Vai al contenuto

Ror Studies Series | Storia e mistero

Introduzione

Jonah Lynch, Giulio Maspero

Scarica l’articolo in pdf

Nel 1946 venne pubblicato il libro di Oscar Cullmann Christus und die Zeit: Die urchristliche Zeit- und Geschichtsauffassung. All’epoca Jean Daniélou aveva 41 anni e insegnava già da due all’Institut Catholique di Parigi, mentre Joseph Ratzinger aveva soli 19 anni e si iscriveva proprio in quell’anno all’istituto superiore di filosofia e teologia a Frisinga. Nonostante la differenza di età e di prospettiva esistenziale, nella parabola di entrambi gioca un ruolo essenziale il tema centrale del libro di Cullmann, il quale per collocazione accademica e linguistica si pone a cavallo tra il mondo francese e quello tedesco. Il rapporto tra la storia della salvezza e la metafisica era infatti il cuore delle discussioni teologiche dell’epoca. Queste discussioni erano quasi in stallo, specialmente in ambito riformato, a causa dell’apparente contraddizione tra il valore essenziale riconosciuto alla dimensione storica (in tensione con la percezione di una fissità metafisica) e la realtà di quella salvezza che si è data proprio nella storia. In assenza di una profondità ontologica, il dibattito rischiava di dissolversi in una prospettiva parziale che finiva per schermare la portata universale e assoluta dell’Evento cristico stesso. Si avvertiva la necessità di superare la dialettica introdotta dalla riflessione moderna tra la dimensione metafisica e quella esistenziale. Si cerca, quindi, una sintesi teoretica capace di abbracciare contemporaneamente essere e tempo.

Tale considerazione spiega la scelta di accostare due autori in apparenza così diversi, per confrontare il valore delle categorie di storia e di mistero nella struttura del loro pensiero. Joseph Ratzinger cita Jean Daniélou, ma non è questo il livello principale dell’indagine che qui si presenta. Il punto di interesse è piuttosto la comprensione profonda da parte dei due teologi di quello che è un nucleo centrale di tutto il pensiero del secolo XX. In aggiunta, la domanda che ha mosso la ricerca include anche l’ipotesi che proprio la soluzione offerta a tale nucleo teologico renda Daniélou e Ratzinger capaci di dialogare con chi non ha fede e di giungere a una sintesi tra pensiero, liturgia e vita spirituale.

Così, nei giorni 12 e 13 febbraio del 2015, presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, diversi studiosi di tutta Europa si sono riuniti per approfondire insieme tale questione. L’incontro è stato promosso dalla stessa Università ospitante in collaborazione con la Fraternità Sacerdotale di San Carlo Borromeo e con l’Associazione PATRES. La realizzazione delle due giornate di studio è stata resa possibile dal supporto finanziario offerto dalla Fondazione Ratzinger e da BLM Group. Numerose sono state le istituzioni accademiche che hanno aderito all’iniziativa: Pontificia Accademia di Teologia, Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana di Milano, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Pontificia Università Lateranense di Roma, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Università di San Damaso di Madrid, Universidad de Navarra di Pamplona e Università di Chieti.

Il presente volume offre alla comunità scientifica il frutto di quell’incontro, i cui lavori sono stati introdotti da S.E.R. Mons. Jean-Louis Bruguès, Bibliotecario e archivista di Santa Romana Chiesa. Il testo è diviso in due parti: la prima relativa alla questione centrale in esame, la seconda che intende mostrare gli effetti di tale posizione per alcuni aspetti centrali della vita della Chiesa, e quindi della teologia. Ad esse segue un’appendice, con alcuni contributi a supporto del lavoro sviluppato, e un pregevole saggio di John Milbank, dedicato alla relazione tra cristianesimo e storia nella poesia di Charles Péguy, autore rilevante sia per Daniélou sia per Ratzinger. Proprio lo sguardo di bimbo che abita il cuore del poeta si può rinvenire alla radice dell’approccio non dialettico dei due alla questione fondamentale in esame.

In questo modo, la fine del volume ne richiama l’inizio. Esso si apre con la relazione di Réal Tremblay, Presidente della Pontificia Accademia di Teologia, il quale ha additato, a mo’ di premessa, un’esperienza sorgiva per entrambi i teologi in esame. La purezza del cuore, come insegnava Gregorio di Nissa, è la vertiginosa virtù di coloro che sono saliti fino all’ultimo gradino accessibile all’uomo e che tremano sopra l’abisso insondabile di Dio. “La ragione non è sufficiente. Affinché l’uomo possa aver accesso a Dio, tutte le forze della sua esistenza devono agire di concerto,” afferma Tremblay. Egli si pone così in continuità con l’intuizione di Origene, Basilio di Cesarea, e molti altri Padri, che la conoscenza sensuale e psichica rimane frammentaria se non avviene nello Spirito. Chi vede il mondo con i soli occhi della carne non vede realmente il mondo, ma un fantasma che è frutto della propria passionalità o della propria immaginazione intellettuale. Per superare sia il senso Kantiano sia il senso Hegeliano di questa costatazione, occorre un cuore puro, a somiglianza del cuore del Figlio.

Tremblay indica nella giustizia e nella vigilanza di una sincera ricerca di Dio l’inizio della strada verso la purezza del cuore. Ancora di più, si tratta di “vivere l’esistenza da Figlio”, entrare nei sentimenti di Cristo, fino a condividere la sua croce – e così ascendere con Lui alla piena tri-unità: “L’amore è il fuoco che purifica e unisce ragione, volontà, sentimento; è ciò che unifica l’uomo in se stesso in virtù dell’azione di Dio così da farne il servitore dell’unità di coloro che sono divisi. Così l’uomo fa il suo ingresso nella dimora di Dio e può vederlo. È esattamente quello che significa essere beato”.

Sia per Ratzinger, sia per Daniélou, l’esperienza mistica della partecipazione alla croce di Cristo è all’origine della teologia. Questa affermazione è ampiamente sostenuta dalla lettura dei Diari Spirituali di Daniélou; per il teologo e papa bavarese la si vede in modo eminente nei dettagli della sua biografia. E per entrambi loro, l’evento unico, irripetibile e eternamente presente della morte-risurrezione di Gesù Cristo costituisce la luce che illumina il significato del tempo e della storia, e rivela a noi l’essenza di Dio.

Purezza di cuore, si direbbe quasi spirito fanciullesco; esperienza della croce e della risurrezione; interesse per la storia come parte fondamentale del metodo teologico; attenzione al cristianesimo dei primi secoli per cercare luci da offrire al mondo contemporaneo: sono alcune caratteristiche in comune fra Joseph Ratzinger e Jean Daniélou.

Il contributo di Arostegi si interroga sull’importanza dei Padri per la teologia odierna, tema caro a entrambi Daniélou e Ratzinger. Arostegi si concentra soprattutto su un articolo di Ratzinger del 1967 dato nel contesto dell’Internationales Forschungszentrum für Grundfragen der Wissenschaften di Salisburgo. In quell’articolo, Ratzinger ha tentato di precisare l’identità dei Padri attraverso un esame di alcuni tentativi di definizione di “padre della Chiesa” proposte da Vincenzo di Lerins e altri. Il teologo bavarese giunge a proporre che “la Scrittura e i Padri sono un tutt’uno, come la parola e la risposta (Wort e Antwort). Questi due elementi non sono la stessa cosa, non sono allo stesso livello, non possiedono la stessa forza normativa. […] Ma, per quanto diverse, comunque non ammettono mescolanze, tantomeno separazioni”. Sulla base di questa interpretazione asimmetrica, ma co-essenziale, Ratzinger mette in evidenza il ruolo fondamentale che hanno giocato i Padri nella ricezione della rivelazione. “Dove nessuno riceve la rivelazione, lì non si può avere nessuna rivelazione”. Così, il contributo di coloro i quali hanno accolto la Parola riguarda in primo luogo quattro “discernimenti” di imparagonabile importanza per il futuro della Chiesa: la definizione del canone, lo stabilirsi della regula fidei, il discernimento delle forme della liturgia, e il discernimento circa l’uso della filosofia. Per Arostegi, il dilemma della teologia odierna è che “se ha intenzione di entrare in dialogo con la scienza, deve mettere da parte il dogma, ma se mette da parte il dogma, smette di essere teologia”. La tensione tra auctoritas e ratio si può affrontare in modo fecondo sul piano della storia: Ratzinger nota che la Bibbia arriva a noi attraverso la storia, e che “solo chi affronta la storia può dominarla. Chi la vuole bypassare è suo prigioniero. E soprattutto, chi asseconda questa tendenza non ha la benché minima opportunità di leggere davvero storicamente la Bibbia, per quanto possa sembrare che utilizzi metodi storici. In fondo, continua ad essere rinchiuso nell’orizzonte del suo pensiero, in cui si riflette soltanto la propria immagine”. Così, la necessità della “purezza del cuore” per poter conoscere la realtà e il suo Creatore prende la flessione dell’attenzione che uno storico presta ai fatti. Il testo rivelato si dà all’interno di una storia, come anche la sua interpretazione, e per questo la sua esegesi contemporanea avrà sempre bisogno di confrontarsi con le prime autorevoli interpretazioni, quelle dei Padri.

Questo modo di “pensare in modo biblico-patristico il presente” è il tratto che più avvicina Daniélou e Ratzinger, secondo Leonardo Lugaresi. Ciò è di grande attualità in quanto il pensiero patristico è “il pensiero più missionario della storia”. Le prime generazioni di cristiani non potevano appoggiarsi su terre già evangelizzate. Dovevano vivere la loro fede dentro strutture di peccato e popolazioni indifferenti o ostili: e sono riusciti non solo a vivere la loro fede ma anche a convertire i popoli. Per questo motivo, Lugaresi ritiene utile l’indagine del pensiero “pre-europeo” rappresentato dai Padri. Un tratto particolare del loro modo di pensare, ampiamente sviluppato da Daniélou, è la dimensione della storia come luogo della rivelazione di Dio. Innanzitutto, come anche le religioni naturali intuivano, nella creazione, e molto di più nella singolarità degli avvenimenti storici, Dio agisce. Da questa costatazione nasce il simbolismo storico, la tipologia. Lugaresi evidenzia che tante problematiche care alla modernità, compresa la pluralità dei popoli e delle lingue, e il desiderio di unità, possono essere fruttuosamente affrontate da questo versante.

Anche il problema ben più difficile del significato della pluralità dei momenti storici, di costruzione e anche di distruzione, è illuminato dalla teologia della storia di Daniélou. La storia è il luogo della creatività di Dio; è anche il luogo della sua ira. Per poter pensare la storia in modo unitario, e quindi poter pensare Cristo come legato intrinsecamente al passato e al futuro, occorre un’economia della rivelazione che comprende tutta la storia, sia la bontà sia la giustizia di Dio. La “collera di Dio”, termine “solitamente trascurato” ma a giudizio di Lugaresi cruciale, insegna all’uomo l’intensità dell’essere divino, e la nullità dell’essere creato. È una rivelazione anche questa che libera dall’idolatria: Daniélou dice appunto che le grandi catastrofi sono “un violento richiamo rivolto ad una umanità che tende a bastare a se stessa”. Lugaresi riassume: “alla domanda ‘ma che cosa fa Dio per il mondo che va così male?’ la risposta è appunto: ‘lo mette in crisi’”.

La tipologia è la chiave, secondo Lugaresi e Daniélou, dell’intelligibilità della storia. Nello stesso gesto comprende la continuità e la discontinuità, e quindi comprende al suo interno le esigenze della ragione e quelle della libertà. Permette di cogliere il filo della provvidenza senza interpretarla come progresso ineluttabile; permette di affermare la libertà divina assieme alla libertà umana in un rapporto drammatico e reale.

Anche il pensiero di Ratzinger è fortemente debitore a un “padre della Chiesa”, Bonaventura. Robert Wozniak mostra che “in Ratzinger, teologia della storia e ontologia pasquale sono elaborate non dall’alto o dal basso, ma dal centro della cristologia”. Tale centralità si esprime sommamente nel dogma di Calcedonia: il rapporto tra ontologia, storia, e teologia può essere illuminato solo nell’incontro reale con Cristo. Wozniak evidenzia che per Ratzinger tale affermazione non implica un misconoscimento della filosofia, ma la priorità (senza esclusività) della storia. Tutto ciò deriva, secondo Wozniak, dallo studio che Ratzinger ha svolto su Bonaventura per la sua tesi di dottorato, in particolare circa il rapporto tra natura e grazia. Il teologo bavarese avrebbe imparato da Bonaventura dei concetti ontologici che sono “aperti alla concretezza”, il che rinvia alla storia come luogo dell’azione della grazia.

Wozniak prosegue il suo ragionamento mettendo in evidenza l’importanza del dogma di Calcedonia anche nel testo del 1968, Introduzione al cristianesimo. “La cristologia ontologica serve a salvare la teologia dell’evento storico allo stesso tempo da un’astoricità astratta e statica e da un vuoto storicismo”. Terzo elemento: Wozniak evidenza che Ratzinger intende “l’essere come esodo”, e che un “concetto estatico dell’essere e dell’esistenza” si trova in molti suoi scritti. Questa opzione “ha molto a che fare con la logica interna alla teologia del Nuovo Testamento, che sottolinea la sua scoperta sotto la guida del Doctor Seraphicus”. Ciò mostra la centralità della rivelazione e della teologia, non a margine della filosofia, ma come incarnazione del modo cristiano di pensare. Il primato è nell’azione divina: la rivelazione è un avvenimento dentro alla storia. Anche in questo punto il suo pensiero è molto vicino a quello di Daniélou.

È significativo quanto la teoria dell’anima che Ratzinger espone nel suo libro sull’escatologia prenda le mosse dalla nozione di relazione. Scrive Wozniak: “Siamo immortali non perché ci è stata donata un’anima immortale. L’immortalità umana ha a che fare con la relazione con la sorgente di ogni immortalità che è Dio nelle sue relazioni intratrinitarie, che costituiscono la sua stessa vita divina”.

Un nesso forte e suggestivo lega questo sunto della posizione di Ratzinger a quella di Daniélou, sviluppato da Giulio Maspero nel suo intervento. Qui si sostiene che Jean Daniélou ha potuto elaborare una teologia della storia, che non fosse una mera filosofia della storia come è caratteristico nella modernità, perché è stato in grado di pensare un’autentica ontologia della storia. Il testo cerca di mostrare il radicamento di tale possibilità di pensiero nella profonda conoscenza raggiunta da parte del teologo francese di Gregorio di Nissa. Nell’opera di questo Padre si rinviene un’originale rielaborazione della metafisica classica in termini che permettono una sintesi tra essere e storia. Tale armamentario permette a Daniélou di sviluppare un pensiero capace di rispondere alle sfide poste dall’esistenzialismo e, quindi, di riconoscere il valore non solo di ciò che è universale, ma anche del particolare. In questo senso lo sguardo che rende possibile la sintesi tra essere e storia è radicato nel pensiero trinitario e, in particolare, nella possibilità offerta all’uomo in Cristo di partecipare alle relazioni intradivine dalle quali ogni cosa trae origine.

L’architettonica della teologia di Daniélou è, dunque, possente perché, al di là della forma “leggera” e rapida dell’essai, di cui la tradizione francese è maestra, il passaggio dalla dimensione ontologica alla riconsiderazione della storia e, quindi, della dimensione spirituale e culturale dell’uomo, costituisce un momento estremamente significativo della ricerca teologica del XX secolo. Daniélou anticipa, in tal modo, la stessa ricerca sull’ontologia trinitaria, che sempre più appare come ambito di indagine essenziale nel pensiero contemporaneo. In questo, l’accostamento a Ratzinger risulta particolarmente efficace, perché permette di apprezzare come l’ardito pensare insieme l’essere e la storia sia il fondamento della capacità che accomuna i due grandi pensatori di presentare in modo significativo e accattivante il Mistero del Cristo all’uomo contemporaneo. Tale fondamento è a loro accessibile proprio per lo sguardo trinitario e relazionale che caratterizza la loro ricerca, profondamente fecondata dal contatto con le fonti patristiche e medioevali.

Tale prospettiva emerge anche dall’intervento di Ludwig Weimer. Per affrontare il “mistero della storia”, egli si interroga circa il senso del terzo avvento, l’adventus medius, di cui Bernardo di Chiaravalle scrisse, e che offre una chiave illuminante per entrare nel pensiero di Ratzinger. Innanzitutto, la storia viene vista dalla croce e con gli occhi della fede, per scorgere la sua identità come “storia di Dio con gli uomini”. Weimer afferma che la “componente più rilevante della teologia ratzingeriana della storia […] è la concezione dell’oggi nel tempo successivo a Cristo, basata su un’escatologia del presente”. Il cristiano, secondo Ratzinger, ha la gioia di vivere “un futuro che è diventato presente”. Ciò è sommamente vero dell’Eucaristia, che non è fuga mundi ma dimora di Dio nel mondo e nel tempo. La liturgia come luogo della presenza di Dio nella storia può prestarsi a comprensioni riduttive, da cui Weimer mette in guardia: non è magia, non è pura spiritualità; è dentro la storia, come i segni sacramentali evidenziano.

Per Weimer, il centro della visione ratzingeriana della storia si trova nel modo di intendere l’azione di Dio nella storia. Egli analizza un testo del 1981 per mostrare che “non vi è la formulazione generica secondo cui Dio agisce là dove un uomo ama, ma si afferma che l’interazione tra Dio e uomo è fissata nell’uomo-Dio, cioè nella dimensione divina. Non l’umanesimo, ma la purificazione, la redenzione dell’uomo e il riflesso dell’amore di Dio portano Dio ad agire nel mondo”. Per Weimer, quindi, Dio agisce nella storia attraverso gli uomini purificati e liberati che imitano “l’amore di Gesù e di Dio”.

Da questa visione discende il modo di intendere la speranza che Ratzinger ha esposto nella Spe Salvi. Bisogna che il cristiano abbia chiaro che cosa può dare al mondo e cosa non può dare; bisogna riconoscere che, anche ridotta sul piano numerico come mai è avvenuto dai primi secoli dell’era cristiana a oggi, la fede dei cristiani rimane essenziale al mondo e alla storia. Dallo studio di Weimer emerge una linea forte e aperta, che poggia interamente sulla libertà di Dio, e non tenta di chiudere il rapporto tra verità e storia in un sistema.

Il testo di Pablo Blanco Sarto indaga il rapporto tra verità e storia in alcuni testi di Ratzinger. Mette in evidenza la necessità metodologica dell’approccio storico: “la verità non si presenta mai agli uomini come nuda veritas, ma sempre rivestita di una forma, che certamente è stata condizionata storicamente”. Ne consegue che la conoscenza che l’uomo ha della verità è sempre parziale e limitata. Così il titolo del convegno riceve una delucidazione: la storia permette l’ingresso nel mistero della verità, che rimane sempre più grande della comprensione che l’uomo ne ha, e si rivela sempre più all’interno del tempo. Una prima conseguenza di questo modo di intendere la storia è l’affermazione che la tradizione è un’interpretazione della Scrittura data sotto la guida dello Spirito, contro ciò che Blanco Sarto ritiene essere la tendenza protestante di vedere la storia successiva alla formazione del canone soltanto come decadenza. A parere di Blanco Sarto, si può invece affermare che il dogma è un’interpretazione autentica della Scrittura in cui l’equivocità del linguaggio biblico viene trasposta nel linguaggio univoco dei concetti. Tale trasposizione comporta “sia l’immutabilità sia la storicità”.

L’articolo fa anche alcune incursioni nelle problematiche del rapporto tra storia e salvezza, e approda all’affermazione che “la libertà si presenta come punto centrale per risolvere la dicotomia tra verità e storia: la prima si realizza nella seconda per mezzo della libertà”.

La seconda parte del volume è dedicata a tre tematiche ampiamente presenti nel pensiero di Ratzinger e Daniélou: lo studio del fenomeno religioso, il valore della liturgia e l’ispirazione missionaria di tutta la vita cristiana. Tutti e tre questi aspetti sono profondamente radicati nella questione del rapporto tra l’essere e la storia, a livello più gnoseologico il primo, da un punto di vista più fondativo il secondo, e come dinamica essenziale della vita cristiana il terzo. Si è scelto, in questo caso, di offrire in parallelo la trattazione del singolo tema per ciascuno degli autori analizzati.

Lo studio delle religioni è fondamentale sia per Daniélou sia per Ratzinger. Evidentemente il loro approccio è diverso: nel primo caso esso ha radici anche esistenziali, a partire dalla conversione all’induismo del fratello di Jean Daniélou, Alain; nel secondo caso la prospettiva è più immediatamente teologico-fondamentale. Eppure, ciò che si vuole proporre non è semplicemente un confronto, ma in primo luogo si è cercato di favorire la dimensione gnoseologica della questione. Come studiare le religioni? Come affrontare la loro differenza? Come, se è legittimo, operare un giudizio?

La riflessione offerta da Angela Maria Mazzanti, presidente dell’Associazione PATRES, è di carattere storico-religioso, prima ancora che teologico. Da subito si individua il punto di contatto tra Ratzinger e Daniélou nella significatività della storia come luogo dell’irruzione del divino nel mondo, quindi nella sua dimensione di mistero ontologico e non meramente gnoseologico. Ciò implica, da una parte, che la dimensione religiosa non è separabile in modo artificioso dalla storia e, nello stesso tempo, che il suo studio non può prescindere dal mistero, cioè dalla profondità ontologica della storia stessa: “la storia non è concepibile senza la connessione con la spiritualità, né è possibile considerare la religione come una componente della storia”. Eppure, non è possibile all’uomo descrivere in modo completo tale connessione. “La storia profana […] riceve significato nel disegno totale di Dio, ma la relazione fra gli avvenimenti della storia profana e di quella sacra ‘rimane un mistero profondo che sfugge ad ogni tentativo di determinazione.’” Mazzanti poi si concentra sul concetto del rapporto tra l’umano e il divino, categorizzato da Daniélou in infra-umano (ateismo), naturale (le religioni pagane), e soprannaturale (l’ebraismo, il cristianesimo). Più che un esame delle religioni concrete, svolge una riflessione sul sacro, facendosi aiutare dagli studi di M. Eliade e U. Bianchi. La religione naturale, o “pagana”, come solitamente preferisce Daniélou, è “l’espressione storica dell’atto religioso dell’umanità”. Le religioni sono un tentativo umano di ricerca di Dio.

Mazzanti sviluppa poi la controparte critica rispetto a tale posizione, in consonanza con quanto ampiamente afferma anche Daniélou. Il “fatto ebraico-cristiano” si presenta non come un “mezzo per adorare Dio”, ma come testimonianza di un evento: il “movimento di Dio verso l’uomo”. Visti attraverso questo giudizio, Mazzanti può affermare che per Daniélou, le religioni sono sia “presupposti” del cristianesimo, sia “impedimento” allo stesso.

La prospettiva proposta ha bisogno del riferimento a un Logos più grande, che permette la krisis rispetto alle forme religiose non cristiane, sia in termini di differenziazione, sia in termini di continuità, in particolare per quanto riguarda l’eredità greca. Mazzanti dedica ampio spazio al problema dell’ellenizzazione, che per Daniélou rappresentava un patrimonio irrinunciabile, anche se il teologo francese guardava con stima il tentativo di Monchanin di incarnare il cristianesimo nella cultura Indù a prescindere dalla sua storia occidentale. Mazzanti si concentra sui testi di Daniélou che affermano la dinamica propria della prima “inculturazione” nella cultura greca, primo esempio del fatto che il cristianesimo “ha la capacità di rispondere alle istanze [delle religioni] e di assumere le interpretazioni simboliche e mitologiche che l’animo umano concepisce in virtù del suo essere in relazione ontologica con Dio”.

Il contributo di Maria Vittoria Cerutti è dedicato allo studio delle religioni nell’opera del Papa Emerito. Come Mazzanti, interviene in quanto storico delle religioni, non teologa. E come per Mazzanti, il richiamo alla scuola di Ugo Bianchi è esplicito. Cerutti sviluppa la sua riflessione seguendo le linee evidenziate da Ratzinger in un testo del 1964, in cui il teologo bavarese dice del proprio convincimento che “in primo luogo si dovesse cercare di avere una visione panoramica delle religioni nella loro struttura storica e spirituale”. Secondo Cerutti, questa “formula strutturale” mette in evidenza un metodo che evita le riduzioni sia della fenomenologia, sia dell’antropologia religiosa di Ries. La prima a causa della sua ricerca di strutture comuni alle religioni “giunge a misconoscere le discontinuità tra le concrete esperienze religiose”. La seconda, che cerca di fondare ogni autentica religione nell’esperienza mistica, a giudizio di Ratzinger non tiene di fronte alla storia reale delle religioni, che mostrano invece che “la mistica [è] una via del tutto particolare tra svariate altre”.

Il contributo metodologico e la riflessione gnoseologica sono importanti qui. Tra una concezione relativistica del religioso e l’estremo opposto storicista, che, da una parte negano la possibilità di ogni giudizio e, dall’altro, riducono l’oggetto studiato cosificandolo e strappandolo dal suo contesto, si apre la possibilità comparativa. Questa, in profonda consonanza con il pensiero di Ratzinger e la sua concezione del rapporto tra verità e storia, cerca solo di far emergere le diverse relazioni tra i fenomeni religiosi studiati, senza imporre ad essi preconcetti o teorie già elaborate. In questo modo il giudizio è possibile ma, nello stesso tempo, esso rimane sempre aperto, in conformità alla caratteristica essenziale del Logos, segnalata nell’intervento di Mazzanti e caratteristica del pensiero di Ratzinger. Così la storia delle religioni rimane sempre mistero, ma mistero portatore di luce.

Cerutti evidenza che la “formula strutturale” cercata da Ratzinger permette di “abbracciare il momento della storicità (del divenire, dello sviluppo), il momento dell’essere in costante rapporto e il momento delle diversità reali, irriducibili”. La seconda caratteristica della posizione di Ratzinger è che “costituisce la base per proseguire in una analisi comparativa differenziante delle religioni che pervenga a identificare – su base storica prima che teologica – il posto del cristianesimo nel mondo delle religioni, e il senso “provvisorio” e “precursorio” delle religioni rispetto al cristianesimo. Così, scrive Maria Vittoria Cerutti, grazie ad “una considerazione differenziata e non omogeneizzante delle religioni”, permessa dalla sua metodologia comparativa, Ratzinger “può misurare la loro vicinanza e lontananza rispetto all’evento-Cristo che ne realizza la determinazione-vocazione storica”.

Il confronto tra Daniélou e Ratzinger nello studio delle religioni permette di rilevare a un livello pre-teologico la centralità della connessione tra essere e storia proposta nella prima parte del presente volume. Questa connessione è confermata quando ci si rivolge alla dimensione liturgica.

Per Guillaume Derville, il punto di partenza della teologia liturgica di Daniélou è triplice: la sua esistenza sacerdotale, la stretta connessione tra la liturgia e i due Testamenti, e il fascino di vedere “nella liturgia l’attualizzazione di tutta la storia della salvezza”. La liturgia è il luogo dove “si attualizza senza tregua l’incontro della comunità ecclesiale col mistero di Dio”.

Nell’ispirarsi teologicamente alla fonte scritturistica e patristica, in particolare per quanto riguarda la tipologia, Daniélou ha sfidato i presupposti epistemologici della sua epoca. Da tale prospettiva, che evidenzia che Cristo è il senso di tutta la Scrittura e il fondamento dell’unità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, la liturgia diventa luogo dell’esegesi. Nel Mistero di Cristo, gli eventi narrati sono resi presenti e contemporanei ad ogni cristiano in ogni epoca. Derville evidenzia la centralità della categoria di mistero per il pensiero di Daniélou, il quale include il termine nel titolo di ben cinque delle sue opere. Esso punta verso una profondità propriamente ontologica e teologica, che nella sua radicale eccedenza sopravanza costantemente la dimensione gnoseologica e noetica.

La dimensione simbolica, centrale nell’esegesi patristica, trova qui il suo fondamento. La dimensione sacramentale è costitutivamente inseparabile dall’ermeneutica biblica e dall’atto teologico, in quanto li fonda nel dischiudere la profondità ontologica della storia. Derville afferma che per il gesuita francese, “c’è dunque un rapporto essenziale tra la storia della salvezza in quanto si svolge nel tempo e la liturgia che ne dà forma”. Così, con lo sguardo rivolto a tutta la produzione di Daniélou, egli conclude: “La tipologia fu sempre la chiave di questi lavori. La scrittura si illumina con la scrittura. La liturgia la manifesta. La storia della salvezza è al centro della liturgia, si attualizza nella liturgia”.

Il contributo dedicato al pensiero liturgico di Ratzinger è di Juan José Silvestre. Egli procede storicamente, muovendo dalla biografia dell’autore bavarese, con il suo amore per la liturgia appreso da ragazzo, fino a situare il suo pensiero sullo sfondo del Concilio Vaticano II. Silvestre nota che l’aver posto la costituzione sulla liturgia all’inizio dei lavori conciliari “conferì un’architettura ben precisa al Concilio: la prima cosa è l’adorazione e, quindi, Dio”.

Silvestre dedica il centro del suo studio alla liturgia come attualizzazione del mistero pasquale, che secondo lui viene collocato da Ratzinger “in un contesto di filiazione, preghiera e sacrificio per gli altri che caratterizza tutta la vita di Gesù”. Il rischio radicale della morte “sarebbe vacuo se non fosse vero che l’amore è più forte della morte”. Ma il rischio poggia sull’infinito potere dell’amore di Dio, e nella risurrezione mostra di non essere stato invano. Silvestre mette in evidenza lo stretto rapporto tra Cena, morte, e risurrezione nell’Eucaristia. Il Mistero Pasquale non è semplicemente un evento del passato, ma rimane ontologicamente attingibile attraverso la dimensione sacramentale in ogni epoca e, in quanto tale, fonda la vita cristiana, che ha la sua fonte e il suo compimento nell’adorazione. Silvestre conclude, con Ratzinger, che “dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita […] sia liturgia, adorazione”.

Per parlare della missione in Daniélou, Jonah Lynch parte dal rapporto tra contemplazione e azione. La paradossale unità dei due termini si trova compiuta proprio in Cristo, che ha accettato di vivere la tensione tra cielo e terra, “da un estremo all’altro”. Lynch situa il discorso di Daniélou come superamento della dialettica tra chi vede nelle religioni delle istanze di una categoria buona e sostanzialmente unitaria, e chi invece (con Barth) vede nelle religioni un ostacolo alla conversione. Lynch mostra che per Daniélou, “il mondo che Dio ha creato e il mondo che ha salvato sono lo stesso”. L’incarnazione richiesta dal missionario ha grande importanza per Daniélou; ma “tutto sarebbe mancato se, andando verso di loro, fossimo noi a diventare come loro e non loro che diventano come noi. Allora ci sarebbe incarnazione, ma senza trasfigurazione, non vale nulla”. La trasfigurazione che il missionario intende realizzare dentro le culture deve valorizzare alcuni elementi e purificarne altri. Più che cercare di indicare con precisione questi elementi, Daniélou mostra il criterio: deve morire ogni idolatria, ogni elemento che ostacola l’accettazione del proprio bisogno di salvezza e della persona di Cristo che la offre gratuitamente. In questo modo, ogni autentico valore di una cultura sarà salvato.

La salvezza arriva gratuitamente, nei tempi di Dio: allora cosa rimane da fare per il missionario? Per Daniélou, c’è un’urgenza nell’amore che mal si accorda con il quietismo o con la ritirata dal mondo pagano. “Possiamo lavorare all’evangelizzazione del mondo, affrettare la conversione delle anime in vista della parusia, cioè il compimento di tutte le attese,” afferma Lynch. Conclude il suo contributo indicando nella croce di Cristo la forma di ogni missione cristiana, anche attraverso l’esempio del rapporto fra Jean Daniélou e il suo fratello Alain.

Vincent Twomey affronta il tema del fondamento antropologico della missione della Chiesa partendo da una breve esposizione della responsabilità oggettiva che la Chiesa ha nei confronti di tutti gli uomini. Tutta la storia del mondo mostra un movimento “ascendente” verso l’unione tra il mondo e Dio. La fede afferma che questa unione è avvenuta in Cristo, e quindi “il rapporto tra la storia ascendente del cosmo e l’evento-Cristo è tale che il primo è precondizione (o preparazione) per il secondo, mentre dall’altra parte Cristo concede al mondo ciò che non avrebbe mai potuto raggiungere da solo”. Ne segue che lo scopo di Cristo nel fondare la Chiesa era per raggiungere i “molti”.

La parte più corposa dell’articolo di Twomey si concentra invece sulla questione più difficile della salvezza del soggetto. Richiama la povertà di spirito, analogamente a quanto ha fatto Tremblay aprendo il convegno, come una sorta di “fede prima della fede”. Questa posizione è cruciale proprio perché la coerenza con i convincimenti soggettivi non può essere il criterio sufficiente della salvezza: ne conseguirebbe una serie di assurdità, tra cui l’uomo delle SS che si salverebbe perché ha seguito bene la sua coscienza. Ciò che Twomey propone invece è che “ciò che salva l’uomo non è il sistema ma qualcosa che trascende qualunque sistema: l’amore e la fede che mette fine all’egoismo e all’hybris distruttivo. Le religioni possono aiutare e anche ostacolare tale atteggiamento di povertà di spirito.

Twomey evidenzia la comprensione di Ratzinger del cristianesimo come “fede in un evento”, e che “Dio cerca l’uomo nel mezzo delle sue connessioni e rapporti mondani e terrestri”. In questo, Ratzinger dipende esplicitamente da Daniélou. Ha una posizione molto simile a quella di Daniélou anche rispetto all’importanza da ascrivere ai “valori” umani: “in questo nostro mondo, natura e soprannatura non sono mai strettamente separati, ma si interpenetrano. A causa di ciò, tutti i valori veramente umani sono segnati da entrambi l’elevazione soprannaturale divina e dal peccato umano”.

Rispetto alle religioni del mondo, Ratzinger critica le modalità più comuni di concepire il rapporto tra le religioni e il cristianesimo, perché “tendono a trattare le religioni del mondo indiscriminatamente” – in altre parole, ragionando in base a categorie invece che in base alla concreta esistenza di ogni religione, come evidenziato anche nelle relazioni di Mazzanti e Cerruti.

Secondo Twomey, Ratzinger non mostra un particolare senso di urgenza rispetto alla proclamazione della Buona Novella ai non battezzati. Cita a suo sostegno un brano in cui Ratzinger afferma che “il vero ministero di liberazione per la Chiesa oggi è di tenere alta la fiamma della verità nel mondo. […] Il vero contributo della Chiesa alla liberazione, che non può mai posporre e che è più urgente oggi, è di proclamare la verità al mondo, affermare che Dio è, che Dio ci conosce, e che, in Gesù Cristo, ci ha dato la strada alla vita. Solo allora ci può essere una cosa come la coscienza, la ricettività alla verità, che dona ad ogni persona accesso diretto a Dio e fa lui più grande di ogni sistema mondiale concepibile”. Forse la proclamazione della verità coincide già con la missione, ma appare qui una differenza importante tra la posizione dei due autori in esame. Daniélou propende per una missione popolare, tanto attiva quanto contemplativa, verso tutti, in fretta. Ratzinger preferisce sottolineare la precisione della verità, anche a costo che la Chiesa sia una minoranza, e si esprime senza gli accenti dell’urgenza.

Il saggio finale è di John Milbank, il quale svolge una riflessione sul metodo dell’interpretazione della storia e dei testi a partire dal pensiero poetico e sociale di Charles Péguy. Ci è piaciuto offrire questo contributo in particolare per le domande concrete che esso suscita: idealmente “lancia in avanti” una pista da continuare a investigare. Anche alla luce del Magistero di Papa Francesco, il contributo di Milbank sottolinea l’importanza del tema proposto e della decisione di accostare Ratzinger e Daniélou, per operare il discernimento dei segni dei tempi cui siamo chiamati. Entrambi gli autori studiati, sia nella loro profonda vicinanza sia nella loro differenza, sono esempi esimi di tale discernimento.

Milbank afferma in apertura che la forma della poesia di Péguy, “variazioni su tema”, non ammette una “sistematica chiusura interpretativa”. Il lettore non può “interpretare genuinamente, ma solo glossare, o ripetere differentemente in una sorta di prosieguo del testo in termini di metodo e contenuto insieme”. Ciò potrebbe sembrare un limite, ma secondo Milbank rappresenta invece il cuore stesso dell’atteggiamento corretto non solo dell’interprete di Péguy, ma anche dello storico, dell’esegeta, e in generale del cristiano tout court. Questa considerazione sorprendente è in netto contrasto con la “religione civile dell’avvenire” (civil religion of futurity) che caratterizza gran parte del pensiero e dell’azione temporale di oggi. La storia non è un processo di aggregazione, un meccanico “progresso”, Milbank sostiene, ma è il tempo di un organismo che nasce e invecchia e che ha bisogno di ri-nascere attraverso il ritorno alle fonti, come abbiamo ampiamente visto in Daniélou e Ratzinger nella prima parte di questo volume.

Milbank espone quattro critiche di Péguy allo “storicismo laico e positivista”. Centrale in queste critiche è la costatazione che il concetto di “evento” che fonda la possibilità stessa di pensare un vero novum nel tempo ha la caratteristica di essere un “esempio di particolare unicità finita” che però “sembra coincidere con l’infinito”. Perciò, “l’unica storia possibile consisterebbe allora in una mediazione tra oggettivo e soggettivo,” comprendente sia la fedeltà ad un orizzonte di significato proprio del passato, sia un impegno ad approfondire quello stesso orizzonte nel futuro. Questo punto, secondo Milbank, apre al fatto che soltanto la storia sacra è in grado di superare le aporie ivi nascoste. “La ‘spiegazione’ di un avvenimento deve cedere il passo […] al carattere rivelatore di un avvenimento”.

L’importanza di questo principio si evince da un paragone tra la concezione gioachimita e agostiniana della storia, gravide di conseguenze per la comprensione della cristologia (incarnazionista o escatologica), il rapporto tra natura e grazia, tra materia e spirito. Per Milbank, “l’approccio di Péguy effettivamente fa rivivere, in modo nuovo e per certi versi moderno, proprio questa visione della storia agostiniana e cristocentrica, che tuttavia era stata intralciata da Gioacchino”. Possiamo notare che Daniélou fa propria questa visione della storia, e dipende direttamente da Péguy per alcune scelte cruciali che lo distanziano da Gioacchino. Secondo Milbank, Ratzinger invece, nella stagione giovanile rappresentata dalla sua tesi di dottorato su Bonaventura, “sembra assegnare uguale validità alla posizione di Tommaso più agostiniana sulla storia e a quella più gioachimita di Bonaventura”. E nella sua maturità (rappresentata da Introduzione al cristianesimo), Milbank evince un’apparente antitesi in Ratzinger: “si trovano affermazioni secondo cui la cristologia non deve essere concepita come Dio che ‘affonda ulteriormente le radici nel mondo’, ma piuttosto come un incoraggiamento alla trascendenza spirituale del mondo”. Questa antitesi, se esiste, ha conseguenze per il rapporto carisma-istituzione oltre che per il rapporto tra il Figlio e lo Spirito.

Il punto cruciale per Milbank sta nella capacità dell’approccio agostiniano (che, secondo lui, è proprio anche di Daniélou) di dare meno importanza provvidenziale agli eventi specifici della storia della Chiesa, per rispettare la logica dell’Incarnazione: “tutta la dimensione meramente umana è ora di ugual valore sacro e tutta la storia della Chiesa è satura di significato divino-umano”. Si può arrivare a questa considerazione anche per la via aristotelico-tomista: “per l’Aquinate […] l’intera possibilità di un evento storico scientificamente significativo dipende dall’Incarnazione, in cui la prima e universale causa ha assunto in sé un essere umano particolare e una storia umana specifica”. Con ciò si può tornare al punto di partenza e vedere che “nei termini di Charles Péguy […] la vita cristiana ‘ripete’ sempre lo stesso evento-Cristo, ma non-identicamente”. La liturgia presenta esattamente questo paradosso, un evento che ha un inizio ma non ha un fine, e che è memoriale, presenza del passato in un eterno presente.

Le conseguenze per la vita sociale sono profonde. Lasciando l’intera serie delle considerazioni di Milbank alla lettura del suo articolo, possiamo sottolineare la sua affermazione che “tutta la finita vita umana scorre in cerchi, e quindi noi dovremmo ripetutamente inscrivere tali cerchi non al di fuori di un obiettivo, non per raggiungere un qualche punto finito, ma giocosamente, come bambini e al di là di una speranza che non è speranza di qualcosa di definito, ma oscuramente speranza remota di beatitudine eterna, nella quale l’inutilità oltre il limite verrà completata infinitamente”. Il Dio fattosi uomo insegna, anche attraverso le proporzioni schiaccianti della vita nascosta rispetto alla vita pubblica, “l’aspetto puramente ludico, gioioso della vita fine a se stessa come vissuta dai gigli del campo”. In altre parole, la vita vissuta con un cuore puro, che ha imparato attraverso l’Incarnazione a stimare il tempo presente, compresa la materia, la politica, e il lavoro, senza fare della speranza una proiezione mitologica nel futuro immaginario.

L’appendice del volume raccoglie tre contributi più brevi, offerti da studiosi che hanno partecipato al congresso.

Il primo, di Isabel Troconis, evidenzia come la risposta ratzingeriana allo storicismo sia ispirata dall’antropologia relazionale biblico-patristica e dalla struttura profonda dell’ontologia dell’immagine, in quanto raccordo tra la Trinità e la creazione. Sincero Mantelli mette in evidenza la centralità nel pensiero di Daniélou dell’akolouthia, elaborata nella teologia di Gregorio di Nissa, come categoria che collega il livello esegetico e quello dogmatico, in quanto traccia della profondità del mistero presente nella storia, che unisce passato e presente. Infine, Giuseppe Fidelibus mostra la centralità e l’attualità del rapporto agostiniano tra fede e ragione attraverso la sua irradiazione nella teologia di Ratzinger.

Buona lettura!

Roma, 11 luglio 2016, Festa di S. Benedetto