Ror Studies Series | Storia e mistero | Saggio finale
“Il y a toujours un jour qui n’est pas la même chose que la veille”: Il cristianesimo e la storia negli scritti di Charles Péguy
John Milbank
Nottingham University
La storia e l’evento
(I)
Forse si può dire che la storia è il centro dell’interesse della vita e del lavoro di Charles Péguy. Egli è un personaggio storico come agitatore politico e polemista; la sua poesia cerca non tanto di evocare il passato dei Vangeli e della storia di Francia quanto di ri-rappresentarlo, rivivificarlo e di risuscitarlo nel presente; la sua filosofia ha molto a che fare con la natura della storia e del tempo, ma in modo da denunciare pubblicamente ogni versione teoreticamente scissa di tale aspetto in quanto alla base del nucleo stesso del moderno errore post-cristiano. In tal modo le sue riflessioni teoretiche costituiscono un ponte tra la sua attività di agitazione politica che sostengono e il suo atto poetico di rimemorizzazione del mistero cristiano. Quest’ultimo liturgicamente era tutt’uno con il suo modus agendi più nascosto, più tragico, più familiare e privato, che egli considerava anche come un linguaggio dell’impegno più storico e più genuinamente sociale.1
Talvolta si considera che queste tre sfaccettature dell’impegno di Péguy con la storia – e il suo impegno storico – costituiscano tre diverse fasi: il socialismo laicista, la critica dello scientismo laicista e dello storicismo e un completo quanto anomalo abbraccio della fede cattolica. Ma, sebbene in certo senso tale prospettiva sia in parte vera, adottarla in maniera esclusiva probabilmente significa cadere vittima dello stesso inganno che Péguy condannava più di tutto: ovvero quello di sostituire un documento storico “empirico” con la realtà del tempo vissuto che ha a che fare con il flusso e la fusione della memoria. Così, per qualsiasi autore e meno che mai per Péguy, non vi sono, in origine, nel corso del loro lavoro stadi sequenziali separati e circoscritti, ma piuttosto anticipazioni, sovrapposizioni, recuperi e rimandi complessi. Ciò a volte può giustificare fino a un certo punto il trattamento dell’intera oeuvre di un autore come un tutt’uno, relativamente con scarsa attenzione a periodizzazioni, adattamenti, sviluppi e cambiamenti d’opinione. Nel caso di Péguy, tale tipo di procedimento sembra abbondantemente giustificato al punto che egli uniformò sommamente la condotta al credo, in tal modo che la sua scrittura guarda sempre a un’illuminazione successiva, mentre allo stesso modo essa ritorna sempre su se stessa e a precedenti fasi autoriali, dal livello micro a quello macro, dall’espressione singola (piena di assonanze verbali) attraverso la frase, il paragrafo e il libro, alla sua intera serie sequenziale di scritti, che comportava un forte lavoro di riscrittura e riadattamento.
Perciò il lavoro di Péguy manca di una strutturazione normale o di uno sviluppo narrativo e argomentativo. E, di conseguenza, esso oppone resistenza non solo a qualsiasi ristrutturazione successiva, ma anche a ogni esegesi verificabile o persino a ogni atto di interpretazione. Apparentemente esso è illisible, illeggibile, come suggeriva Bruno Latour, quarantuno anni fa, nell’anniversario della nascita (l’anno in cui sto scrivendo, il 2014, è l’anniversario della morte avvenuta allo scoppio della Prima battaglia della Marne).2 Semplicemente facendo variazioni su tema, Péguy lascia inespressi procedimenti, ipotesi, indicazioni e conclusioni. Di conseguenza, il lettore deve provare a riempire i vuoti, anche se per fare ciò nello spirito di una sistematica chiusura interpretativa, tradirà sicuramente l’originale idioma di Péguy senza cuciture e dal finale aperto, laddove, come dice Latour, è impossibile riesumare il linguaggio dal contenuto: ne sarebbe un esempio vedere la sua lunga discussione su Les Châtiments di Hugo come meramente illustrativa piuttosto che costitutiva dell’argomento di Clio II. Dal momento che è impossibile dire cosa è basilare e condizionante nell’opera di Péguy, in contrapposizione a ciò che è accidentale e condizionato, il lettore non può interpretare genuinamente, ma solo glossare, o ripetere differentemente in una sorta di prosieguo del testo in termini di metodo e contenuto insieme. Eppure, come vedremo, cercare tale relazione con Péguy vuol dire entrare in una posizione letteraria e storica che egli pensa si dovrebbe tenere nei confronti di ogni artefatto storico considerato come testo e spiegazione di un testo.
Se si rispetta tale carattere della sua opus, di ripiegarsi costantemente su se stessa e di cogliere senza fine il procedimento dal contesto e il contesto dal procedimento, allora diventa chiaro che non si possono separare la sua prima produzione da quella di transizione e da quella matura, né il lavoro letterario da quello storico, politico, filosofico e teologico. Il socialismo di Péguy rimane cruciale per la sua teologia, mentre al contrario le sue realizzazioni poetiche cattoliche coronano il suo impegno politico. E il cardine teoretico-sostanziale qui è la sua riflessione del periodo di mezzo sulla relazione tra tempo ed eternità e tra eternità e tempo. Di nuovo, nel considerarlo scopriamo che i pensieri di Péguy sul metodo storico sono inscindibili dalla sua filosofia del corso reale della storia umana.
La riflessione in esame si focalizza nondimeno su una critica del progressismo secolare. Nel corso di Clio II, Péguy da repubblicano mette in discussione l’atteggiamento usuale della sinistra nei confronti della Rivoluzione francese, che la considerava il superamento degli abusi da parte dell’avanzata delle idee illuminate riguardo ai diritti dell’uomo3. Invece, Péguy suggerisce che l’ancien régime più o meno collassò di per sé. Una monarchia e un’aristocrazia cristiane un tempo gloriose, non del tutto sorde alla chiamata al servizio caritatevole, non completamente dedite al culto del denaro, alla fine si estinsero a causa della loro sbilanciata decadenza. Al contrario, la rivoluzione non è nata in primo luogo in uno spirito di critica negativa né dall’assunzione di ideali astratti, ma piuttosto come una nuova mistique, un ineffabile nuovo senso di fratellanza in un determinato tempo e luogo, in un gruppo unico di amici, che ha espresso se stesso, come si sa, nell’assalto alla Bastiglia. Tale avvenimento sin dall’inizio ha preso il linguaggio di un rituale, divenendo così la commemorazione di se stesso e avvenendo semplicemente come un novum, come un’inaugurazione radicale, dal momento che aveva tale carattere paradossale di essere originalmente ripetuto.
Ma ai suoi giorni, agli esordi del Ventesimo secolo, pensa Péguy, l’impeto rivoluzionario ha sofferto un viellissement prematuro, tale che il particolarissimo spirito che era penetrato tra i dreyfusardi, cosa che nuovamente unì mystiques ebrei, cattolici e repubblicani, ha portato all’ultimo capitolo autentico della storia del repubblicanesimo francese.4 Abbracciando la delusione del progresso, tale impeto ha già tradito le sue fondamenta ineffabilmente rituali fino a inabissarsi nella condizione di mera politique. Invece di essere esclusivamente rivolto al diritto assoluto e alla dignità di ogni essere umano in ogni tempo e luogo, e con la sempre rinnovata chiamata all’associazione, si è arreso a un costante sacrificio essenzialmente utilitaristico di tutto e tutti a beneficio delle future generazioni, un sacrificio che deve, dunque, essere ripetuto all’infinito e senza senso. Il veicolo di tale mostruoso processo è lo stato, che ha in tal modo perso contatto con l’antica città e civiltà in favore di una registrazione, etichettatura e organizzazione strumentale e burocratica delle risorse umane. Laicité è arrivata a significare non una separazione possibilmente benefica tra religione e potere, che potrebbe maturare fino alla crescita della libertà spirituale, ma una pubblica negazione dogmatica dell’eterno, con il suo rapporto immediato con ogni momento presente (che in tal modo non è negato, ma sostenuto nel suo significato irriducibile) in favore della religione civile dell’avvenire come nostra unica fonte di proposito condiviso e di redenzione attesa da parte di discendenti infinitamente progrediti.
Dal momento che questo nuovo culto è un affare di quantificazione e calcolo, il nuovo mediatore sacro è il denaro e si può ipotizzare che è in virtù di tale mediazione che Péguy pensa che noi ora siamo entrati nell’era post-cristiana, che semplicemente tira avanti senza far minimamente riferimento alle nozioni di creazione, peccato, incarnazione, redenzione, grazia e dannazione.5 Il dato ontologico, con la perdita temporale, il guadagno, la disperazione e la speranza, ora hanno invece tutti carattere pecuniario tale che molte persone corrono il rischio di entrare in una condizione di indifferenza peggiore di quella dei peccatori, che in negativo comprendono il dramma della salvezza e della dannazione. Ma ci sono ancora i ministri del nuovo sacramento del sistema monetario e i nuovi chierici, gli “intellettuali” che asseriscono di possedere un equivalente sociale e storico della comprensione sperimentale e tecnologica della natura. Si possono trovare nelle università, ma in ultima analisi lavorano per lo stato e possono ben essere reclutati per l’apparato amministrativo statale. Ed essenzialmente si presentano sotto due forme diverse: o sono teorici a priori del sociale, i “sociologi” che hanno fantasticato su determinate leggi astoriche di una supposta costante sociale, al posto della costanza dell’eternità, o invece sono empiristi, storici professionisti che devono dare determinati resoconti “totali” e accuratissimi di avvenimenti ed epoche storiche, al fine di tracciare gli avanzamenti o gli indietreggiamenti della società nel tempo. Péguy sta qui pensando all’eredità di Jules Michelet (che egli d’altra parte ammirava per aver riesumato la storia del popolo). E dal momento che l’appoggio della “histoire totale” venne costruito su tale eredità, si può intendere che egli scriva per criticare l’approccio annaliste, che arrivò in anticipo a dominare la storiografia francese del Ventesimo secolo.
Contro questo nuovo storicismo laico e positivista, Péguy introduce in Clio II una famosa critica devastante.
Essa consiste in quattro argomenti principali. Primo, gli antichi e non i moderni avevano ragione: la storia non è un processo tecnico artificiale che tende ad un progresso aggregativo, ma rimane il tempo di un organismo o di un animale, per quanto prodigiosamente intelligente e liberamente inventivo. Dal momento che le civiltà sono anche culture, naturalmente sorgono, godono di una breve maturità, ma poi si logorano nelle loro consuetudini e alla fine deperiscono. Come vedremo più avanti, è cruciale per la teologia piuttosto drastica di Péguy il fatto che anche l’avvenimento cristiano e la città cristiana alla fine non hanno potuto evitare questo processo ed era forse inverosimile farlo. Insistendo sull’ineludibile vieillissement, Péguy ci indica, come molti altri poco dopo di lui, quali Spengler, Toynbee e Dawson, una prospettiva interculturale della metastoria e ci allontana da fantasie angustamente etnocentriche di progresso continuo che le metastorie idealistiche del XIX secolo avevano avuto la tendenza di promuovere. All’interno delle civiltà, per lui, il progresso relativo non dipende da crescite incrementali, ma dalla renaissance costante, dal costante ritorno ad fontes e dai costanti daccapo e daccapo. Come sottolinea Latour, questo motif del “ritorno” in Péguy non riguarda mai l’essere reazionario o conservatore, ma piuttosto una rivisitazione delle radici neglette che rimangono per sempre nuove e sorprendenti, per sempre avanguardia di una cultura alle sue origini.
La decadenza o vieillissement alla fine è, comunque, quasi inevitabile, dal momento che le culture non sono fondate su abilità materiali che probabilmente non si perdono o possono prontamente essere recuperate, e nemmeno su idee che possono essere scritte nero su bianco e formalizzate e così sempre riapplicate, anche se vengono temporaneamente dimenticate. Invece, le culture si fondano su una mystique, termine con cui Péguy intende qualcosa di simile a un insieme condiviso interpersonalmente di pratiche rituali che legano insieme il materiale e il simbolico e la cui logica rimane fino a un certo punto ineffabile e così, proprio per questo motivo, vitale e ispiratrice. Si potrebbe sottolineare a questo punto che è caratteristico dei filosofi cattolici della storia, da Vico a Ballache, a Schlegel a Dawson e Voegelin, rendere in ultima istanza determinante il rituale e il religioso, piuttosto che l’ideale o il materiale, che tendono tutti e due ad essere le preferenze oscillanti dei metastorici protestanti o dei loro successori atei. In tal modo, come enfatizza soprattutto Christopher Dawson, il loro approccio è molto più consono alle conclusioni dell’etnografia che riguarda il “preistorico” – con il quale, ciò nonostante, la nostra “storia” può essere vista molto plausibilmente, dopotutto, in un continuum.6
Il secondo argomento ha a che fare precisamente con questa questione delle origini. La storiografia esamina i documenti al fine di registrare i fatti con accuratezza, ma proprio questo supposto realismo è destinato a mancare la realtà degli eventi. Tutti gli eventi e quelli significativi preparati in segreto, specialmente, sono più orali che scritti e acquisiscono lo statuto di eventi soltanto retrospettivamente, nei termini della loro influenza successiva. Come uno scritto di letteratura, si suggerisce in Clio II, qualsiasi “registrazione” di questo processo è soltanto una “versione”, soltanto un’interpretazione di un processo più fondamentale. Proprio perché tale processo è sempre un’ispirazione dinamica finalizzata all’acquisizione del tipo di significato che deve sempre connotare un evento, rimane fino a un certo livello oscuro e ineffabile, bloccato nella sua latenza originaria, che (si potrebbe dire come il “potenziale” aristotelico) è cionondimeno una realtà ontologica e, per di più, del tipo più denso.
Così ci si ritrova alla presenza del paradosso per cui un evento, per essere tale, deve già aver registrato se stesso, cosicché la storia sia sempre già storiografia, e che la realtà umana vissuta sia originariamente adombrata dalla letteratura e il reale dal fittizio. Il “poetico” è doppio, in modo che senza qualcosa che sia stato “fabbricato” nel regno dell’immaginazione, niente è materialmente “fatto” come evento o factum. L’autentica realtà dell’evento richiede questo apparente supplemento.
Eppure, per ricomporre il paradosso, anche se il supplemento non è necessariamente un’alienazione di tipo hegeliano, esso sin da principio, contiene alcuni elementi di declino e insufficienza (più simile a un’emanazione neoplatonica), dal momento che la novella ispirazione della nuova irruzione non riesce mai a esprimersi con piena soddisfazione, anche se tale espressione non viene “dopo” l’origine, ma coincide con essa. Ciò significa che l’espressione è semplicemente inadeguata all’ispirazione perché non riesce ad essere sufficientemente ispirata, non riesce ad arrivare ad un’adeguata ispirazione che emergerebbe già come un’espressione più piena. Si nota la stessa tensione nell’atteggiamento di Péguy nei confronti del pensiero e della composizione: da un lato c’è un’inesauribile intuizione, dall’altro l’intuizione autentica ha sempre già iniziato ad essere il lavoro pazientemente ripetuto dell’elaborazione discorsiva.
È proprio per questo doppio paradosso che, in tutta l’oeuvre di Péguy c’è una tensione tra il tema dell’“originale puro”, che è già gravido di tutto ciò che avverrà, e la necessità di “allungare il passo”, andare avanti e rischiare di crescere, vivere e morire, se si vuole essere completi e chiaramente autentici. Ciò lo rende, come nessun altro dai tempi di William Blake, poeta dell’innocenza, dell’esperienza e della loro interazione. L’esperienza, come ripetizione originale, è stata già avviata per sempre; eppure allo stesso modo essa non aggiunge niente a un’innocenza che tradisce sempre e la cui potenzialità d’ispirazione originale, giocosa e liturgica, contiene tutto ciò che può essere imparato in anticipo e precede sempre qualsiasi cosa che possa essere espressa o scoperta. Così il vecchio ha perduto la freschezza del bambino ed è paragonato a lui ancora una volta soltanto nella misura in cui, alla fine della sua vita, egli ha di fronte a sé lo stesso che ha di fronte a sé il bimbo, nella forma dell’eternità.
Di conseguenza, tutti gli ultimi giorni della Bastiglia sono pallidi echi dei primi, tradendo quella innocenza che non tornerà più, eppure allo stesso tempo, c’è stato soltanto un primo giorno dal momento che i successivi sin dall’inizio lo hanno ripetuto in un’autocommemorazione.7 Per un simile capovolgimento, le ninfee più tarde della famosa serie di Monet appaiono fresche e più “originali” e “basilari” dei fiori dipinti prima. Si potrebbe perciò dire che Péguy, in una serie, considera evento la seconda occorrenza come la prima dal momento che è la sua commemorazione e deve essere accaduto almeno due volte per essere accaduto una volta. Eppure allo stesso tempo l’avvenimento è Primario e non è affatto inscritto in una serie, perché è il principio indiviso di tutta la serie. Ciò equivale, sulla scia di Bergson, a un tipo di applicazione di considerazioni neoplatoniche a processi orizzontali, temporali.
E da entrambi i lati del paradosso, ci si muove qui all’interno del tempo reale, vissuto, esperito e ricordato, se si fa riferimento alla nozione bergsoniana di durée. Esperisco un avvenimento passato soltanto perché quando me ne ricordo lo collego per significato ad altri avvenimenti precedenti o posteriori in una fusione intima che è estranea a qualsiasi puntualità “spazializzata” del tempo dell’orologio. Soltanto se viene infinitamente ripetuto non-identicamente nel futuro, la sua rilevanza permane e il suo forte carattere di avvenimento continua a profilarsi. Una rivoluzione fallita quasi letteralmente non “avviene” nella stessa misura in cui avviene una che va a buon fine.
Allo stesso tempo, il trasferimento di durata di Péguy da un piano psichico a uno storico denota da parte sua una certa denigrazione della dualità bergsoniana tra tempo interno psichico fuso e le semplici apparizioni esterne degli eventi discreti. Al contrario, per Péguy, se il tempo umano è sempre prima di tutto pubblico, in quanto fisicamente mediato dal movimento e convenzionalmente simbolico secondo le demarcazioni del calendario, allora la durata consisterà, anche per la memoria interna, in nient’altro che una catena8 di eventi che, sebbene abbiano natura concatenata, rimangono anche misteriosamente separati. La catena è fatta solo di anelli, sebbene non si verifichi mai il caso di un anello solitario. E il segno di tale separazione è che nessun avvenimento reale può essere pienamente assorbito in una sequenza. Se mai fosse “finito” una volta e per sempre, o pienamente determinabile, sarebbe impossibile che avesse rilevanza epistemologica o che la prima volta fosse ontologicamente accaduto. Gli eventi più decisivi, senza i quali non ci sarebbe storia umana, si verificano proprio perché sono saturi di significato – di altri eventi, molte parole e conseguenze verbali e fisiche che li circondano da tutte le parti, ma per ragioni che non possiamo spiegare del tutto.
In ogni caso, per Péguy gli accademici ignorano irrealisticamente e acriticamente entrambe le facce del paradosso. Non riescono a capire che la casualità storica è retrospettiva, che ciò che è accaduto una volta dipende da cosa è successo dopo, e non riescono neanche a comprendere che gli avvenimenti importanti sono tali proprio perché indefinibili e perché ci si può discutere sopra all’infinito. Di conseguenza, un rapporto vissuto in forma popolare con gli eventi, attraverso memoria privata, pettegolezzi e versioni romanzate, poiché più accessibile all’insegnante di un liceo di provincia che non al professore parigino, si avvicina di più in ogni caso alla realtà storica rispetto alle pedanti ricerche degli storici – riflessione che per Péguy restituisce molto della faccenda dell’esegesi biblica in stile Renan, pietosamente assurda nei confronti dell’evento più saturo di tutti. Per il curatore dei Cahiers de la Quinzaine è perciò il caso che il sofisticatamente metafisico vada a braccetto con l’innata saggezza folclorica, laddove il trionfo dello “scientifico” in campo umanistico è in realtà il trionfo della media cultura e del camaleontismo. Ciò, secondo lui, è stato il destino dei suoi compagni dreyfusardi di un tempo, che una volta sostenevano, pluralisticamente, i diritti della mystique ebraica a cui nessun vero cattolico può mai mancare di rispetto, ma che adesso supporta un dogmatismo secolare nel dimenticare che la rivoluzione stessa nacque in un’atmosfera di apertura liturgica.
Il terzo argomento ha a che fare con un’ulteriore implicazione del carattere saturo dell’avvenimento. E ciò è tale che non ci può essere, in linea di principio, nessuna storia esaustiva, anche se i professori parlano e agiscono come se ciò fosse possibile. Un avvenimento può durare un minuto o un giorno, eppure le ricerche sulla sua realtà necessariamente durano più a lungo e non hanno mai fine. Ciò avviene perché un fatto eccede tutte le sue circostanze causali su cui si può discutere all’infinito poiché sono innumerevoli quando si divide in modo infinitesimale il processo locale e immediato di un evento o quando si allude al panorama di tutte le sue infinite diramazioni nel tempo e nello spazio. Il vero interesse della storiografia consiste nel circoscrivere il finito, eppure risulta che l’evento come esempio di particolare unicità finita sembra così coincidere con l’infinito. In tal modo non si hanno mai prove sufficienti per alcunché (specialmente per quanto riguarda l’antichità) o quasi sempre troppe (specialmente per la modernità). E, dal momento che un evento esiste soltanto nella ripetizione, non ci si può neppure davvero staccare dal passato per produrre soltanto storia oggettiva, quantunque anche la storia soggettiva sia problematica, dal momento che la stessa indeterminatezza storica accompagna le domande “chi siamo davvero?” e “a che cosa equivalgono davvero le idee di ciascuno di noi nel presente?”. L’unica storia possibile consisterebbe allora in una mediazione tra oggettivo e soggettivo che richiederebbe una fedeltà remissiva a un certo passato orizzonte di valore e allo stesso tempo un impegno ulteriore ad esplorare quell’orizzonte in futuro.
Eppure se è il futuro concepito come aggregativo, ad essere solo proiettato dal suo passato storico, come per il positivismo prevalente, allora tale sforzo storiografico sarebbe allontanato dal dibattito. Péguy sembra dunque intendere non soltanto che è possibile esclusivamente una storia impegnata, ma che solo una storia sacrale può superare la strategia delle aporie scettiche che ha delineato. La “spiegazione” di un avvenimento deve cedere il passo – come il metodo al contenuto narrato – al carattere rivelatore di un avvenimento di per sé divulgativo e strutturante e sempre orizzonte sostanziale che supera qualsiasi mera prospettiva formale. Ne consegue che se dobbiamo spiegare la storia in generale allora ciò richiederà fede nell’esplorazione di certi eventi e forse di un solo evento supremo che ci permetta di costruire narrazioni di portata umana universale.
Tale implicazione è messa a paragone e sviluppata più nello specifico in relazione alla quarta critica dell’atteggiamento storico della nuova “epoca degli intellettuali”. Qui passiamo dal livello della registrazione empirica a quello dell’esempio empirico e della raccomandazione sociologica all’azione. A questo livello possiamo localizzare ancora una volta il tema della religione civile dell’avvenire. Péguy afferma che questo credo laico rende incoerenti tutte le nozioni di giustizia e dunque di etica. Ciò perché all’eternità e al Dio dell’eternità abbiamo sostituito la storia e così la sua guardiana pagana personificata, Clio, che ci dice che non ha mai preteso di governare da sola. Non c’è più un Uno eterno che giudichi tutti noi qui giù, ma, invece, ognuno di noi in futuro è infinitamente soggetto al giudizio revisionista di un grande numero indefinito di persone che saranno anch’esse sostituiti in modo imprecisato e a loro volta rimpiazzati. Eppure i loro verdetti su di noi e i nostri effetti su di loro sono sconosciuti; la loro anticipazione è inutile e per questo non dovrebbe essere eretta, come avviene sovente, a principio secondo cui guidare la nostra pratica sociale e individuale. Inoltre, l’incertezza di tale guida può soltanto incoraggiare un errare sul versante dell’azione autosacrificale o persino autodistruttiva in un incredibile eccesso di patologica autoumiliazione religiosa. I cento anni successivi al 1914 hanno abbondantemente confermato la diagnosi di Péguy. Così sembrerebbe che dopotutto ogni diritto dell’Uomo e la sacralità del tempo che passa possono soltanto essere visti alla luce dell’eternità. Paradossalmente, è l’eternità a salvaguardare la rilevanza del momento presente; mentre è una pura e semplice prospettiva temporale a tradirla e a violarla. Allo stesso modo è soltanto un eterno senso di giustizia che può correttamente giudicare ogni epoca che passa: Péguy crede che un simile giudizio sul regime di Napoleone III sia stato mediato dagli Châtiments di Hugo, in cui le rime delle strofe finali che a volte scadono nel ridicolo lo “incoronano” negativamente con il verdetto di autofallimento e collasso autodeterminato.
In Clio I, Péguy (di conseguenza) denunciò les curés laïques qui nient la part d’éternel du temporel (“i sacerdoti laici che negano l’aspetto eterno del temporale”) intendendo dire che ciò impedisce il formarsi di una coscienza della storia umana, dal momento che essa si fonda sempre sull’iniziazione mistica (facendo forse eco a Pierre-Simon Ballanche) e una storiografia genuina deve riflettere su questa realtà elusiva.9 Qui bisognerebbe ricordarsi che Péguy frequentemente allude al fatto che l’antica città pagana si basava ancora sull’eternità e sull’anima, e che l’antico eroismo, che egli pensa trascendere il politeismo antico, non sarebbe stato possibile senza tali convinzioni, che lo sostennero durante e dopo il disastro.10 Così per lui il tempo postcristiano è particolarmente terribile ed è forse nato dal fatto che un corrotto e tardo cristianesimo (specialmente dopo Cartesio) aveva già in parte messo sul trono la sfera psichica e quella spirituale considerandole scisse dal corpo, eppure non immediatamente e necessariamente coinvolte nella trascendenza.11 E quasi sicuramente è implicito che la modernità ha svalutato la scoperta cristiana della dignità tragica della vita nel tempo dal suo contrastante riferimento all’eterno, per produrre il suo sterile culto dell’avvenire.
In tal modo, il postcristiano ha ricomposto in maniera triste e austera una modernità che stava per iniziare, in ogni caso, secondo Clio I, nel mondo tardo antico, ma che l’Incarnazione aveva interrotto – una modernità pagana “presentista” di decadenza edonistica, il passaggio dalla filosofia all’occultismo e dalla legge alla forza romana brutalmente organizzata. All’inghiottimento decadente della dimensione eterna e psichica nel dissipato presente, ha aggiunto il culto postcristiano che svolge ora il ruolo di celebrazione di un eschaton secolare e indefinito.
(II)
Qui ci si può soffermare a pensare che la visione di Péguy della storicità cristiana è profondamente non-gioachimita. L’abbate calabrese del 12o secolo aveva indirizzato una parte notevole del pensiero cristiano sulla storia lontano dai suoi ormeggi patristici e specificamente agostiniani, che avevano considerato l’Incarnazione culmine dell’era successiva alla Caduta avendo per conseguenza una graduale apertura al Logos divino o seconda persona della Trinità.12 Con l’incarnazione del Logos, l’eschaton è già arrivato e la storia è già compiuta. Per quanto, nonostante tutto, continui per un periodo di tempo relativamente breve (di durata sconosciuta), questa è, per Agostino, una storia d’intensa incarnazione del totus Christi,13 che è il corpo di Cristo in quanto Chiesa, Civitas Dei. Per quanto riguarda i Padri in generale, così come per Agostino, l’insieme dei significati spirituali dell’Antico Testamento si realizzano allegoricamente in questa figura dell’Unico Cristo, che nondimeno includeva il suo corpo esteso. Si trova qui tutta la rivelazione “spirituale” a cui tendeva il Nuovo Testamento, e che può essere adeguatamente messa in evidenza e anche completata essenzialmente (come sostenevano i primi autori medievali tra cui Ruperto di Deutz) soltanto dalla lettura allegorica che i Padri diedero della Bibbia stessa.14 Eppure, tale apertura “spirituale” è ancora quella dell’inaspettata incarnazione di Dio, la sola che permette agli esseri umani, al contrario, di ritrovare il loro destino spirituale di beatitudine finale.
L’approccio di Péguy effettivamente fa rivivere, in modo nuovo e per certi versi moderno, proprio questa visione della storia agostiniana e cristocentrica, che tuttavia era stata intralciata da Gioacchino, con un intervento che avrebbe avuto un’eco teologica e poi secolare molto duratura.15 In primo luogo, per il calabrese, seguendo l’innovazione a lui contemporanea di scrittori quali Ruperto di Deutz, Onorio Augustodunense e Anselmo di Havelberg, viene in realtà contraddetta la precisa affermazione di Agostino secondo cui non si possono fare paragoni precisi tra gli eventi avvenuti dopo Cristo (come l’incoronazione di Carlo Magno) e gli avvenimenti dell’Antico Testamento. Per Agostino tale rifiuto è inevitabile se si considera che Cristo, in quanto Dio incarnato, ha irrevocabilmente e insuperabilmente portato a compimento tutti gli annunci dell’Antico Testamento. Ma Gioacchino rileva ed estende certi rifiuti di questa visione da parte di altri scrittori monastici, che effettivamente considerano l’era successiva alla venuta di Cristo come un’epoca del mondo nuova e non soltanto finale, escatologica. Da tale punto di vista, si può considerare che condottieri politici come Carlo Magno furono profetizzati dalle loro controparti dell’Antico Testamento. Una simile prospettiva effettivamente inizia a vedere in Cristo una cerniera o medium oltre che una fine o l’inizio della fine.16
Ma, in secondo luogo, Gioacchino è andato troppo oltre suggerendo che l’era successiva alla venuta di Cristo stava cedendo il passo a una nuova era dello Spirito, un’epoca post-istituzionale di compimento puro e universale dell’apostolato. Questa nuova mossa intellettuale dà origine all’idea paradossale di un’epoca futura tutta all’interno del tempo materiale che è tuttavia caratterizzata da una spiritualizzazione, o di fatto da una disincarnazione. Joseph Ratzinger al riguardo dice giustamente che “spiritualizzazione” e “pneumatizzazione” non sono ancora sinonimo di “idealizzazione”, eppure si potrebbe affermare che l’idea in qualche modo contraddittoria di un futuro “reso etereo” su questa stessa terra materiale deve quasi inevitabilmente andare alla deriva nella direzione dell’idealizzazione.17 Ciò perché è proprio questo paradosso che, come affermava Henri de Lubac, col tempo incoraggia fondamentalmente a secolarizzare e a sostituire un’eternità spirituale con un futuro spiritualizzato realizzato sulla terra. De Lubac alla fine vide ciò come l’altra faccia complementare e definitiva della pura natura. Proprio come l’idea di una natura pienamente completa senza riferimenti soprannaturali dà spazio in anticipo al “puramente secolare”, così la speranza gioachimita concede curiosamente a questa pura natura, se purificata, il riconoscimento del puramente spirituale a prescindere dalle necessità materiali, sessuali, familiari e politiche umane.18 Sicuramente tale speranza è proprio il contrario della fede nel Dio incarnato, della sequela di un Dio che ci ha rinnovati immergendosi letteralmente nei normali, finiti processi umani.
Inoltre, come ha dimostrato Joseph Ratzinger nella sua tesi dottorale, mentre i francescani spirituali arrivarono ad associare la venuta di san Francesco e la mendicità radicale con l’irruzione dell’aeon pneumatico, anche i membri principali dell’ordine, sotto la guida di san Bonaventura, il Generale francescano, hanno accettato la prima parte dell’innovativo approccio di Gioacchino (condiviso con alcuni dei suoi predecessori), ma in nessun modo la seconda. Perciò per Bonaventura, oltre il livello di senso allegorico che punta interamente a Cristo, vi sono alcune theoriae profetiche che indicano futuri eventi nell’epoca cristiana, inclusa la comparsa di san Francesco e san Domenico.19
Di conseguenza, quest’epoca ha un destino gradatamente “spiritualizzante”: una propensione finale alla pura contemplazione e ciò può apparire paradossale se si considera il coinvolgimento col “mondo esterno” degli ordini mendicanti, di molto superiore a quello degli ordini monastici. Eppure, a differenza dell’ordine domenicano, che fu fondato per predicare e contrastare l’eresia (catara), in un certo senso i francescani si trovarono divisi tra la spinta verso uno stato più puro di contemplazione, oltre il supporto materiale del rito e della regola, da una parte, e la missione predicatrice dall’altra.20 Si può ravvisare in tale biforcazione una tendenza a separare a tutti gli effetti soprannaturale e naturale nelle rispettive purezze, mentre la tensione domenicana a conoscere più a fondo Dio è sempre unita al desiderio di comunicarLo. Per questo nel secondo caso il nuovo abbraccio di un destino più “apostolico”, che comporta allo stesso tempo un rigore più spirituale e un orientamento più esterno, tiene tuttavia molto in considerazione la concezione patristica e agostiniana, in cui la crescita spirituale o “deificazione” non va contro, ma anzi include un’incarnazione profondamente radicata o il divenire solidale con i casi di questo mondo. Entrambi gli aspetti erano ovviamente presenti anche per i francescani, ma tendevano a trovarsi maggiormente in antitesi, o, dove erano riconciliati, a riguardare un’identificazione con il mondo naturale preculturale, nel rifiuto dell’artificiosità tipica della natura umana.21 Così, mentre per i domenicani, la storia successiva alla venuta di Cristo resta la mediazione del Dio-Uomo attraverso il suo complesso ed esteso corpo sociopolitico (e perciò per ora imperfetto), per i francescani e in special modo per Bonaventura, diventa più una spinta disincarnatrice verso la massima acquisizione della perfetta contemplazione spirituale tra individui essenzialmente isolati.22 Dal momento che tale scopo comporta per loro che l’intelletto si arrenda alle emozioni e alla volontà, a questo punto si scopre, già, come anticipò de Lubac (almeno per quanto riguarda gli spirituali francescani), una certa idolatria della “libertà” e concezione del futuro come rilascio o “emancipazione” della libertà che alla fine informerà quasi tutte le ideologie secolari.
La delicata ferita aperta nella concezione cristiana della storia da Gioacchino e dai francescani in generale (non solamente dagli spirituali francescani) si fa sentire ancora ai giorni nostri. Così, per esempio, Henri de Lubac, Jean Daniélou e Joseph Ratzinger all’unisono sostengono il rifiuto della seconda tesi più importante di Gioacchino, l’era dello Spirito, e convengono su ciò che al riguardo più accomuna Bonaventura e Tommaso d’Aquino. Comunque, Ratzinger, nella fase giovanile della sua tesi dottrinale sulla teologia della storia secondo Bonaventura, sembrava assegnare uguale validità alla posizione di Tommaso più agostiniana sulla storia e a quella più gioachimita di Bonaventura, che è simile alla prima tesi principale di Gioacchino sui parallelismi tra i tanti avvenimenti delle epoche del Vecchio e del Nuovo Testamento. Questa concessione sembrerebbe in contrasto con l’agostinismo di Ratzinger (da cui egli aveva sempre saputo che Bonaventura aveva preso le distanze)23 con il suo successivo approccio alla teologia prepotentemente lubachiano, con il suo incisivo e ammirevole rifiuto, specialmente da Papa, che possa verificarsi un totale superamento dell’“ellenizzazione” della teologia cristiana e il suo mantenimento per niente volontarista né sentimentale della centralità teologica di una ragione integra (che includa pienamente la dimensione affettiva).
Tuttavia, nella piena maturità della sua scrittura teologica si trovano affermazioni secondo cui la cristologia non deve essere concepita come Dio che “affonda ulteriormente le radici nel mondo”, ma piuttosto come un incoraggiamento alla trascendenza spirituale del mondo, come se, apparentemente, queste due cose fossero, in realtà, in antitesi.24 Eppure si può notare qui che questo “affondare ulteriormente le radici” si identifica problematicamente con l’aspetto più istituzionale della Chiesa, piuttosto che con l’incorporazione e la socializzazione in quanto tali, che sicuramente hanno una missione molto più ampia e di base davvero interpersonale. Allo stesso modo l’Incarnazione vista come “il radicamento di Dio” viene associata da Ratzinger in special modo all’isolamento dell’umanità di Cristo dalla sua divinità.
È difficile comprendere, tuttavia, come una cosa del genere possa essere stata coinvolta in una presunta divisione patristica relativamente precoce dell’escatologia dalla pneumatologia, che è ciò che Ratzinger qui afferma: “la Chiesa non fu più concepita carismaticamente nell’ottica della pneumatologia, ma fu vista esclusivamente dal punto di vista di un’Incarnazione troppo legata alla terra e alla fine spiegata interamente sulla base delle categorie di potere del pensiero mondano” (anche se Ratzinger pensa che questa degenerazione finale si verificò molto molto più tardi). Ma gli approcci cristologici patristici alla Chiesa assumevano piuttosto una specie di “comunicazione di idiomi”, e mentre qualsiasi “assunzione di Dio nell’umanità” viene rifiutata da Atanasio, a causa dell’incommensurabile primato ontologico del divino, l’“assunzione dell’umanità nella divinità” implica una tale permeazione di tutto ciò che riguarda la natura umana da parte della divinità che senza dubbio la possiamo vedere come un “radicamento” di Dio.
Inoltre, nella migliore teologia patristica (in Agostino, per esempio) la coscienza fisicamente organica della Chiesa come corpo di Cristo non è forse equilibrata e qualificata dal senso interpersonale della Chiesa come Cristo che dona ai suoi seguaci il potere di riceverLo, concessione che è esattamente tutt’uno con la processione eterna dello Spirito dal Figlio? Ma se, come per Ratzinger in questo testo, “si tratta qui non dello Spirito in quanto persona nel seno di Dio, ma in quanto potenza di Dio che si schiude con la Risurrezione di Gesù”, allora non ci potrebbe essere il pericolo di pensare all’azione dello Spirito in modo troppo impersonale e soltanto “dinamicamente” come alla potenza della Divinità unita? Ed il pericolo di pensarla nel suo raggiungerci problematicamente separata dalla nostra partecipazione alle relazioni trinitarie – cosa che è problematica se le Persone della Trinità sono costituite dalle loro relazioni. In generale, Ratzinger in modo ammirevole vuole pensare Essere e Storia insieme, e mantenere dunque un profondo legame tra la Trinità eterna e la storia della Salvezza. Così deplora giustamente qualsiasi tendenza a “storicizzare” l’invocazione della Trinità nel Credo tanto da ritenere che la sezione sulla creazione riguardi soltanto Dio Padre. Eppure qualsiasi lettura teologica di questo tipo del credo sicuramente avviene soltanto molto più tardi, e sarebbe strano biasimare la stessa “storicizzazione” per un eccessivo legame dello Spirito con il suo emergere dal Cristo incarnato, rendendo con ciò la terza sezione del credo “un prolungamento della storia di Cristo nel dono dello Spirito e, perciò, come un riferimento agli ‘ultimi giorni’ che intercorrono tra la venuta di Cristo e il suo ritorno”.25 Strano, perché la “storicizzazione” sta qui producendo il risultato opposto a quello lamentato da Ratzinger per quanto riguarda la prima parte del Credo, ovvero la separazione dell’azione del Padre nella creazione da quella delle altre due Persone. Perché in questo caso egli sta lamentando un’eccessiva prossimità tra il Figlio e lo Spirito! Ma in quel caso, allora il focus storico sull’evento della mediazione temporale dello Spirito per mezzo del Figlio non sta forse raggiungendo proprio quell’unità di ontologia trinitaria e storia della salvezza che Ratzinger ricerca così giustamente? A questo punto, l’apparente desiderio di garantire più indipendenza alla discesa verticale dello Spirito è dichiaratamente tutt’uno con una certa scissione dello stretto legame tra l’azione economica dello spirito con l’escatologia e con il Cristo incarnato visto già come “la fine”. Invece, sembra essere presente un profondo desiderio bonaventuriano di associare lo Spirito al significato di una storia in un certo modo extracristica – perché sempre più soggetta a una tendenza spiritualizzante e, così, disincarnante – successiva a Cristo, che dopotutto non sarebbe la fine.
Un certo rischio di strappare via la pneumatologia sia dalla dottrina trinitaria sia da quella cristologica forse trapela anche dall’urgenza di Ratzinger che l’ecclesiologia “si stacchi dalla dottrina dello Spirito Santo e dei Suoi doni” – piuttosto che, sembrerebbe, da un uguale co-inizio con la tematica del corpo di Cristo.26 Come ovvia conseguenza, Ratzinger afferma che lo “scopo” di una simile dottrina è “la storia di Dio con l’uomo” o, in alternativa, della “funzione della storia di Cristo per l’umanità intera”. Tali affermazioni potrebbero essere lette come il tentativo di subordinare, alla maniera di Bonaventura, l’Incarnazione al complesso della storia delle relazioni di Dio con il mondo, prima e dopo di Cristo, con l’evento-Cristo in qualche modo sottilmente ridotto alla “funzione” di cardine esemplare della storia. Per una simile visione, si potrebbe pensare che il vero punto dell’Incarnazione sia effettuare una deificazione spiritualizzante di tutti gli uomini, piuttosto che l’inclusione totalmente nuova e paradossale di Dio e Uomo all’interno di una determinata “forma” finita ma infinita. E tale è l’unica forma che, in un mondo decaduto, la deificazione può avere adesso, seppure miracolosamente persino in un eccesso di deificazione: “E [hai fatto sì] che un dono più grande della grazia purificatrice la carne e il sangue: la presenza di Dio, Egli Stesso, nella sua essenza divina”.27
Se è vero che si può essere d’accordo con Ratzinger sul fatto che l’Incarnazione e il dono dello Spirito si appartengono l’un l’altro, è anche vero che, se il peso poggia troppo su quest’ultimo, allora tale appartenenza reciproca non è più unita alle “relazioni sostanziali” della Trinità, che Bonaventura iniziò di fatto a disenfatizzare. Certamente bisogna insistere piuttosto sul fatto che non possiamo mai ricevere verticalmente lo Spirito, dal momento che è lo Spirito del Padre e del Figlio, a meno che noi non Lo riceviamo anche orizzontalmente dal Cristo Dio-Uomo e dalla Sua trasmissione ecclesiastica attraverso molti altri esseri umani. In tal senso, non ci può essere un aspetto “carismatico” genuinamente verticale della storia separato dalla dimensione orizzontale, organica, istituzionale, filtrata dalla tradizione.
Potrebbe sembrare più che sorprendente vedere Joseph Ratzinger assumere in qualche modo tale separazione; eppure ciò può essere una logica conseguenza di una persistente ammirazione per alcuni aspetti dell’approccio di Bonaventura alla storia. Comunque, in seguito in molte altre occasioni la sua enfasi successiva è più puramente agostiniana e tomistica, come quando esplicitamente pone l’accento sul fatto che la gloria della Chiesa è mischiarsi alla confusione, inclusa la confusione politica, dell’esistenza umana,28 e anche quando confuta l’accezione luterana di mera “comunità” spirituale, in contrasto con quella di successio trasmessa nel tempo.29
Allo stesso modo potrebbe sembrare che l’ammirazione e la difesa di Bonaventura da parte del giovane Ratzinger non sia rimasta senza qualche eco nella sua teologia posteriore. Ma la teologia bonaventuriana della storia è problematica proprio nella misura in cui sostiene, sulla scia di Gioacchino, la quasi contraddizione costituita dal sembrare prendere più seriamente in considerazione gli avvenimenti della storia dall’Incarnazione in poi e allo stesso tempo di tenere in poco conto tali eventi come se fossero avvenimenti “vuoti”, che si reggono soltanto sullo spirituale. Al contrario, Jean Daniélou, come Henri de Lubac, rimase più consistentemente agostiniano nel concepire la storia come Anno Domini, estensione dell’Incarnazione.30 Questa visione, come abbiamo visto, appare assegnare meno importanza provvidenziale agli eventi specifici nella storia della Chiesa e a quel punto può anche essere vista come “causa della secolarizzazione” di tali eventi. Ma, d’altra parte, ciò avviene perché segue la logica dell’Incarnazione con più coerenza: tutta la dimensione meramente umana è ora di ugual valore sacro e tutta la storia della Chiesa è satura di significato divino-umano che in definitiva non è che un tutt’uno. Eppure unità non significa stasi: sia Agostino sia Tommaso insistevano sul fatto che l’Incarnazione ha migliorato la condizione umana e ha introdotto nel tempo il progresso.31
Si può collegare questo aspetto “secolarizzante” dell’approccio agostiniano-tomista alla storia, come il giovane Ratzinger notò così profondamente, all’atteggiamento di Tommaso nei confronti del regresso infinito nella questione della causalità. Il dottore angelico non ammetteva ciò (e in tal modo è facile notare che il suo “argomento cosmologico” richiede che si accetti, come dovuta, la visione aristotelico-neoplatonica e non quella newtoniana di causalità ultima) soltanto nel caso di una serie verticale di cause in cui la potenza causale in modo rilevante si erige asimmetricamente al di sopra dell’effetto causato, come nella serie che dà inizio a ogni uomo e che poi si innalza al livello del “corpo elementare” e poi al “sole” e così via.32 Una serie sostanziale del genere deve, secondo Tommaso, concludersi definitivamente con una causa prima. In ogni caso razionalmente ciò non esclude (in opposizione dei requisiti della fede che sembra dare per scontata un’origine nel tempo della Creazione)33 una serie accidentale di cause efficienti, tali che l’uomo potrebbe essere stato generato dall’uomo ad infinitum.
Con questa audace concessione ad Aristotele, si capisce davvero il motivo per cui Dante abbia posto l’Aquinate in Paradiso così vicino a Sigieri di Brabante, anche se in atto di correggerlo (proprio come accoppia parallelamente Bonaventura con Gioacchino). Comunque, il Generale francescano confuta tale visione, considerando invece il tempo stesso coinvolto nella egressio e regressio metafisiche (ed essenzialmente neoplatoniche) dell’essere, che anche l’Aquinate riconosceva. Così per Bonaventura letteralmente il tempo inizia e finisce in Dio.
Nella sua tesi di dottorato Ratzinger sembra simpatizzare fortemente con questa visione che permette di nuovo, in un modo intrinsecamente richiesto dalla fede cristiana, alla conoscenza della storia di essere pienamente scientifica. Egli ragiona sul fatto che se gli eventi nel tempo e nella storia sono soltanto accidentali e fuori dalla portata della vera conoscenza, cosa propria degli universali, allora è difficile capire come le rivendicazioni cristiane del significato unico e universale degli accadimenti specifici possano guadagnare appoggio – eccetto, si potrebbe aggiungere, in termini abbastanza rozzamente fideistici.
Comunque, ci si può chiedere se la risposta di Bonaventura a tale problema sia coerente o accettabile. Non tende forse a confondere la dimensione orizzontale con quella verticale o la dimensione ontica con quella ontologica? Di fatto, forse la tendenza già univocista di Bonaventura a vedere le stesse formae distinte che assumono realizzazione finita o infinita lo incoraggia a fondere e confondere inizio e inaugurazione ontologici e ontici. Si può esprimere tale punto, al contrario, dicendo che, mentre, in un senso, il prendere in considerazione da parte di Tommaso una creazione eterna (la serie infinita di cause accidentali) sembra una concessione ad Aristotele e alla verità biforcata di Sigeri, in un altro senso, potrebbe anche essere letta come una visione molto più radicale della natura della dipendenza del creato secondo cui essa non comporta alcun cambiamento e quindi necessariamente alcun “inizio” in senso ordinario. Dunque non è che l’Aquinate stia dicendo che, razionalmente parlando, il mondo può essere increato ed eternamente immanente alla maniera pagana, ma piuttosto che persino questa “eternità pagana”, una volta ipotizzata, deve essere riconosciuta in verticale come radicalmente emergente, senza riserve, ex nihilo da Dio.34
Ciononostante, questa visione tomistica lascia l’evento temporale come se non avesse interesse scientifico? A questo punto, per una risposta più lunga ci sarebbe bisogno di esplorare i modi in cui Tommaso, in un certo eccesso di aristotelismo, nondimeno rende cruciali le proprietà “accidentali” (e specialmente il potere conoscitivo dell’anima umana) nella definizione dell’essenza di una cosa. Ma più decisivamente si può arguire che il caso più estremo di tale paradosso in Tommaso riguarda il modo in cui per lui come per i Padri, Cristo è pienamente umano, dal momento che esiste in uno stato che normalmente implica la personalità e tuttavia è solo una persona – e persino, almeno nella Summa Theologiae, soltanto nell’essere – in quanto Dio.35 Così, per l’Aquinate, si potrebbe chiosare, l’unica possibilità di un evento storico scientificamente rilevante dipende dall’Incarnazione, dove la causa prima e universale ha assunto in sé un’esistenza umana particolare e una storia umana specifica. Nel fare questo, per l’Aquinate (e per i Padri) ha assunto in sé la natura umana in quanto tale e così, si potrebbe azzardare per di più, la storia umana in quanto tale, che dopo la Caduta è completamente il tempo della graduale redenzione cristologica e dunque, con e dopo Cristo, il tempo della fine e il compimento della fine.
È dunque in termini strettamente cristologici che Tommaso mette assieme la metafisica di Dio come esse con la sua visione della storia nella sua durata per tutta la storia della salvezza, dal momento che, per lui, l’essere di Cristo (almeno nella Summa) interamente è il divino “essere” stesso, senza aggiunte o residui ontici. In tal modo tutta la storia e di fatto il tempo cosmico sarebbero messi in salvo dal destino d’irrilevanza accidentale pagana, ma in un modo diverso da quello congegnato da Bonaventura. Da un punto di vista tomistico, il problema di quest’ultimo sarebbe che ciò sostituisce un innalzamento cristologico della storia a rilevanza scientifica con un tipo di santificazione o ontologizzazione del tempo in quanto tale, cosa che può perfino essere considerata una prefigurazione della mossa intellettuale compiuta infine nel XX secolo da Heidegger.
Di conseguenza, mentre per Bonaventura Cristo è radicalmente il medium, rimane il pericolo che Egli divenga il centro del tempo in modo tale che questa categoria lo supera, proprio come l’Essenza divina supererebbe il Figlio eterno, se quest’ultimo non fosse costituito da relazioni sostanziali (tesi da cui si allontana Bonaventura). Per l’Aquinate, al contrario, l’Incarnazione in un certo senso coincide con il tempo tout court, poiché dice che, all’interno del tempo, la perfezione precede l’imperfezione in quanto gli stati perfetti sono la causa efficiente di quelli imperfetti, mentre allo stesso modo l’imperfezione precede la perfezione in quanto le cose solo gradualmente raggiungono la propria finalità.36 Così il tempo in generale è costituito dall’oscillazione tra queste due priorità, che tuttavia solo con Cristo si verificano simultaneamente: Cristo è allo stesso tempo la causa e la realizzazione della sua perfezione. Proprio perché Cristo in tal modo racchiude in sé l’intera dinamica temporale, si confaceva a Cristo arrivare dopo l’inizio, ma prima della fine dei tempi. Come osserva Ratzinger, ciò suggerisce che, per l’Aquinate come per Bonaventura, Cristo è il centro e il punto mediano; comunque il fatto che Tommaso richiami l’attenzione sulla coincidenza unica delle priorità assicura radicalmente che per il Dottore Angelico Cristo lo è soltanto in quanto allo stesso tempo inizio assoluto e fine assoluta.37 E data questa coincidenza, l’ulteriore opera storica della nostra perfezione deificata che sorge da Cristo come causa efficiente è anche il portare a termine il suo perfezionamento come fine ultimo, di una “pienezza” che è già su di noi, dal momento che la legge nuova del Vangelo già rappresenta l’irruzione della Città celeste nel regno della legge antica38.
Per tale ragione il tempo della Chiesa e la vera natura della Chiesa terrena prima di tutto si dovrebbero interpretare come appartenenti al tempo di Cristo e al tempo della fine. Di certo tale focalizzazione cristologica senza rimorsi non nega quell’aspetto della Chiesa che è la sua continua costituzione da parte dello Spirito Santo: piuttosto il punto è che, dall’esordio di Maria, la discesa dell’Incarnazione corrisponde a una salita spirituale che è tutt’uno con la ricettività e la risposta umana.
(III)
Nei termini di Charles Péguy ciò significa che la vita cristiana “ripete” sempre l’unico evento-Cristo, eppure non allo stesso modo, ma nei termini di una libertà integrale che è resa possibile e non danneggiata da questa “successione”. Per quanto nuova, la visione péguyiana della storia va considerata agostiniana e non gioachimita proprio per tale ragione, oltre al suo travolgente rifiuto euristicamente guidato del culto dell’avvenire come tendenza precisa a disincarnare l’umanità, forzandoci sempre a sacrificare il presente corporeo in favore di un ideale e così del futuro spirituale. Invece di pericolosi schemi “metafisici” volti a creare in futuro un nuovo tipo di essere umano, insieme puramente materiale e irreligioso (pura natura) eppure anche immanentemente spirituale e ascetico (gioachinismo secolarizzato), Péguy insisté sul fatto che la sua via di socialismo mutualistico (molto vicino alla Dottrina sociale della Chiesa) rappresentava la modesta richiesta non utopica e raggiungibile di una distribuzione più giusta delle risorse economiche del mondo.39
Nondimeno, nonostante il suo assalto al nuovo clero laico che, sempre in Clio I, sosteneva il culto postcristiano della libertà futura, Péguy allo stesso modo denunciava “gli ecclesiastici che negano il temporale nell’eterno” e riteneva anche che tale gruppo sociale fosse più colpevole per quanto riguarda la secolarizzazione: ignorando l’epocale scoperta cristiana del significato del temporale, essi avevano aiutato ad assicurare la sua colonizzazione da parte di forze puramente laiche. Una volta scoperto, il temporale non può essere semplicemente dimenticato, eppure se il cristianesimo lo abbandona, allora il suo significato sarà inteso semplicemente in termini materiali. Ma in origine il nuovo valore del temporale acquisiva rilevanza per l’eternità stessa in conseguenza dell’Incarnazione e del nostro ingresso sacramentale nella beatitudine – le iniziazioni hanno inizio nel tempo, ma sono confermate per sempre nel loro inizio e irreversibilità.
La nuova valutazione del tempo riguardava il processo con cui Dio irrompeva nella dimensione temporale non per dominarla ma per redimerla; tuttavia nel corso delle epoche Anno Domini tale “macchina”, come la definisce Péguy, è stata ribaltata, cosicché tutte le faccende temporali sono sacrificate nel nome di un calcolo redentivo crudamente positivistico (che forse anticipa quello moderno, monetario) a calcoli apparentemente eterni. Così gli interessi laici sono stati anche sacrificati a quelli clericali e la vocazione del clero ad aiutare il mondo è stata sacrificata ad un interesse istituzionale per regolarlo e amministralo. Comprensibilmente i laici potrebbero volere emanciparsi da una procedura così distorta che è arrivata a confondere (e qui si può pensare alla protesta laica di Dante di molto precedente) la priorità della dimensione spirituale con gli ipocriti interessi temporali dei rappresentanti di tale priorità. Nel caso della recente storia francese, ciò ha anche portato la Chiesa a farsi nuovamente complice dell’aperto antisemitismo, cosicché l’incapacità di Péguy di entrare in comunione sacramentale con la Chiesa era in parte dovuta all’inconcepibilità per lui di qualsiasi associazione con gli antidreyfusardi di un tempo. Di certo ci si può chiedere se tale estraniamento dalla dimensione liturgica ufficiale non facesse parte di ciò che lo aveva portato a un senso così acuto della permeazione di tutta la realtà umana ad opera delle azioni liturgiche.40
Da questa accesa doppia critica del clero laico ed ecclesiastico si può dedurre che per Péguy solo un cristianesimo che prenda in seria considerazione l’unità del temporale e dell’eterno sarà capace di restituire una giusta visione alla storia in quanto tale. Con questo egli intende un cristianesimo pienamente incarnazionale, e sembra suggerire che la mystique cristiana ha fallito perché il suo aspetto incarnazionale non è mai stato compreso fino in fondo, anche se, nel Medioevo francese, questo aspetto era più marcato di oggi. Non ci si è mai resi totalmente conto del fatto che l’Incarnazione implica uno stato uguale per l’esistenza e gli interessi laici e un servizio piuttosto che un rifiuto del mondo e dei suoi amori e delle sue ansietà.
L’evento cristiano
Nei termini dei quattro punti critici di Péguy sulla storia e la storiografia, si può affermare che le problematiche che identifica al riguardo sono superate da lui nei termini di una concezione cristiana di un governo provvidenziale del corso della storia – sebbene solo nella misura in cui ciò viene rivisto nella particolare direzione teoretica di Péguy, che richiede una radicalizzazione e di conseguenza una purificazione dell’ortodossia, nella misura in cui il suo scopo è renderla più incarnazionale.
Prima di tutto, allora, nei termini del carattere organico della storia come irruzione che fiorisce imprevedibilmente e decade inevitabilmente. Attraverso la sua pratica verbale in prosa ma più specialmente in poesia, Péguy collega questo al carattere pastorale dei Vangeli e alle infinite analogie agresti delle parabole di Cristo. Ciò suggerisce che il cristianesimo, derivando dalla nascita di Dio nel tempo, è un processo storico dalle radici particolarmente profonde, che intreccia crescita fisica e spirituale, come è palese nel caso unico medievale di una avanzata cultura centrata sul paese, sul villaggio, sul monastero e sui campi piuttosto che su grandi città che sfruttano entroterra rurali. Il modo in cui Péguy parla della Francia dell’Alto Medioevo come se fosse in diretta continuità con la Palestina del tempo di Cristo è sicuramente dovuto non solo a un nazionalismo fantasioso (anche se non ne è del tutto libero), ma piuttosto alla sua sensazione che la cristianità, con tutte le sue terribili colpe, ha cercato soprattutto di realizzare gli imperativi del Vangelo e sotto certi aspetti la Francia gotica ha rappresentato davvero l’acme e il fulcro di tale sforzo.41 Come ha scritto Bruno Latour, è come se Péguy, nelle sue lunghe poesie in verso libero, fatte di imitazioni ed ampliamento di didatticismo, incanto, ripetizione e parallelismo biblici, stesse cercando di scrivere un nuovo quinto vangelo, non in uno spirito gnostico qualsiasi, ma proprio per riaffermare con freschezza e così con qualche differenza il messaggio evangelico originario. Deve aver pensato che solo questo, in tempi così disperati, avrebbe potuto controbilanciare la decadenza in cui vessava il cristianesimo.
Eppure il suo atteggiamento nei confronti del declino è complesso. Soprattutto Péguy pensava, e non senza echi agostiniani, che Dio, rischiando l’incarnazione nel tempo, ha rischiato non solo la morte di suo Figlio, ma il declino storico del credo in sé. Manifestare pienamente Se stesso in forma umana era stato necessario, non solo davanti al peccato, ma anche per far confrontare onestamente gli esseri umani con la Sua verità e lasciare alla libertà umana se accettarla o rifiutarla. Può ben essere, pensa Péguy in Clio I, che l’epoca postcristiana renda più che mai la fede sopravvissuta una faccenda di pura fede dal momento che essa è ora il prodotto di una libertà resistente.
Eppure in contemporanea, il divino nel tempo è un organismo particolarmente imperituro. Quando si presenta una difficoltà, che adesso aumenterà sempre, è il momento, continua Péguy che l’offerta cristiana di compassionevole sollievo venga alla ribalta in modo unico. Inoltre, alla luce dell’eternità c’è un nascosto e ora genuino progresso, pensiero che Péguy elabora nella sua lunga poesia Le porche du mystère de la deuxième virtu.42 Tutta la finita vita umana scorre in cerchi, e quindi noi dovremmo ripetutamente inscrivere tali cerchi non al di fuori di uno obiettivo, non per raggiungere un qualche punto finito, ma giocosamente, come bambini e al di là di una speranza che non è speranza di qualcosa di definito, ma oscuramente speranza remota di beatitudine eterna, nella quale l’inutilità oltre il limite verrà completata infinitamente. Per quanto riguarda l’uomo caduto e divenuto adulto, tale circolo finito ma senza fine può darci facilmente una sensazione di futilità e decadenza, mentre le abitudini si fanno stantie e stanche e “Colui che viene dietro cancella i passi di quello che è davanti”,43 eppure, dal punto di vista di Dio, piuttosto ogni volta che noi percorriamo il cerchio con una leggera differenza, compiamo atti di amore e servizio quotidiano con una variazione stilistica e queste variazioni formano il proprio ritmo incrementale e gradualmente “equivalgono” a una linea di sviluppo di merito accumulato. Proprio perché Dio si è fatto bambino, ha vissuto in una famiglia, ha fatto per trent’anni parte dell’ambiente umano normale e poi è entrato nella sfera pubblica soltanto per gli ultimi tre anni e per poi morire, l’aspetto puramente ludico, gioioso della vita fine a se stessa come vissuta dai gigli del campo è stato affermato dall’evento dell’Incarnazione in un modo senza precedenti. Di conseguenza, nonostante la sua sottomissione alla decadenza, è stato garantito alla Chiesa che non passerà né che alla fine verrà meno, perché sfugge al destino di rovina che grava su qualsiasi artificio puramente culturale, dall’inizio più legato ai processi biologici. La parola si è fatta carne e così la resurrezione spirituale è assicurata come la primavera in arrivo.
La seconda critica degli storici riguarda il doppio paradosso dell’origine e della ripetizione. Nel registro teologico, sono enfatizzate entrambe le sfaccettature. Le origini sono singolari, cruciali, fragili seppur vitali. Ogni essere vivente e ogni realtà culturale cresce da fragili boccioli che possono essere strappati via dal vento. Ogni distruzione è sicura e facile e può essere l’opera del momento. La crescita e il successo sono, al contrario, lunghi, precari, duri e derivano da un caso irrisorio, irrisoriamente unico e contingente. Dio si affida a questo processo e decreta che i processi che iniziano con apparente casualità nel tempo, come l’incarnazione, l’eucaristia, la croce e l’iniziazione sacramentale dureranno per tutta l’eternità. Anzi Péguy non esita a dire che se essi sono vincolati all’eternità e l’eternità è semplice e inalterabile, allora incomprensibilmente l’eternità deve trarre anche la sua origine dal tempo.
Quest’origine non sfugge neppure al pathos di ogni origine. Molti esseri umani non hanno mai visto Cristo fisicamente sulla terra – e non ci può essere stato nulla di paragonabile. Una vivacità travolgente e inimmaginabile è stata a lungo ritardata e ora è per sempre svanita. D’altra parte, è ugualmente vero che Cristo è venuto soltanto una volta e per tutte perché egli viene sempre; che la vivacità originale è presente a causa della sua ripetizione eucaristica. È ugualmente vero che Cristo era il Dio unicamente incarnato, l’Unico prima delle serie, anche perché egli era “uno” semplicemente ordinario, il primo delle serie: il fondatore di una città, della Chiesa e il primo di molti santi, come così frequentemente dichiara Péguy. Così l’ignobile sospetto che molta della storia di Giovanna d’Arco sia mitica è un tutt’uno con lo stesso sospetto sulla storia di Cristo: in entrambi i casi, la memoria popolare può essere ritenuta più affidabile della ricerca accademica di “prove”, dal momento che solo questa memoria è costitutiva– “retrospettivamente” eppure “originariamente” di ogni evento genuino in quanto tale, che deve essere per prima cosa preservato affinché possa avvenire del tutto, e quindi “essere studiato”. Per di più, coloro che per primi videro Cristo non riuscirono spesso a riconoscerlo o lo abbandonarono, non capendo affatto chi fosse.44 Anche se grazie al senno di poi della Chiesa, potrebbe infatti anche darsi, come insiste così ostinatamente la contadina Giovanna d’Arco in Le mystère de la charité de Jeanne d’Arc, che la nobiltà e i contadini della Francia cristiana non lo avrebbero mai abbandonato nel Getsemani.45
Ma anche nel registro teologico, si acuisce la tensione tra le due facce del paradosso delle origini. Dio stesso prima della creazione del mondo era perfetto e completo – perché è andato oltre se stesso, aggiungendo qualcosa a ciò a cui niente può essere aggiunto, il finito all’infinito e il temporale all’eterno? Così facendo, la gloria drammatica del tragico è acquisita, insieme alla fragile bellezza di ciò che è scarso perché è finito, la malinconia del transeunte e soprattutto il trionfo eroico della libertà che scommette, sopporta e rimane salda nelle avversità. Ma niente in tutto questo può realmente bilanciare l’apparente disonore della sufficienza innocente di Dio con l’ansia paterna della cura e con l’agonia della perdita.46
La “mitologizzazione” di Péguy delle perplessità metafisiche qui non è per nulla paragonabile all’ingenuità dell’idioma per esso utilizzato, come vedremo a breve. Per il momento, tuttavia, è importante comprendere che è l’inizio finito a portare in effetti il sintetico equilibrio tra l’inizio eterno e il finale sviluppo finito, in una maniera completamente incarnazionale. Così la “notte”, ne La porche du mystère de la deuxième virtue è la durata bergsoniana dell’essere stesso – a differenza del “giorno” unico e continuo, e soltanto perforato dai giorni come da buchi, analogamente al mare dalle isole o “un grande muro nero” dalle finestre.47 Una personificazione del genere della travolgente presenza sofianica (perché sicuramente simile alla sapienza creata della Bibbia) è come Dio, semplice e onnigenerante, oltre ad essere onnifertilizzante, onniconfortante e onniguarente attraverso il sonno. Ma a differenza di Dio, essa racchiude un potenziale finito e un abbraccio misterioso e meramente finito e anticipato di ogni giorno a cui dà origine e che alla fine concluderà nella notte ultima della redenzione: “l’ultimo giorno che è diverso da tutti gli altri”.48 Allo stesso modo, ne Le mystère des saints-innocents, i Santi Innocenti uccisi da Erode, nonostante non abbiano vissuto la loro vita finita, vengono identificati da Péguy (in accordo con la tradizione) con i 144.000 santi che nell’Apocalisse stanno immediatamente attorno al trono di Dio. Nessuno sta gerarchicamente più in alto, perché assolutamente niente è aggiunto dall’esperienza alla pura innocenza e alla sua azione perfezionata.49
Questo non è sentimentalismo teologico, ma l’assoluto contrario: un rifiuto rigoroso di ogni sopravalutazione sentimentale del dramma e il superamento della tentazione, che è ancora sempre un’esperienza di contaminazione che necessariamente corrode. Eppure allo stesso tempo, l’elevazione da parte di Péguy dell’innocenza è controbilanciata dall’elevazione anche del peccatore pentito e dell’ambivalente guerriero adulto. Tutto ciò è perché, come egli afferma incessantemente, sono proprio la qualità dell’innocenza infantile e la speranza che permettono al santo e all’eroe di delimitare il terribile e il corrosivo, di sopportare e di passare oltre. Di qui l’innocenza giunta al massimo livello, come quella che dobbiamo attribuire a coloro che, nelle narrazioni evangeliche della nascita, sono stati sostituiti sacrificalmente persino al sostituto divino (un altro motivo per cui per Péguy Cristo è soltanto un cittadino tra i tanti) è ancora in nuce, anticipazione e coinvolgimento ultimo – come quello della notte per ogni giorno – dell’intera gamma dell’esperienza umana nella misura in cui essa è umana, che significa fresca, originale e ispiratrice. L’originale è ciò che è già ripetuto, proprio come il ripetuto non identicamente rimane l’originale, perché il bene in realtà è uno e le mancanze di esperienza alla fine sono niente.
In definitiva questa tematica è per Péguy sia mariologica sia sofiologica. Maria è la notte e l’infanzia umanamente manifeste, dal momento che essa è l’unica creazione umana adulta ad essere rimasta innocente, ma lei è questa origine assoluta, soltanto dall’inizio sempre ripetuto in lei della parola incarnata e della Chiesa. Nonostante ciò, nel cuore del cristianesimo di Péguy (e in contrasto con il rifiuto protestante) si erge il paradosso estremo che in qualche modo la grazia divina e la sua opera eterna dipendono dal fiat mariano. In un certo senso, per Péguy, un’oscura contadina è l’autrice della nostra redenzione e anche della nostra creazione, la cui eterna azione, dalla sua prospettiva, è univoca, unilaterale e indivisibile. Il temporale in tal modo guida l’eterno, proprio come una volta una contadina marciò davanti al Re alla testa dell’esercito francese.50
Nel terzo punto della critica, abbiamo visto che l’evento umano narrato rivela manifestamente e racchiude in sé paradossalmente un processo e una circostanza infiniti. L’implicita soluzione di Péguy di tale rompicapo è sicuramente che, proprio per questa ragione, l’Incarnazione è l’unico evento veramente definito e assicurato – precisamente definito e circoscritto in virtù della piena coincidenza con l’infinito e l’eterno. Tale ispirazione indica che il finito, per essere tale, richiede in un solo punto finito, un’identificazione totale con l’infinito e la partecipazione di altre cose finite a quella realtà per assicurare la loro stessa realtà in grado discendente. Proprio per tale ragione, il segno cruciale dell’era cristiana è che essa è scaturita interamente dall’unico evento irreversibile ed interamente trasfigurante sul quale la città cristiana è stata incessantemente edificata.51
Ma esso non risolve il rompicapo inverso del perché l’infinito dovrebbe richiedere il finito. A questo punto i tropi mitologici di Péguy sembrano esprimere un fondamentale accordo con Eriugena, Bérulle e Malebranche: Dio per essere Dio non può fare a meno nemmeno della mancanza; il perfetto non può mancare nemmeno dell’imperfetto. Così la generosità piena di Dio deve creare e in fine, per risolvere il rompicapo della gloria espansiva di Dio (nella creazione e nella redenzione) che è non-Dio in un unico senso eppure ancora Dio in un altro, deve diventare Egli stesso incarnatamente finito, mentre d’altra parte rimane al contrario e senza riserve infinito.
Date queste verità estreme, ne consegue per Péguy che Dio ha fatto in qualche modo l’impossibile: mettere l’eternità irrischiabile a rischio di rifiuto. Come chiarisce la sua cruciale lettura delle tre parabole della dracma perduta, della pecora perduta e del figlio perduto (il figliol prodigo), ciò non significa soltanto il rifiuto da parte di un altro avvertito come dolore, ma la reale perdita del proprio essere come càpita a un padre umano che ha perso suo figlio per morte o per sbaglio. Le parabole di sicuro devono significare che colui che è perduto conta di più dei molti che sono al sicuro, perché ogni singolo è vitale per Dio in misura tale che quello mancante ed essenziale viene in effetti cercato e amato anche più degli altri. Perciò Dio stesso dunque si mette in gioco. Eppure Péguy non sta difendendo nessun tipo di hegelismo tragico e ateo: egli crede pienamente nell’immutabilità divina. Ne consegue dunque che tale credo può essere sostenuto soltanto se Dio vuole alla fine che tutto sia salvato, e anche che, in un certo modo misterioso e sconosciuto, per l’immutabilità eterna di Dio, è compresente il sempre e la fine.
Per tale motivo, l’universalismo apparentemente non ortodosso di Péguy, che egli condivide nondimeno con altri teologi ortodossi tra cui Origene, Gregorio di Nissa, Eriugena e Giuliana di Norwich, deriva per lui dalla sua interpretazione logica dell’ortodossia. Ma è anche supportato dalle altre considerazioni che hanno più a che fare con la storia. Ne Le Mystère de la charité de Jeanne d’Arc, Giovanna accusa un “colpo” nella sua devozione perché non può accettare che le sue preghiere e le sue sofferenze non aiuteranno i dannati neanche di una briciola.52 Ma lei con grande forza suggerisce anche che se i dannati non possono essere salvati, allora non può esserlo nessun serio peccatore. Questo perché ogni stato di peccato grave comporta la disperazione e Giovanna rifiuta la pia affermazione francescana di madame Gervaise secondo cui noi non possiamo mai essere sicuri del volere divino. Al di fuori di ciò, dice Giovanna, sappiamo molto bene quando qualcuno si è dannato se niente interviene ulteriormente. E per di più Giovanna afferma che la corrente condizione della Francia sotto le devastazioni della guerra equivale a un letterale stato d’inferno sulla terra perché gli assassini omicidi sono in tal modo dannati, ma anche molto simili (con un tocco sottilmente nietzschiano) alle loro vittime, che possono aver fallito sia nel loro dovere di resistenza sia potrebbero essere state contaminate dalla loro sofferenza perdendo la fede in Dio. Di certo si può obiettare con madame Gervaise (l’usuale portavoce di Péguy) che ciò potrebbe in molti casi eroici non avvenire, ma è qui che Giovanna, la contadina, conserva la prospettiva socialista di Péguy dentro di sé e del suo cattolicesimo. Molto spesso, di sicuro, coloro che non hanno il pane quotidiano perderanno il gusto per il pane del sacramento, anche se essi ne avranno ancor più bisogno.53 Così per Péguy l’esigenza incarnazionale e socialista di salvare il corpo come l’anima è tutt’uno con la tesi teologica secondo cui sono soltanto gli apparentemente dannati ad aver bisogno di essere redenti.
Per salvare del tutto le anime, le dobbiamo infatti salvare dall’inferno, qui e nell’aldilà. Non vedere ciò è supporre ingannevolmente che il peccato stesso è meno dell’inferno. Così dobbiamo opporci a qualsiasi macchinazione infernale: dobbiamo sfamare i corpi per sfamare le anime; dobbiamo opporci alla mediazione del profitto se vogliamo instillare la mediazione della grazia, e dobbiamo opporci alla guerra e alla violenza in quanto essenza reale del male. Eppure, contro Jean Jaurès e tutte le tendenze pacifistiche di sinistra, non c’è un “diritto alla pace” come c’è alla vita o alla libertà: gli interessi della pace come falso universale non possono calpestare i diritti alla giustizia del singolo innocente. Così dal momento che la guerra come la violenza che è ingiusta coercizione è la sorgente di qualsiasi ingiustizia, prima di tutto dobbiamo fare guerra alla guerra. Ma questa controviolenza, se non va intesa come collusione con gli effetti della violenza, deve a volte comportare l’ambiguità della violenza reale e di una letterale battaglia, come per Giovanna o san Luigi re di Francia che partì per la crociata. Altrimenti non solo non vi è giustizia ma nemmeno carità, dal momento che le anime non porteranno frutto, se i corpi vengono trascurati. Così Péguy alla fine andò in trincea nella fede che stava per combattere nella guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre. Eppure, nel suo caso tale fede non era un ingenuo errore di calcolo politico, ma piuttosto l’espressione dell’unico atteggiamento possibile che giustificherebbe qualsiasi resistenza fisica.
È anche importante vedere come questo tema si riallacci alla questione della contingenza assoluta delle origini storiche. Gesù avrebbe combattuto gli inglesi o i burgundi? E gli apostoli? Che la particolarità storica dell’Incarnazione renda tale quesito imponderabile fa sicuramente parte dell’opinione di Péguy circa la storicità radicale dell’Incarnazione, nonostante la sua universalità; un punto che include anche la storicità radicale della Chiesa e della Francia nei loro particolari destini universali. Cristo come persona e specialmente Persona divina non può essere confinato soltanto nel suo tempo, eppure anche lui è vincolato, in modo tale che noi non possiamo essere davvero certi che egli avrebbe dimostrato carità in altre circostante nello stesso modo “pacifistico”. Questo perché anche la sua relativa capacità di pacificare non può essere valutata separatamente da una strategia divina in un tempo e in un posto particolari, dal momento che l’adozione di quel tempo e di quello spazio era parte tattica di una strategia universale ed eterna.
In quel tempo e in quel luogo, Gesù è venuto a trovare un diverso tipo di città postpolitica che si sarebbe anche provvidenzialmente mescolato alla città romana e all’Impero romano. Il suo compito era questo, e non farsi carico e difendere soltanto i governi politici. Ma chi può dire cosa avrebbe fatto nel Getsemani, se fosse stato sorretto da lealtà feudale e che relazione tra il transpolitico e la città politica sarebbe allora immediatamente risultata? Molto probabilmente tale supporto è possibile soltanto dopo una lunga storia sicura e vincente della Chiesa, ma proprio perché è stato stabilito questo meccanismo, e va dall’eternità verso il tempo, dallo spirito verso il corpo, e anche dal corpo mistico allo stato politico (secondario al sociale per Péguy, anche se vitale per il sociale, dal momento che egli non era un completo anarchico), per Giovanna e Luigi ora, come forse non prima, è caritatevole e santo combattere con armi fisiche.
Contrariamente a Giovanna, la francescana madame Gervaise consiglia la rinuncia al mondo come l’essenza dei Vangeli, non avendo preoccupazioni per il lavoro, il cibo, la battaglia e la procreazione. Ma per Giovanna e sembrerebbe per Péguy ciò è prematuro: per ora, nel bel mezzo del tempo ci devono essere sempre nuove nascite e nuove opere, se il grande viaggio e la processione delle anime verso Dio, dai quali Egli in qualche modo dipende, devono essere portati avanti.
Soltanto quando verrà l’ora, alla fine, nella notte finale, si mostrerà vera la prospettiva di madame Gervaise (che non è totalmente sbagliata e che di solito è giusta): allora il mondo sarà de-creato e tutto ritornerà a Dio. Tutti gli inizi, tuttavia, innocentemente ripetuti rimarranno per sempre e saranno eternamente costitutivi.
È da tale prospettiva escatologica che alla fine viene mossa la quarta critica dello storicismo secolare. La deviazione del giudizio finale verso un futuro umano sempre posposto si rivela una parodia della speranza cristiana, come indica sempre Clio II. La speranza, afferma Péguy, è la virtù teologale più anomalmente notevole eppure allo stesso tempo cruciale rispetto a fede e carità. La fede dovrebbe sorgere prontamente, date le glorie manifeste di Dio; la carità è sicuramente sollecitata dalla sofferenza, ma il fatto che noi dovremmo continuare a sperare nonostante il suo mancato adempimento sembra molto più sorprendente.54
Ma qui Péguy presenta la speranza come una ragazzina che non spera niente in particolare, ma gioca in continuazione senza sosta, ripercorrendo i propri passi e nella speranza di una giocosità sempre più divertente. Ciò, egli indica, è il modo in cui noi dovremmo sperare: realizzando che nelle nostre non-ricerche circolari viene per sempre aggiunto qualcosa di nuovo e che il fatto che ogni giorno è all’apparenza simile a quello prima non significa, anche nella nostra esperienza, che non ci saranno giorni diversi e sorprendenti, saturi di nuovi avvenimenti e nuove aperture. “C’è sempre un giorno che non è uguale a quello prima” dice Hauvette, la contadinella amica di Giovanna.55 Sempre un giorno speciale nella nostra vita, sempre una giornata al mare, un giorno della Bastiglia, il giorno di Natale e di Pasqua, e in fine il giorno in cui i giorni termineranno. Da questi giorni finiti della speranza aperta deriva per Péguy non necessariamente qualsiasi miglioramento del mondo, e probabilmente l’inverso, come la verità di solito porta alla rabbia, ma nondimeno ne derivano alcuni schemi che forniscono i prerequisiti della trasformazione nei termini di un’offerta di espiazione, perdono e mutua cura. All’infuori di questi giorni, continuiamo a sperare, e questo è ciò che ci spinge a edificare città e case, fondare famiglie e rischiare di mettere al mondo bambini. Per questo il desiderio di destini futuri che noi non arriveremo a vedere non è una sottomissione sacrificale ai loro verdetti futuri sul nostro passato, ma una continuazione del rischio divino creatore non soltanto nell’interesse dei nostri bambini e dei loro figli e dei figli dei loro figli, ma per l’intera razza umana nella sua eterna unità. Un rischio nondimeno assunto per Péguy nella speranzosa fiducia di una libera decisione ultima e universale da parte delle creature libere in favore della libertà eterna.56
1Si veda C. Péguy. Notre Jeunesse nella traduzione anglofona, in A. Dru (a cura di), Temporal and Eternal, Liberty Fund, Indianapolis 2001, 3-82, di due saggi: una versione parziale di Notre Jeunesse (Folio, Parigi 1993) [e Clio I, ndt]. In particolare la versione inglese omette il peana al dreyfusardo ebreo ateo, che Péguy considerava il suo mentore supremo, Bernard Lazare.
2B. Latour, “Les raisons profondes du style répétitive de Péguy” in Péguy écrivain: colloque du centenaire, Klinsieck, Paris 1973, 78-102.
3C. Péguy, Clio, Gallimard, Paris 1932.
4Idem, Notre Jeunesse.
5Idem, L’Argent, De Equateurs, Paris 2008. Dell’adozione da parte di Péguy della tematica in origine maistriana della vicinanza tra santo e peccatore, si veda lo scritto incredibilmente penetrante di Richard Griffith “Le sacré et le dé-sacré: Péguy and the Maistrian Tradition of French Catholicism”, presentato per il seminario Maison Française, tenutosi ad Oxford in occasione del centenario della morte di Péguy.
6Ch. Dawson, The Age of the Gods, Sheed and Ward, London 1933.
7Per un approfondimento sui paradossi della ripetizione e discussioni su Péguy, si veda C. Pickstock, Repetition and Identity, OUP, Oxford 2013.
8In italiano nel testo (ndt).
9Per una traduzione, anche se leggermente incompleta, si veda Temporal and Eternal, 85-165.
10In Véronique, Péguy afferma che le due civiltà umane più grandi, quella mediterranea pagana antica e quella cristiana medievale, entrambe si fondavano unicamente sul disastro. Cfr. C. Péguy, Véronique: Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle, Gallimard, Paris 1972, 269-271.
11“Note Conjointe sur M. Descartes et La Philosophie Cartésienne” in Oeuvres en Prose, 1909-1914, Gallimard, Paris 1961, 1357-1552.
12Si veda J. Ratzinger, The Theology of History in St Bonaventure, Franciscan Herald Press, Chicago 1989.
13Per questo topos si veda soprattutto Enarrationes in Psalmos.
14Ratzinger, The Theology of History, 1-55.
15Si veda H. de Lubac, La postérité spirituelle de Joachim de Flore, Cerf, Paris 2014.
16Ratzinger, The Theology of History, 56-109.
17Ratzinger, The Theology of History, 187, n.82.
18Si veda J. Milbank, The Suspended Middle, Eerdmas, Grand Rapids 2015, soprattutto p. 64.
19Ratzinger, The Theology of History, 1-55, 109-114.
20Si veda S. Tugwell OP, ‘Introduction’ a Early Dominicans: Selected Writings, Paulist Press, New York 1982, 1-47.
21Si veda G. Agamben, The Highest Poverty; Monastic Rules and Forms of Life, trans. Adam Kotsko, Stanford CA, Stanford UP 2013.
22Si veda E. Voegelin, voce “Saint Francis” in History of Political Ideas Volume II: The Middle Ages to Aquinas, 135-143. Voegelin forse è quello che si è spinto più avanti, considerando ambivalente la percezione (almeno) di san Francesco come alter Christus. De Lubac di sicuro ha ragione a dire (La Postérité, 139) che l’uomo nuovamente “spirituale”, san Francesco, era tale solo in quanto stigmatizzato, ma Voegelin (un luterano cattolicizzante che era estremamente vicino a de Lubac e che parte spesso dalle sue tesi teologiche) prova i rischi teologici che immediatamente derivano da una certa tendenza a leggere ciò come mettersi sullo stesso piano di Cristo da parte di un semplice essere umano. Lette in questo modo, le stimmate cessano di essere un equilibrio che si incarna in vista di una perfezione pneumatica, per essere piuttosto la maschera stessa del rifiuto del corpo. Così tale lettura traduce il destino assolutamente nuovo di Francesco nei termini dello stesso dubbio paradosso che con Gioacchino si fa strada l’idea di un “futuro spirituale sulla terra”: ovvero un destino puramente spirituale e beatificato in questa vita e in questo attuale corpo materiale. Intimamente connessa con ciò è la tendenza, come recentemente analizzato da Aaron Riches, delle cristologie francescane (incluso il caso di Bonaventura) ad essere in qualche modo semi-nestoriane: la perfezione di Cristo come individuo umano viene in un certo senso offuscata dalla Sua personificazione divina, che, al contrario, Tommaso enfatizzava fino a raggiungere un livello del tutto iperbolico.
23In The Theology of History egli nota che la teologica trinitaria dell’Aquinate è di gran lunga più agostiniana di quella di Bonaventura. Oggi, sulla scia di de Lubac, che asserì che l’agostinianismo di Tommaso è ‘plus conséquent’ di quello del Generale Francescano (La postérité spirituelle, 159), anche noi ci rendiamo conto che è l’Aquinate ad aderire più fedelmente alla teoria agostiniana della conoscenza come illuminazione, con modifiche aristoteliche (discutibilmente del tutto coerenti con Agostino, che non nega mai il ruolo cruciale della mediazione dei sensi), molto meno drastica di quelle avicenniane di Bonaventura, che spingono la dottrina insieme in direzione di un certo ontologismo e apriorismo. (Sebbene come giustamente nota Ratzinger, Bonaventura stesso considerò la visione di Aquino della conoscenza umana una variante della teoria illuminazionista). Ciò avviene mantenendo la tendenza parimenti avicenniana di Bonaventura a considerare le idee divine esemplificate univocamente, sebbene in gradi diversi sia nell’ordine di Dio sia del creato, e dunque reciprocamente “simili” attraverso il divario infinito/finito, effettivamente bypassando uno vero schema emanazionista e partecipativo. Proprio per questo Van Steenberghen potrebbe aver avuto ragione nel vedere più semi di una filosofia veramente teologicamente indipendente in Bonaventura che non nell’Aquinate, per quanto ciò possa sembrare andare quasi completamente contro la superficie dei loro testi. Infatti in Tommaso una metafisica in special modo indipendente deve in definitiva riferirsi in toto alla teologia, mentre in Bonaventura un certo numero di tesi filosofiche prese piuttosto casualmente da Avicenna, specialmente per quanto riguarda la pluralità delle forme, non tutte si integrano così bene nella sua teologia esemplarista e incentrata sul Logos, e tendono piuttosto a distorcerla. E mentre la sua metafisica sembra totalmente essere una teologia, gli inizi di un’univoca reversibilità di “somiglianza” come tra le forme nel Creatore e nella Creazione suggerisce che, dopotutto Dio è incluso “trascendentalmente” (come dirà specificamente Scoto più tardi) in un campo più generico dell’essere. Ratzinger riconosce molto del rifiuto di Van Steenberghen della lettura gilsoniana di un Bonaventura agostiniano, ma oggi si può essere d’accordo ancor più con il medievalista belga. Si veda The Theology of History, 119-163.
24J. Ratzinger, Introduction to Christianity, trans. J.R. Foster, Ignatius, San Francisco 1990, 332-334.
25Ibidem, 332.
26Ibidem, 333.
27“And can a higher gift than grace / our flesh and blood refine / God’s presence and his very self / And essence all divine?” (John Henry Newman, from ‘Praise to the Holiest in the Height’).
28Ratzinger, Introduction to Christianity, 343.
29Idem, Principles of Catholic Theology: Building Stones for a Fundamental Theology, trans. Mary Frances McCarthy S.M.D., Ignatius Press, San Francisco 1987, 290-294.
30J. Daniélou, ‘Christology and History’ in The Lord of History: Reflections on the Inner Meaning of History, trans. Nigel Abercrombie, Longmans, London 1958, 183-202, sp. p. 201.
31Per tale motivo non sembra vero il fatto che il riconoscimento di un aspetto “dinamico” della storia umana risale soltanto a Gioacchino. Così sono leggermente perplesso per quanto riguarda l’assegnazione da parte di de Lubac di un elemento gioachimita a Pierre Buchez, socialista cristiano francese del XIX secolo, semplicemente basandosi sull’identificazione esatta di un aspetto dinamico e non soltanto conservatore nel suo pensiero. Si veda La postérité spirituelle, 520.
32STh I. q. 46 a.2 ad 7.
33Ma sicuramente Origene non lo aveva pensato, mentre d’altra parte sosteneva integralmente la dipendenza radicale della Creazione. Questa oggi deve essere sicuramente una questione aperta?
34Rowan Williams mi ha fatto tale osservazione tempo fa.
35STh III, q.17 a.2.
36STh III, q. 1 a.6 resp.
37Ratzinger piuttosto stranamente suggerisce, nelle note della sua tesi, che in questo passaggio l’Aquinate si allontana ancora di più di quanto avesse fatto Bonaventura dall’associazione patristica di Incarnazione e finalità. Ma questo non concorda del tutto qui con la sua visione generale dell’Aquinate, non che sia questo il caso, come ho tentato di spiegare sopra nel corpo principale del testo. Si veda anche de Lubac, La postérité spirituelle, 159.
38Tommaso d’Aquino, In 4 Sent. d.1 q.1 a.2.
39Si veda lo svolgimento del suo dibattito con Jean Jaurès su queste tematiche in de Lubac, La postérité spirituelle, 751.
40Si veda C. Pickstock, After Writing: On the Liturgical Consummation of Philosophy, Blackwell, Oxford 1997.
41Come ha fatto notare il professor David Gervais al seminario di Oxford, ci si potrebbe aspettare che la lode di Péguy in Le porche du mystère de la deuxième virtu della supremazia dei giardini francesi e dell’incomparabile bellezza della campagna francese dia fastidio agli inglesi fino a non fargli accogliere la poesia, ma ve ne è già una prima eco sulle labbra del re invasore inglese Enrico V di Shakespeare. Sarebbe anche interessante notare come la parallela anglomania di Chesterton e Belloc fosse anche in parte francofilia e suggerisce che il fatto che Péguy in Gran Bretagna sia relativamente sconosciuto a un pubblico acculturato (sebbene non da molti dei migliori poeti) ha meno a che fare con la sua incorregibile francesità che con il modo in cui siano stati generalmente ignorati nelle metropoli inglesi gli scrittori sorti dal popolo e che perseguivano tematiche religiose e socialmente conservatrici e lo stesso per quanto riguarda scrittori nativi quali Ivor Gurney, David Jones e persino il primo e il tardo David Herbert Lawrence.
42Per una traduzione inglese si veda quella a cura di D. Schindler Jr, Portal of the Mystery of Hope, Continuum, London 1986.
43Portal of the Mystery of Hope, 115.
44C. Péguy, ‘Un Nouveau Théologien: M. Fernand Laudet’ in Oeuvres en Prose, 1909-1914, Gallimard, Paris 1961, 899ss.
45Per una traduzione inglese integrale si veda The Mystery of the Charity of Joan of Arc trad. Julian Green, Hollis and Carter, London 1950. La più recente traduzione per il teatro a cura di Jeffrey Wainwright (Carcanet, Manchester 1986) si rifà a una performance parigina del 1986, che operò alcuni tagli nel testo e aggiunse anche del materiale da altri drammi di Péguy su santa Giovanna.
46Si veda Clio I, Portal of the Mystery of Hope e ‘The Mystery of the Holy Innocents’ [Le Mystère des saint-innocents] in The Holy Innocents and Other Poems, trad. Pansy Pakenham, Harvill, London 1956, 69-165.
47Portal of the Mystery of Hope, 123.
48Ibidem, 113.
49Si veda The Mystery of the Holy Innocents.
50Il parallelismo viene fatto notare da Bruno Latour. Oltre all’articolo già citato, si veda anche il saggio più tardo, scritto a quarantun’anni dal primo per il centenario della morte di Péguy, ‘Nous sommes les vainçus’ in Cahiers de l’Histoire de la Philosophie, volume du centenaire pour la Mort de Charles Péguy, ed. Camille Riquier, Le Cerf, Paris 2014, 15-18.
51Véronique, passim.
52Giovanna dichiara anche che, sebbene più smorzatamente rispetto alle opere precedenti su di lei, sarebbe pronta a dannarsi se potesse salvare gli altri – tema che va da Leon Bloy fino a Georges Bernanos (che nel romanzo Sous le Soleil de Satan lo identifica come la più diabolica di tutte le tentazioni). Ma in Péguy, non sembrerebbe avere un grande ruolo, dal momento che è più una maschera dell’ardore di Giovanna; senza dubbio troppo iperbolico a questo punto, ma non quando si scaglia contro l’idea della futilità delle preghiere per i dannati.
53Dal momento che il dramma risale al 1910, ciò dimostra che il socialismo di Péguy sopravvive nel suo periodo cattolico. Se in questo periodo egli esibiva un nuovo senso di dignità dei poveri e persino la necessità di santità dei poveri, come fa notare giustamente Richard Griffiths, ciò forse manifesta immediatamente un nuovo realismo circa l’impossibilità di bandire per sempre la povertà (le cui cause possono essere accidentali); la coscienza che ogni sfortuna può essere purgante e in definitiva la coscienza che la “spoliazione” è un certo senso necessaria per tutti, cosicché il problema del culto del denaro allo stesso modo o addirittura di più incoraggia la sfortuna del benessere tanto quanto causa anche una ingiustificabile tensione. Ma, come nel caso di Notre Jeunesse, di sicuro Péguy non trascurò mai l’imperativo di alleviare la povertà, né di fare guerra alle sue cause strutturali, com’è palese ne L’Argent. Allo stesso modo egli non trascurò mai l’esigenza di giustizia economica e di realizzazione sociale e creativa per tutti, anche se egli successivamente (e acutamente) suggerisce che la rimozione di qualsiasi gerarchia sociale ed educativa può essere soltanto sinonimo di incoraggiamento di una gerarchia monetaria e burocratica corrotta.
54Si veda The Portal of the Mystery of Hope.
55Si veda l’edizione per il teatro della Carcanet, 84.
56È possibile leggere l’insistenza di Péguy su tutto ciò che riguarda il tempo, l’Incarnazione, la speranza, l’escatologia, la nazione, le forze armate e la politica in relazione con la ri-assorbimento delle tematiche ebraiche nel cristianesimo. Così il suo patriottismo francese ha implicazioni opposte per quanto riguarda gli ebrei rispetto a quelle di Charles Maurras e i suoi successori. Si può sentire, allo stesso modo, un’eco (per quanto probabilmente inconscio) delle concezioni cabaliste e chassidiche di salvezza nei termini di un recupero della gloria divina stessa raccogliendo le sue perdute “scintille sparse” nella reiterata interpretazione di Péguy delle tre parabole della perdita.