondo ha dovuto fare i conti con una voce venuta dagli agghiaccianti gulag siberiani; la sua testimonianza è poi riecheggiata (per iscritto…) tra gli scranni dell’autorevole commissione del Premio Nobel per la letteratura. La consonanza del pronunciamento dello scrittore A. Solženicyn col dire del teologo J. Ratzinger attesta inequivocabilmente – dal cuore del secolo trascorso – la laicità del giudizio comune e l’urgenza profetica contenuta in una tale conclusione; una luce provocatoria sul nostro tempo brilla nelle solide parole della loro concorde testimonianza:

vano è reiterare – si legge nel testo scritto da Solženicyn per quell’inedita occasione – ciò che al cuore è maledetto […] concezioni cervellotiche, forzate, non superano la prova della trasposizione in immagini, queste e quelle non reggono e finiscono per rivelarsi deboli e scialbe, e non convincono nessuno. Le opere che invece attingono alla verità e riescono a darcene una rappresentazione intensa e viva, ci conquistano, ci coinvolgono irresistibilmente e nessuno, mai, neanche di qui a un secolo, potrà inficiarne il valore. Non sarà forse – conclude interrogativamente e con tono autobiografico lo scrittore russo – che l’antica formula dei tre elementi Verità, Bene e Bellezza non è poi così arcaica ed enfatica quale ci sembrava al tempo della nostra giovinezza materialistica e presuntuosa?38

Affidiamo – come approdo di queste nostre dischiusure – alla discrezione del lettore la possibilità di trarre profitto, con giudizio sul nostro tempo vissuto, da questa singolare corrispondenza di voci e di pensiero da noi intercettata.

1Un tale contesto viene ampiamente descritto e criticamente affrontato in un volume dal titolo sicuramente eloquente: V. Cesarone, F. P. Ciglia, O. Tolone (a cura di), Filosofia e religione nemiche mortali? Scritti in onore di Pietro De Vitiis, Edizioni ETS, Pisa 2012.

2Lontanissimi da ogni vanitoso spirito di autocelebrazione, ricordiamo in questa sede i nostri quasi tre anni di lavoro che hanno acceso in noi il senso di stupore e gratitudine presso una tale scoperta. Dichiariamo ora il debito che questa nostra esperienza di allora deve agli studi agostiniani dell’allora Cardinale J. Ratzinger; si tratta di: G. Fidelibus, Ragione, religione, città. Una rilettura filosofica del libro VIII del De civitate Dei di Sant’Agostino, Edigrafital, Teramo 2002.

3J. Habermas, J. Ratzinger, Was die Welt zusammenhält. Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, Katolische Akademie in Bayern 2004, Verlag Herder GmbH Freiburg im Breisgau 2005; tr. it. G. Bosetti (a cura di), Ragione e fede in dialogo, Venezia 2005 (da cui citiamo), 70-71.

4Habermas-Ratzinger, Ragione e fede, 52-53.

5C’è chi ha voluto far risaltare esplicitamente la peculiarità teoretica del contributo di Habermas nel contesto del dibattito: “in quel dialogo era già stato Habermas a concedere con convinzione che […] il contenuto esistenziale e valoriale del vissuto religioso rappresenta per la ragione, nella crisi dell’individualità postmoderna, una sfida cognitiva a tutto campo” (E. Mazzarella, Identità e integrazione tra religione e democrazia, in: D. Bosco-R. Garaventa-L. Gentile-C. Tuozzolo (a cura di), Logica Ontologia ed Etica. Studi in onore di Raffaele Ciafardone, Franco Angeli, Milano 2011, 399-400).

6Habermas-Ratzinger, Ragione e fede, 79-80 (Corsivo dell’autore).

7La questione della verità del cristianesimo costituisce un motivo centrale nella riflessione teologica di Ratzinger. Essa sta pure in capo alla conferenza, tenuta dal porporato cattolico nel 1999 presso la Sorbona di Parigi ed ha una sua feconda vicenda editoriale. Noi vi attingeremo subito, facendo riferimento all’edizione in lingua italiana comparsa nel 2003 in un saggio composito sull’argomento.

8J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, 170.

9Ibidem, 8.

10Così la si può leggere nel saggio del 2003: “[…] una volta, un re dell’India del Nord riunì in un posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti ai presenti fece passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa, e disse: “Un elefante è così”. Altri poterono toccare l’orecchio o la zanna, la proboscide, il dorso, la zampa, la parte posteriore, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a ciascuno: “Com’è un elefante?”. E secondo la parte che avevano toccato, rispondevano: “È come un cesto intrecciato…”, “è come un vaso…”, “è come la bure di un aratro…”, “è come un magazzino…”, “è come un pilastro…”, “è come un mortaio…”, “è come una scopa…”. Allora – continua la parabola – si misero a discutere, urlando: “L’elefante è così”, “no, è così”, si scagliarono gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re” (Ibidem, 170).

11Ibidem, 170-173.

12Ibidem, 173.

13Prima di proseguire nella nostra disamina annotiamo di passaggio che, proprio grazie ad un tale modo di procedere, ci disponiamo a reperire e ricevere – dall’eminente studioso del pensiero del vescovo d’Ippona – indicazioni utili per rispondere oggi alla nostra “vecchia” domanda di giovane liceale. Come mai – ci si chiedeva – il plurisecolare cristianesimo medievale – proprio sul piano della ragione teologica e della sua domanda su Dio – non ha valorizzato la pur potente ed intensa religiosità per così dire “esistenziale” della tragedia greca e si è invece incentrato, preferendola, sull’indagine filosofica della razionalità ellenica? Il seguito può ritenersi un fruttuoso apporto nell’acclarare una plausibile ed appagante risposta a quella questione.

14Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 173.

15Ibidem, 176 (corsivi dell’autore).

16Ibidem, 174 (corsivi dell’autore).

17Si rileggano le accorate pagine del De civitate (il libro 6 in particolare) nelle quali Agostino ben descrive queste criticità ravvisate e personalmente sofferte dallo stimatissimo Varrone: “O Marco Varrone, sei l’uomo più intelligente e indubbiamente il più colto di tutti (homo omnium acutissimus et sine ulla dubitatione doctissimus), ma sei comunque un uomo e non Dio […] Scorgi però che le cose divine (res divinae) si devono distinguere dalle vuote e menzognere fandonie umane (ab humanis nugis atque mendaciis) ma temi di offendere le depravate opinioni popolari e le consuetudini (consuetudines) del superstizioso culto pubblico”. Di fronte al potere politico della consuetudo in fatto di religione Agostino evidenzia un Varrone teoreticamente immobilizzato dalla menzogna che tocca e presiede alla versione mitico-fabulosa ed a quella civile della teologia tradizionale. Menzogna è propriamente “consuetudine” alla privazione di verità – come assenza di realtà – in fatto di res divinae: “entrambe tuttavia – ne conclude Agostino – sono così amiche tra di loro per comunanza col falso (consortio falsitatis), da essere egualmente gradite ai dèmoni cui è propria la dottrina nemica della verità (doctrina inimica est veritatis)!” (De civitate Dei 6, 6, 1; PL 41, 182-183 – traduzione nostra)

18In questo senso egli esprime, già nelle prime righe del De civitate Dei, la coscienza della portata dell’intrapresa, l’essere impegnato in un magnum opus et arduum (De civ. Dei praefatio; PL 41, 13) che esige un lavoro ed un dialogo critico che competono alla ragione.

19Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 177-178.

20Ibidem, 178 (corsivo dell’autore). La diversa prospettiva che ne deriva quanto alla civitas ereditata da Varrone è specificata da Ratzinger in altra sede; nella concezione agostiniana essa vede convergere in unità l’istanza storica e quella metafisica. I piani si presentano così rovesciati: “la dipendenza della religione dalla civitas enunciata da Varrone si radica da ultimo nel fatto che nessuna linea di collegamento conduce dal “vero Dio” alla religione. Dio non tocca l’uomo e Dio, come non fonda nessuna città, così non fonda religione alcuna. Il fatto che Dio non entra nella storia, bensì è un Dio puramente (meta-)fisico, ha come conseguenza che la religione non raggiunge Dio, ma resta del tutto non metafisica. Agostino viceversa, presupponendo il fatto storico che Dio è entrato in questo mondo, può contemporaneamente riferire la religione a questo Dio, cioè comprenderla in piena unità con la metafisica. Entrambi i principi apologetici del cristianesimo, apparentemente disparati, nesso con la storia e nesso con la metafisica, mostrano qui la loro unità radicale” (J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, Ismaning 1954; trad. it. A. Dusini (a cura di), Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1978, 278). Sin qui la chiave della risposta alla questione da noi posta nella nota 13, p. §.

21È quanto mai significativo che chi come Agostino ha redatto l’opera De civitate Dei è anche colui che ha scritto da laico, in dialogo coi pensatori (filosofi) pagani ed in linea con la preminente tradizione patristica, un De vera religione. Il rilievo vale altrettanto per chi, come l’allora cardinale J. Ratzinger, si è cimentato in un memorabile dialogo critico col laico M. Pera sui temi più scottanti della cultura attuale: M. Pera-J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano 2004.

22Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 178.

23Ibidem, 179.

24Habermas – Ratzinger, Ragione e fede, 53 (corsivo dell’autore).

25Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 142. La ratio che presiede a norma di una tale offerta risanatrice è presto detta: la fede stessa è chiamata a rispondere all’appello della verità nell’originaria pretesa di Cristo di non confondersi con una consuetudine ma di identificarsi con la verità in persona.

26Ibidem, 67

27Ibidem, 143

28Ibidem, 190-191.

29Mazzarella, Identità e integrazione, 399.

30Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 186 (corsivo dell’autore).

31Mazzarella, Identità e integrazione, 404. È alquanto interessante notare che l’affermazione dello studioso napoletano succede ad una contestuale rivisitazione – nell’articolo citato – del dialogo tra J. Habermas e J. Ratzinger.

32Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 192 (corsivo dell’autore).

33Mazzarella, Identità e integrazione, 409.

34J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli. Siena 2005, 63-64.

35Una volta in più mi è data occasione per ribadire in proposito che le attuali emergenze terroristiche, che si vogliono da molte parti riconducibili alle tradizionali forme di “guerre di religione”, sono da annoverare a fenomeni di ben altro segno: non si danno – che lo si voglia o no – guerre-di-religione bensì, sempre e solo, guerre e conflitti di pensiero anche quando questi portassero quella malaugurata denominazione.

36Si veda, nel merito, il significativo volume: Benedetto XVI – J. Ratzinger, La santità non passa mai di moda, LEV, Roma 2009.

37J. Ratzinger, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, Kösel- Verlag, München 1968; tr. it. E. Martinelli (a cura di), Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1968, 1984 settima edizione (da cui citiamo), 64. In seguito ed in veste di Sommo Pontefice indicherà, con rilievi estetici, uno dei compiti più importanti che attendono oggigiorno una tale identità della fede cristiana sul piano della sua ormai indilazionabile pretesa alla verità: “superare la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza […] In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo” (Benedetto XVI, da: Omelia per la Messa con dedicazione della chiesa della Sagrada Familia, Barcellona, 7 novembre 2010).

38La traduzione in italiano dal russo compare ora integralmente in: Aleksandr Solženicyn, Il respiro della coscienza. Saggi e interventi sulla vera libertà 1967-1974 (trad. it. a cura di S. Rapetti), Jaca Book, Milano 2015, 79-80