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Ror Studies Series | Storia e mistero

Ontologia e storia in Jean Daniélou

Giulio Maspero

Pontificia Università della Santa Croce, Roma

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Introduzione

Scriveva Joseph Ratzinger nella sua tesi di abilitazione: “ad una teologia e filosofia della storia si giunge, soprattutto, nelle epoche di crisi della storia umana”.1

Tale affermazione può fornirci una chiave di lettura dello “stare di fronte al mistero della storia” che accomuna il teologo tedesco e Jean Daniélou. Una domanda che ci può aiutare è: qual è la crisi di fronte alla quale loro si sono trovati e che rapporto ha con la crisi di fronte alla quale ci troviamo noi oggi?

Secondo una possibile lettura la crisi che ha segnato tragicamente il sec. XX e che, quindi, ha occupato il pensiero dei grandi teologi che l’hanno attraversato è stata la traduzione a livello di esistenza concreta dell’uomo della dialettica tra essere e storia, tra essenza ed esistenza. Ciò può ricondursi alla perdita di una ontologia capace di pensare la relazione e quindi la differenza. Il riflesso sociologico della scomparsa di tale matrice teologica è stato evidenziato in modo magistrale da Pierpaolo Donati, in un volume che ha molto da dire ai teologi di oggi.2

La riduzione della relazione a quella sua patologia che è la dialettica ha portato all’incapacità di declinare la differenza, in quanto l’opposizione o tensione polare che caratterizza il pensiero di tutta la realtà, secondo la bella espressione di Guardini,3 forse di ispirazione anche per Papa Francesco,4 veniva spezzata in un aut-aut, che afferma uno dei termini della relazione a scapito dell’altro. Così per parlare del valore dell’uomo si vide necessario negare l’esistenza di Dio, per affermare la dimensione secolare e laicale sembrò ancora necessario sminuire la Chiesa e, più in generale, per mettere in evidenza la dimensione esistenziale e storica si negò il piano metafisico dell’essere.

Tale soluzione può essere considerata la causa più profonda della crisi postmoderna contemporanea, nella quale l’incapacità di declinare la differenza si traduce nella negazione di ogni differenza e quindi nella liquefazione dell’identità dell’uomo e nella perdita della possibilità di affermarne il valore assoluto, cui consegue la scomparsa di un pensiero e delle parole atte a dire l’amore. Il desiderio più profondo di ogni cuore non trova più una cultura e un linguaggio che ne favorisca l’espressione e la realizzazione, per l’equivocità che le parole hanno assunto. Si tratta veramente di una situazione patologica, in senso psichiatrico, perché essa si presenta come un double-bind, cioè un doppio vincolo contraddittorio, che spezza l’identità della persona: oggi siamo di fronte a un super-io, per usare una terminologia freudiana, il quale ci ingiunge che dobbiamo assolutamente e necessariamente essere liberi, cioè che siamo obbligati ad esserlo, gettandoci in una contraddizione ontologica. Dall’essere si è passati al dover essere. Si tratta, quindi, proprio di una crisi metafisica, che cerca di evitare le differenze negandole, in quanto non riesce più a gestirle, e per questo finisce per moltiplicare le differenze stesse, creando sempre nuove frontiere, nuovi luoghi dove emergono differenze. Il confine tra uomo e donna, che non è più letto in chiave relazionale, viene tradotto in molti nuovi confini tra i diversi gender e così via per le religioni, le culture, la politica e i diversi aspetti che riguardano la vita dell’uomo.

La tragedia causata da questa situazione consiste nel fatto che l’amore si fonda su una differenza, in modo tale che la negazione di ogni differenza produce l’incapacità di amare e, quindi, il fallimento del desiderio più profondo e umano di ciascuno.

Tutto ciò può aiutare a cogliere la portata e l’attualità della posizione di Jean Daniélou di fronte al mistero della storia ed evidenzia un tratto notevole che lo accomuna a Joseph Ratzinger. In particolare, l’articolazione del rapporto tra essere e storia nel pensiero del grande gesuita francese non è dettato da una ricerca meramente erudita ma, alla scuola dei Padri della Chiesa, e di Gregorio di Nissa in particolare, offre all’uomo della nostra epoca una risposta efficace, quasi profetica, per fronteggiare la crisi in cui siamo immersi.

Gregorio di Nissa e Jean Daniélou

Essere e tempo

Proprio Gregorio di Nissa sembra costituire la fonte principale del pensiero teologico di Jean Daniélou, di fronte al mistero dell’essere e della storia.5 Basti questa citazione tratta dall’introduzione a Être et le temps chez Grégoire de Nysse, magnifico libro dedicato all’analisi terminologica di alcuni snodi fondamentali del pensiero nisseno, significativamente definito come “filosofia personale”:

Questa filosofia personale ha due dimensioni essenziali. Anzitutto è una visione della relazione fra l’Essere (ὁ ὄντοως ὤν) e gli esseri (τὰ ὄντα). Tale aspetto ontologico è essenziale, in Gregorio. […] La seconda dimensione, la più originale, è il tempo. Vedremo che l’intento più importante di Gregorio è il fare del cambiamento (τροπή) la caratteristica costitutiva dell’essere creato, qualunque sia. […] Accanto ad una filosofia dell’Essere, il pensiero di Gregorio è una filosofia del tempo. E forse è l’unione di questi due tratti Zeit und Sein (Tempo ed Essere), che è il legame fondamentale della sua sintesi.6

La citazione di “tempo ed essere” in tedesco è, ovviamente, un esplicito riferimento all’opera di Heidegger. Ciò rivela l’intenzione profonda di Daniélou, il quale studia i Padri proprio per rispondere alla domanda contemporanea sul valore dell’esistenza.7 La stessa definizione della teologia di Gregorio come filosofia dell’Essere e del tempo mostra un’impostazione fondamentale che presenta Cristo come risposta alla ricerca più profonda dell’uomo di ogni tempo, risposta che si dà nella storia, in modo tale che l’Assoluto si trova nel particolare, l’universale nel concreto,8 secondo la bella definizione di von Balthasar, il quale, a sua volta, chiamava la teologia del Nisseno “filosofia religiosa”.

Il senso della ricerca di Daniélou e la ragione più profonda del suo stesso rivolgersi al grande Padre cappadoce si può rinvenire nella seguente citazione, che chiude l’introduzione a Essere e tempo:

In conclusione, vorremmo dire che ci auguriamo che questo lavoro storico sia anche un contributo al rinnovamento del pensiero filosofico nel cristianesimo. L’opera di Gregorio ci sembra esemplare, sotto questo punto di vista, perché unisce l’arditezza della ricerca all’attendibilità della fede. Essa è in contatto con il pensiero del suo tempo, ma non ne è schiava. Conduce insieme al senso dell’Essere ed a quello della storia. Unisce la fiducia nell’attitudine dell’intelligenza a cogliere il reale, ed il senso del mistero inesauribile che il reale rappresenta riguardo a tutto ciò che può afferrarne l’intelligenza. E questo corrisponde a quello che tutti noi ricerchiamo oggi.9

Rilettura ontologica

Daniélou rilegge il pensiero di Gregorio di Nissa sullo sfondo di tutta la storia della metafisica e la prima patristica, evidenziando che il tratto più caratteristico della novità che lo contraddistingue è una comprensione ontologica che non nega più il valore del tempo per affermare Dio, ma che trae le ultime conseguenze del fatto che lo stesso Ipsum Esse Subsistens è entrato nel tempo e ha definitivamente iniziato ad abitare la storia, una volta per tutte:

L’idea di cambiamento è, in Gregorio, perfettamente positiva e rappresenta un contributo di valore alla teologia. Per Platone, in effetti, ogni cambiamento è un difetto e, se il mondo intelligibile è superiore al mondo sensibile, è precisamente in quanto esso è immutabile. Lo stesso Origene non sfugge a questa difficoltà: il cambiamento non è mai per lui altro che una degenerazione rispetto ad uno stato di perfezione iniziale. Ma con Gregorio l’equazione bene = immutabilità, male = cambiamento è invertita.10

La presa di coscienza di questa rivoluzione non è, però, ingenua. Il teologo francese può essere rapido nelle sue citazioni, ma è sempre rigoroso nell’elaborazione del pensiero. Egli sa che gli argomenti metafisici che avevano spinto i filosofi greci a identificare cambiamento e male, negando che Dio potesse avere a che fare con la storia, mantenevano la loro validità. Per questo egli non li disconosce, non va contro la metafisica classica, ma la estende, fedele al percorso dello stesso Gregorio di Nissa. Si tratta di un pensiero che evita sempre la dialettica per stare nella relazione. L’epistemologia teologica di Daniélou è relazionale, poiché accosta i diversi momenti del pensiero senza mai affermarne uno contro un altro.

Le radici profonde di tale procedere sono trinitarie, in quanto Dio è tre Persone divine che sono assolutamente una unica sostanza eterna e infinita. Si ha un cambiamento radicale del quadro ontologico rispetto al mondo classico: precedentemente si aveva un’unica ontologia finita ed eterna, alla quale appartenevano sia Dio sia il mondo con l’uomo. La differenza tra di loro poteva essere declinata solo in termini di una scala composta da livelli di densità metafisica discendente. Si pensi alla catena di motori che, secondo Aristotele, unisce al Motore immobile. I diversi gradi di questa scala sono connessi in modo necessario da cause seconde che permettono al pensiero di risalire fino alla causa prima. Da questa prospettiva il fine dell’uomo è sempre la felicità che si dà nella divinizzazione, quindi un fine che potremmo dire teologico, contro ogni artificiale separazione di teologia e filosofia. Ma tale felicità può essere conquistata partendo dal basso e con il solo pensiero. Il saggio, quindi il filosofo, può risalire verso l’alto.

Nella prospettiva rivelata, invece, non si ha più un unico ordine ontologico, ma due diversi ordini ontologici: il primo eterno, che coincide con la natura della Trinità, cioè con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; il secondo creato insieme al tempo, per amore e liberamente, ad opera di Dio stesso. Da questa prospettiva l’esistenza del mondo ha come causa la volontà divina, in modo tale che il rapporto con Lui e il fine dell’uomo si possono dare solo come dono dall’alto nella relazione personale. Dio, che è tre Persone con le relazioni eterne e perfette che le distinguono, ha – anzi è – una ontologia che in parte è nuova per il metafisico greco, in quanto è conoscibile solo per rivelazione. In concreto, la relazione non è più considerata un mero accidente né l’entrare in relazione è legato a un deficit ontologico, ma la relazione stessa viene riletta in senso positivo, in quanto essa è nell’immanenza di Dio, il quale entra in relazione proprio perché è perfetto. A ciò si associa la presa di coscienza dell’attuale infinitudine divina.

La chiara percezione dello scarto tra la prospettiva metafisica greca e l’ontologia richiesta dall’evento cristiano non può essere espressa più chiaramente da Daniélou:

Ora, se consideriamo quel che erano il pensiero e la filosofia del mondo ove il cristianesimo è apparso vediamo ch’essi non erano affatto preparati a entrare in quella prospettiva e che anzi vi si opponevano con tutte le loro forze. Da una parte ci troviamo in presenza del pensiero greco, per il quale il divino è il mondo immobile ed eterno delle idee. Le leggi immobili del cosmo e della città sono il riflesso visibile di questa eternità del mondo intelligibile. Il movimento stesso è una imitazione di questa immobilità. Esso è infatti concepito come ciclico, sia nel movimento regolare degli astri quanto nell’eterno ritorno che regola il movimento della storia e secondo il quale i medesimi eventi si riprodurranno eternamente. Così la ripetizione fa partecipare il movimento stesso all’eternità del mondo delle idee e ne esorcizza ogni innovazione.11

Non è un caso se questo testo si trova nella sezione di apertura dell’Essai sur le mystère de l’histoire. Daniélou parte nella sua riflessione sul mistero della storia proprio dalla percezione della differenza ontologica tra il mondo greco e quello dei Padri. Per questo, nello stesso volume un capitolo fondamentale è dedicato a uno degli elementi più fondamentali del pensiero di Gregorio di Nissa: la akolouthia.

Akolouthia

Esso è un vero e proprio principio architettonico della teologia del grande cappadoce.12 Si tratta di un termine di origine aristotelica presente anche nella filosofia stoica, che indica la concatenazione di cause, che vanno ricercate per cogliere il senso profondo del reale, al di là delle apparenze più superficiali. La ricerca dell’akolouthia indica, dunque, lo studio propriamente scientifico, che indaga in primo luogo la logica di ciò che viene studiato. Per questo i significati più fondamentali sono quelli logici e cosmologici, comuni anche alle fonti filosofiche di Gregorio. Ma la novità rivelata spinge a non fermarsi all’indagine della catena di cause necessarie, che, come si è visto, caratterizzava l’immagine del rapporto Dio-mondo greca, ma di estendere la ricerca alla connessione di cause libere, in base proprio alla rivelazione della volontà amorevole di Dio come origine ultima della natura e della storia. Per questo l’akolouthia svolge un ruolo fondamentale nell’esegesi nissena, in quanto ricerca del senso più autentico degli eventi narrati, al di là della superficie letterale. Non solo si dà una finalità intrinseca nel cosmo, ma nella storia stessa dell’uomo esiste una direzione, una linea di sviluppo al quale ciascuno è chiamato liberamente a tendere. E tutto ciò perché la provvidenza divina si fa carico di portare a compimento la storia, riempiendola non da fuori, ma da dentro, di un senso che, agli occhi di chi è in comunione con il Dio uno e trino, viene riconosciuto mediante la contemplazione come principio immanente di intelligibilità. Esso non è dunque solo estrinseco, né esclusivamente intrinseco, ma è dentro come dono dall’alto, è dentro venendo da fuori la storia, o meglio da sopra.

Daniélou, rileggendo questa categoria nissena nel saggio dedicato al mistero della storia, evidenzia come tale dono permette di ricomprendere il senso stesso del mondo alla luce del suo fine ultimo che è la divinizzazione:

Ma si tratti di vita o si tratti del cosmo, l’ἀκολουθία appare sempre in sostanza legata alla realtà del tempo. E in ciò sta in definitiva la sua importanza. Nessun mistero ha assillato tanto Gregorio quanto quello del tempo. Alla giuntura del pensiero greco con il pensiero cristiano, ne avverte da un lato la tragicità e la legge inesorabile; prova l’impazienza dei ritardi e l’ansia del ripetersi. Ma non risponde a questo dramma con l’evasione platonica fuori del tempo, ma con l’affermazione cristiana d’un senso del tempo che gli conferisce un valore positivo presentandolo come il luogo di un disegno divino.13

La dimensione dello spazio e del tempo, che è da Gregorio identificata con il segno distintivo della creatura, viene riletta alla luce del dono trinitario non più come limite, ma come traccia divina nell’uomo e nel mondo. Così, contemplando la storia, si possono scorgere due diversi tipi di akolouthia: uno necessario, legato alla natura, e uno più fondamentale e originario, che riguarda la libertà. L’uomo è creatura, finita e legata al tempo e allo spazio, ma il suo fine è l’unione nell’eternità con Dio infinito. Se si assume quest’ultimo punto di osservazione, ci si accorge, allora, che la storia del mondo è segnata dalla caduta del peccato originale, per la quale la libertà dell’uomo si è assoggettata alla necessità: la sua vocazione all’infinito si è lasciata intrappolare nei limiti materiali e animali. Ma il Creatore continua a prendersi cura della sua creatura e la successione dei suoi interventi nella storia costituisce una akolouthia il cui significato è, per Gregorio, analogo a quello di oikonomia, cioè di storia della salvezza. È quest’ultima ad assicurare che la storia possa sopravvivere sospesa sull’abisso del nulla, perché Dio si rende presente attraverso di essa e libera l’uomo dalle catene della necessità, attraendolo verso il movimento eterno per il quale è stato creato. Così l’aspetto più profondo dell’akolouthia è la sua capacità di rivelare la dimensione spirituale e il senso mistico della storia non solo dell’umanità, non solo di Israele, ma anche del singolo uomo, di ogni anima:

Da una parte esiste una connessione (ἀκολουθία) tra gli eventi storici, dall’altra una connessione tra le realtà spirituali ed, infine, un parallelismo tra le due serie.14

La storia più vera è quella spirituale, quella che in sé è mistero non perché è ignota, ma perché è segnata da una realtà inattingibile in tutta la sua profondità. La ricerca del teologo coincide, così, con quella del mistico, che deve investigare i tratti che connettono gli eventi per riconoscere la trama che unisce il logos dell’uomo al logos di Dio. Per questo, secondo Daniélou, il tema dell’akoulouthia è intimamente connesso a un altro elemento fondamentale del pensiero nisseno, cioè il progresso perpetuo della vita spirituale. Anche in questo caso esiste un termine che lo esprime, portato in auge da Daniélou stesso: epektasis.

Epektasis

Sembra importante ricordare qui che il Festschrift di Jean Daniélou porta come titolo proprio Epektasis.15 In effetti, la stessa presentazione del volume, firmata da Jacques Fontaine e Charles Kannengiesser, rinviene in tale espressione non solo la tensione dell’anima nell’eterna dinamica di unione con Dio, ma anche un ritratto di Daniélou come persona, l’homme même. Stando agli illustri direttori del volume, l’incontro tra il teologo francese e il Padre della Chiesa cappadoce non fu una questione meramente accademica e intellettuale, ma fu un centro privilegiato delle sue ricerche in quanto sorgente viva del suo pensiero e della sua azione. Epektasis potrebbe perfino descrivere il carattere e la silhouette del grande gesuita, veloce e appassionato nel parlare, profondamente attento alle persone concrete e teso in avanti per l’impazienza di andare sempre oltre, trascinato dalla sua forza intuitiva.16

L’epektasis può essere vista, dunque, come una cifra del pensiero e dell’esistenza del teologo francese fin dagli inizi della sua ricerca. La presentazione di questa categoria può essere considerata, infatti, il punto di arrivo dell’esplorazione della concezione spirituale nissena realizzata da Daniélou nella sua tesi dottorale, pubblicata nel 1944 con il titolo Platonisme et théologie mystique: doctrine spirituelle de saint Grégoire de Nysse.17

L’espressione è ispirata alla formula paolina “dimentico del passato e proteso (ἐπεκτεινόμενος) verso il futuro” in Fil 3, 13. Questo slancio verso Dio e, quindi, verso la storia e il mondo, che caratterizza il cristiano e si è manifestato in modo eminente nella vita di Paolo, indica, nel gioco delle preposizioni che qualificano il verbo greco teinô (estendersi), un doppio movimento metafisico: da una parte l’epi punta verso una autentica unione con Dio e la partecipazione della sua natura divina, dall’altra l’ek significa la trascendenza divina, in quanto si ha sempre un oltre in questa partecipazione, non per un limite, ma per la perfezione e infinitezza del Partecipato.18

Daniélou legge chiaramente l’epektasis in chiave ontologica, collegandola, appunto, alla partecipazione e all’essenza del rapporto tra il Creatore e la creatura. Rispetto al mondo classico, non c’è più alcun bisogno di proteggere Dio, evidenziando ciò che lo distingue rispetto all’uomo, che di Lui è immagine degradata. Invece l’essere immagine è riconosciuto come perfezione.

In questo è evidente il modo di procedere di Gregorio di Nissa, il quale risemantizza alcune categorie metafisiche per trasfigurarle in modo tale da poter esprimere attraverso di esse la novità ontologica rivelata. Daniélou è sempre particolarmente attento a questo cambiamento di significato del testo grazie alle relazioni generate dal contatto con il nuovo contesto. Si pensi a quanto scrive sul termine chiave per il platonismo immagine (eikôn):

Esso designa una vera comunanza di “natura”. Tuttavia, esso implica un certo numero di distinzioni che gli usi non-cristiani del termine non offrivano. Applicato al λόγος, come già in S. Paolo (Col 1, 15, Cfr. Sap 7, 26), il termine εἰκών non designa una partecipazione deficiente, ma la pura relazione di origine nella perfetta uguaglianza della natura: è un senso nuovo, legato al dogma trinitario.19

La novità è radicale, perché si giunge, in questo modo, alla sconvolgente affermazione che non solo Dio è infinito, cosa che già da sola sarebbe risultata empia nel contesto greco, ma che l’uomo stesso è infinito, pensiero addirittura folle dalla stessa prospettiva. Dio e l’uomo possono essere messi sullo stesso piano perché si ha uno strumento che permette di declinarne la differenza in modo estremamente efficace, cioè la relazione. Questa trasforma la partecipazione platonico-aristotelica in senso positivo, permettendo la comunione come unione senza confusione. Perciò Daniélou può affermare:

In effetti, per Gregorio, Dio e l’uomo fanno ugualmente parte del mondo intellegibile. In questo Dio e l’anima sono dello stesso ordine. Ma la differenza essenziale è che Dio è infinito in atto, mentre l’anima è infinito in divenire. La sua divinità consiste nel trasformarsi in Dio. Si comprende perché da questa prospettiva il progresso sia costitutivo per l’anima stessa. Infatti, se essa è un infinito in divenire, per essa la creazione deve necessariamente prendere la forma di una crescita, senza la quale questa sarebbe finita, caratteristica del mondo materiale. Così la grazia, che è questa perpetua aggiunta di nuovi beni, è precisamente l’epektasis, che la mantiene sempre rivolta verso oltre se stessa.20

Il punto centrale dell’interesse di Daniélou per la teologia di Gregorio sembra essere il percorso dell’anima nel processo di divinizzazione. Egli traccia le diverse tappe del cammino che conduce dalla purificazione alla luce e che, sorprendentemente, culmina nelle tenebre, perché la divinizzazione avviene nell’unione delle volontà e non solo nella conoscenza intellettiva, in quanto Dio rimane sempre al di là di ogni nostra capacità conoscitiva. Ma oltre alla scansione dell’ascesi, quello che colpisce il teologo francese è il valore del movimento stesso: proprio al culmine della divinizzazione non si ha una stasi, ma il desiderio permane, perché l’unione personale con Dio trasforma l’uomo rendendolo sempre più capace di accogliere il dono divino. Il desiderio stesso è quindi riconosciuto come dono, contemplato come ontologicamente positivo, e non più dalla prospettiva del deficit metafisico, secondo la dottrina del Simposio platonico.

La percezione della trascendenza dell’ousia divina si traduce nell’identificazione della perfezione dell’uomo con un progresso continuo.21 Questo desiderio crescente viene colto come dono, in una profonda comprensione della rilettura nissena della metafisica platonica. Lo stesso linguaggio è reinterpretato in un contesto ontologico nuovo, dettato dalla Rivelazione trinitaria. E il contesto cambia il testo, le relazioni introducono un nuovo senso e, quindi, una nuova sostanza in una forma preesistente.

La divinizzazione concepita dalla prospettiva di un Dio che è solo intelletto non può che essere nel suo compimento statica, escludendo il desiderio. Invece se Dio, oltre che intelletto, è anche volontà e amore, allora la divinizzazione si darà sempre dinamicamente nella relazione come desiderio crescente. Ogni punto di arrivo diventa, nella concezione nissena, punto di partenza di una unione più profonda, e così all’infinito:

Arriviamo dunque alla conclusione che l’epektasis è la condizione stessa dell’anima. Non si tratta più di una tappa particolare della vita spirituale. Abbiamo dapprima considerato tale tensione come un fatto. Ora scopriamo che essa costituisce il ritorno stesso dall’anima alla sua vera natura. La sua essenza consiste nel riceversi interamente in ogni momento da Dio, d’essere perpetuamente creata, come dice meravigliosamente Gregorio. L’epektasis è la stessa ratifica da parte della volontà libera della sua condizione reale, il riconoscimento di ciò che essa è. Se questa è l’espressione della sua natura più profonda, non ci stupiremo di vedere Gregorio affermare come si tratti di una disposizione permanente, che si ritrova lungo tutta la vita spirituale e che persiste nella vita eterna.22

Questo testo di Daniélou è particolarmente profondo da un punto di vista teologico, perché mostra come storia e gloria siano in una sorta di continuità dinamica. La prospettiva nello stesso tempo personale e ontologica permette di rileggere il rapporto di unione con Dio come relazione dinamica e stabile nel tempo. È proprio la dimensione relazionale ciò che permette di raccordare essenza ed esistenza, essere e storia, superando i limiti della metafisica classica. Tale movimento costante diventa così espressione di compiutezza. Infatti, parlando di come Gregorio descrive Mosè e la sua perfezione in termini di disposizione stabile verso Dio, Daniélou scrive:

Se noi cerchiamo la spiegazione ultima di questa situazione spirituale dell’anima, ci sembra che essa abbia il suo fondamento ultimo nella doppia relazione che essa ha con Dio, sotto il suo duplice aspetto di ousia impartecipabile e di dynamis partecipabile. Luce e tenebre, riposo e movimento, sobrietà ed ebrezza, piuttosto che due momenti successivi sono due aspetti complementari. L’uno, la luce e il riposo, corrispondono alla realtà della partecipazione; l’altro corrisponde alla trascendenza infinita dell’essenza. Lo stato mistico, nella sua realtà ineffabile, è precisamente l’essere la sintesi di questi due elementi apparentemente irriconciliabili. Il genio di Gregorio è il non aver sacrificato l’uno all’altro, di non aver abbandonato la realtà della partecipazione come hanno fatto i mistici del vuoto, un Eckhardt per esempio, né di averne minimizzato la trascendenza, come ha fatto Origene.23

Il movimento spirituale è così sintesi di cambiamento e continuità e l’epektasis è considerata da Daniélou il nome cristiano della prokopê platonica, analogamente a come agapê è il nome cristiano di erôs.24

Sembra che proprio qui si possa rinvenire il nucleo originario della concezione del rapporto tra essere e storia del grande francese. Nell’introduzione a From Glory to Glory, antologia di testi nisseni da lui scelti e tradotti da Herbert Musurillo, l’inversione dell’equazione tra male e mobilità o tra bene e immobilità viene esplicitata in termini di un doppio cambiamento, come già si è visto a proposito dell’akolouthia: uno negativo, che consiste in un semplice ritorno all’immobilità, cioè nella negazione del movimento stesso, o nella ricaduta nel ciclo dell’eterno ritorno che segna la necessità biologica e naturale; un secondo positivo, indirizzato verso Dio. In questo secondo, la perfezione consiste non nell’essere immutabili, ma nella possibilità di non essere distolti dal movimento di crescita costante nell’unione con Dio, di gloria in gloria, appunto, secondo un’espressione ancora paolina (cfr. 2Cor 3,18). La perfezione dell’uomo non è, dunque statica, ma dinamica: “la perfezione è il progresso stesso”.25 Non un progresso identificato con un cambiamento continuo, piuttosto un cambiamento infinito verso il meglio, una crescita senza limite nell’unione ontologica con l’immensa Bontà che è Dio, il Quale, riversandosi nell’uomo, lo rende sempre più capace, e quindi lo mette in grado di accogliere in misura ancora maggiore il dono divino.26

Si è qui, dunque, a quello che sembra essere l’origine del nucleo centrale di tutto il pensiero e il metodo di Daniélou: la possibilità di unire essere e tempo, storia e verità, si fonda proprio su una comprensione ontologica dell’essere e della storia stessi, una comprensione elaborata a partire dalla Rivelazione cristiana in modo tale da modificare ed estendere la metafisica classica. Un movimento senza ontologia finirebbe per dissolvere l’esistenza, relativizzando ogni cosa. Il valore dell’uomo stesso e della persona rimarrebbero sospesi sul nulla. Invece una comprensione ontologica della relazione tra l’uomo e Dio fondata non solo sull’infinitudine divina, concepita pure dalla modernità, ma anche sulla realtà del dono e della partecipazione al Suo essere, porta a una sintesi originale, che pare offrire una indicazione di sviluppo preziosa per l’uomo contemporaneo immerso nella crisi postmoderna. Questa è, infatti, nel suo nucleo più profondo una crisi metafisica, perché la reazione dell’esistenza contro l’essenza ha portato a una liquefazione dell’io, cioè di quello stesso soggetto il cui valore assoluto è stato colto solo grazie alla Rivelazione cristiana e allo sviluppo del pensiero teologico e trinitario in particolare.

Teologia della storia

Il di dentro ontologico

Per quanto detto non sorprende il riconoscere nel pensiero di Daniélou la presenza di un’autentica teologia della storia, da lui definita come quella parte della teologia che si occupa della caratteristica specifica ed immutabile dell’agire divino nella storia. In questo senso si tratterebbe di una disciplina enormemente vasta, che ha come oggetto l’insieme di tutto il tempo dell’uomo, del quale si cerca di individuare il senso.27

Si possono qui leggere sullo sfondo le categorie nissene di akolouthia e di epektasis. La stessa teologia cappadoce è accostata a quella agostiniana sotto la qualifica di “due grandi teologie della storia”,28 dove a Gregorio di Nissa è riconosciuta una attenzione particolare alla storia personale dell’uomo e alla libertà umana, mentre l’Ipponate evidenzierebbe maggiormente la storia generale e l’azione di Dio. Da questa prospettiva le due teologie sarebbero complementari.29

L’elemento patristico è, quindi, alla base della concezione ontologica della storia di Daniélou. Egli rinviene le origini di una teologia della storia in Ireneo, cui farebbe capo una tradizione specifica asiatica importante nel pensiero di Gregorio. L’elemento fondamentale individuato nelle opere del vescovo di Lione sarebbe il riconoscimento del ruolo pedagogico della legge divina, che ora cessa di venire connessa al peccato per essere accostata all’oikonomia, quindi al progressivo succedersi degli eventi salvifici.30 La riscoperta della storia della salvezza e la teologia della storia patristica sarebbero, dunque, intimamente legate tra loro.31

É nel già citato Essai sur le mystère de l’histoire dove, nel 1953, Daniélou fa confluire il suo pensiero sulla storia impregnato dello studio dei Padri e del cristianesimo primitivo, che lo aveva impegnato dall’edizione della tesi di dottorato su Gregorio di Nissa nel 1944, passando per il volume su Origene32 del 1948 fino a quelli sull’esegesi patristica33 e i simboli cristiani34 tra il 1950 e il 1951.

Nello studio del mistero della storia appare subito la profondità teologica della prospettiva, che si presenta chiaramente in contrasto con gli approcci storicisti e meramente esistenzialisti:

Per il cristiano ciò che si edifica nella storia non è soltanto una società umana, ma un destino divino dell’uomo […] È il cristianesimo a fare la vera storia.35

La modalità espressiva pare quasi una sfida lanciata contro ogni riduzionismo. Lo sguardo del teologo, affinato alla scuola dei Padri, supera ogni forma di dialettica, per ricercare il di dentro degli eventi, cioè quella dimensione segnata dalla presenza divina:

La storia del mondo, nel senso cristiano della parola è essenzialmente la Storia sacra, quella delle grandi opere di Dio attraverso il tempo, nel quale con la potenza irresistibile del suo spirito creatore, egli costruisce l’umanità autentica, la Città eterna. Se vogliamo quindi trovare il senso della storia cristiana, bisogna sapere oltrepassare la storia apparente ed esteriore, per penetrare quella reale, che si costruisce nelle profondità dell’uomo e della quale solo lo Spirito Santo può darci intelligenza.36

Daniélou riconosce così che ci sono due storie, quella fatta dagli uomini e quella portata avanti da Dio, il quale è entrato nella storia stessa e si è fatto carne una volta per tutte. Si nota subito la prospettiva ontologica di questa teologia della storia, che si basa sull’Incarnazione e sull’irrevocabilità della presenza divina nel tempo:

Vi è in ciò qualcosa di irrevocabilmente acquisito. Nulla potrà mai più dividere la natura umana dalla divina. Nessuna ricaduta è più possibile. L’umanità è sostanzialmente salva. Rimane il problema dell’estensione agli individui di ciò che è acquisito per la natura intera. Abbiamo qui dunque un avvenimento che introduce un cambiamento qualitativo, definitivo nel tempo, tale che non si potrà mai più ritornare indietro.37

Rispetto alla concezione statica e ciclica greca, il cristianesimo introduce il principio dell’hapax, cioè di eventi che non solo costituiscono novità assolute, ma che permangono in modo definitivo, che abitano stabilmente la storia, unendola all’eternità, come nel raccordo tra tempo e gloria che caratterizzava l’epektasis: “La storia santa è fatta di inizi assoluti che poi restano eternamente acquisiti”.38

Ciò si scontra con la concezione metafisica dell’uomo che conosce solo due categorie di realtà fondamentali: quelle che non hanno né inizio né fine e ciò che ha inizio mai poi termina, cioè si corrompe. Nel mondo greco tale distinzione è articolata fondamentalmente nell’opposizione tra enti intellegibili e corruttibili. Qui si inserisce la novità scandalosa della Rivelazione:

Ma la nozione di realtà che cominciano e non finiscono, è uno scandalo per la ragione umana e appare come specificamente cristiano.39

In questa realtà ontologica consiste il cuore del mistero della storia, che come l’ordito sostiene le trame degli eventi da dentro. Dentro il tempo si ha un fondamento reale assicurato da Dio stesso, che sostiene lo svolgimento delle esistenze, conferendo loro un valore trascendente. La questione è ontologica, appunto, e investe seriamente l’epistemologia teologica. Il metodo stesso della teologia della storia può essere così descritto:

Esso consiste nell’applicare princìpi biblici a problemi cui la Scrittura non li aveva esplicitamente applicati.40

Posto che le promesse di Dio sono irrevocabili e posto che l’infedeltà dell’uomo non può nulla di fronte all’hapax divino, in quanto l’uomo stesso può sottrarsi al beneficio, ma non può far sì che le promesse siano revocate, è allora possibile contemplare tutta la storia alla luce di questa presenza, di questo di dentro ontologico, che è il mistero di Cristo. Anzi, la storia è tale solo a partire dall’unità che promana dall’Incarnazione, Morte e Risurrezione di nostro Signore. Così è la forza della Croce stessa a rendere la storia tale. Per questo la Croce deve assurgere a criterio epistemologico fondamentale perché si possa conoscere la storia.

Cristo come Eschatos

Tale lettura della storia come unità fondata sulla Croce viene articolata da Daniélou in tre momenti, che emergono nella teologia della storia da lui tracciata sullo sfondo della filosofia greca e della tradizione ebraica:

  1. il primo è la presenza di eventi straordinari e irrevocabili, cioè di un’autentica novità che la concezione metafisica classica non poteva accettare.
  2. Il secondo è il legame che unisce tali avvenimenti tra di loro, la continuità che li contraddistingue e che assume una rilevanza particolare nel confronto con l’ebraismo, in quanto viene riconosciuto un valore a ciò che lo contraddistingueva, ma nello stesso tempo il progresso della pedagogia divina ne segna anche il superamento nella rivelazione cristiana. La polemica con i giudaizzanti e il pensiero di Paolo sarebbero fondamentali in tale presa di coscienza, che esegeticamente si traduce nel valore assegnato alla tipologia. Questo elemento metterebbe anche in evidenza la differenza essenziale tra cristianesimo ed esistenzialismo, in quanto mostrerebbe come non siano sufficienti le decisioni del singolo perché si possa parlare di una storia significativa, ma serve una dimensione più grande, un elemento che permetta l’unità degli eventi e delle decisioni.41
  3. Infine, oltre ad evento e progresso, si ha un terzo elemento nella visione della storia cristiana, elemento che consiste nel termine del progresso stesso, cioè nella sua realizzazione escatologica.42

Da questo punto di vista la dimensione ontologica della teologia della storia del gesuita francese si fonda sulla sua cristologia ontologica, in quanto egli evidenza come il compimento del tempo non sia un eschaton ma un eschatos,43 cioè la Persona stessa del Cristo. In consonanza con Cullmann, si può dire che tutto è già accaduto in Lui, in quanto Lui è l’eschatos già presente in sacramento nel tempo. Si scorge qui la forza del termine mistero, il quale acquista una valenza propriamente sacramentale, che permette di risalire dall’economia all’immanenza. In tale prospettiva si può dire:

La salvezza non è più soltanto promessa, ma donata, ed attesa ne è soltanto la manifestazione.44

La salvezza è dunque ontologicamente presente nella storia e l’escatologia non è solo qualcosa che riguarda il futuro e che darà risposta alla domanda dell’uomo, ma è qualcuno che è già presente. Alla luce di ciò, in modo paradossale e provocatorio, Daniélou arriva a dire che chi rischia di essere in ritardo non è il cristiano, ma il mondo moderno, perché Cristo viene dal futuro ed è già presente nel presente.45

Tale presenza divina nel tempo dell’uomo segna una discontinuità che relazionalmente – e non dialetticamente – distingue senza separare e unisce senza confondere. Le religioni pagane non sono realtà estranee al cristianesimo, in quanto esprimono il desiderio di Dio insito nel cuore di ogni uomo e, nonostante alcuni loro limiti o deformazioni, sono positive. Nello stesso tempo il precursore, nel momento in cui non riconosce la presenza di chi annunciava, può diventare persecutore. Ma, dal punto di vista della teologia della storia, è sempre possibile, accostando, relazionalmente appunto, le diverse realtà religiose con i punti di contatto che le caratterizzano, individuare la novità propria del cristianesimo rispetto alla religioni pagane e all’ebraismo. I miti e i riti delle religioni primitive, infatti, erano legati al tempo ciclico e alla necessità, che esclude la realtà di veri nuovi eventi. In questo modo non è possibile concepire, da tale prospettiva religiosa, una vera storia. Nel caso ebraico, invece, si ha autentica novità nell’incontro con Dio che si fa presente nella storia in momenti determinati. I sacramenti – come la Pasqua ebraica – svolgono, quindi, essenzialmente la funzione di ricordare l’intervento divino, per attualizzare la fede in Lui. I sacramenti cristiani, infine, sono sempre memoriale, ma essi ora hanno una densità ontologica che potremmo dire infinita, in quanto rendono presente Dio nella storia. I sacramenti della nuova Alleanza sono unione di eternità e tempo, relazione con l’Assoluto e con l’escatologia stessa.46

Si vede come la dimensione ontologica è ancora una volta la chiave della teologia della storia di Daniélou, che in base ad essa giudica anche le teologie della storia del XX secolo. Il teologo francese attribuisce il rinnovamento del pensiero teologico sulla storia alla reazione contro la secolarizzazione e propone tre cause principali di tale sviluppo positivo: a) il pensiero escatologico; b) la teologia biblica; c) il ritorno ai Padri. Mentre Barth, con la sua attenzione al primato dell’azione di Dio, si può situare in questa prospettiva storico-teologica, invece i sistemi di Bultmann e Tillich, secondo Daniélou, la contraddicono a causa della riduzione antropologica della loro concezione di storia. A Barth manca una percezione piena della interconnessione dei diversi momenti in cui Dio interviene nel tempo e del valore della storia profana. Tali limiti non si riscontrano in Cullmann, il quale apre la strada ad una autentica concezione della storia della salvezza grazie alla sua comprensione profonda dell’Incarnazione e di come questa sia in relazione con l’insieme della storia. Tra gli autori cui Daniélou attribuisce una posizione rilevante per la teologia della storia si contano anche G. Thils e P. Teilhard de Chardin, per il valore positivo da loro riconosciuto al mondo.47

Infatti, nella prospettiva ontologica del gesuita francese, la storia della salvezza non è più cronologicamente limitata ad alcuni eventi, ma tutto il tempo viene trasfigurato come luogo di incontro con Cristo:

La storia sacra non è soltanto quella che costituisce i due Testamenti. Essa continua in mezzo a noi. Noi viviamo in piena storia sacra. Dio continua a portare a compimento le sue grandi opere, quelle della conversione, della santificazione delle anime.48

Come già in Gregorio di Nissa, la storia della salvezza viene riconosciuta nella sua dimensione personale e tocca la vita di ogni uomo, fino al punto che è possibile parlare di una mutua immanenza tra le due.49

La sintesi di essere e tempo, che caratterizza la lettura di Daniélou ed è comunicata dalla sua forza espressiva, permette quasi di “vedere” tale mutua immanenza:

Per il cristianesimo la storia è sostanzialmente decisa e l’avvenimento essenziale è al centro, non alla fine […] I grandi eventi del mondo presente sono dunque gli atti sacramentali. Essi sono cosa assai più grande delle grandi opere del pensiero o della scienza, delle grandi vittorie o delle rivoluzioni. Queste riempiono la storia reale. Esse sono grandezze nell’ordine dei corpi. Ma i sacramenti sono grandezze nell’ordine della carità.50

La storia è contemplata non solo come un cammino che si snoda verso l’incontro definitivo con Cristo, ma anche come irradiazione dal centro cristico a tutti i tempi, irradiazione che di realizza ontologicamente nella liturgia e nella vita sacramentale. Queste diventano i criteri ermeneutici dei diversi accadimenti.

Si comprende perché, per il teologo francese, il dogma di Calcedonia è centrale. Per quanto si possa comprendere l’accusa di staticità metafisica che è stata rivolta dalla teologia contemporanea a tale momento dottrinale, quando lo si considera dalla prospettiva dell’ontologia patristica che caratterizza lo sguardo di Daniélou, se ne scopre la portata dinamica ed esistenziale. Il teologo francese giunge a scrivere: “Il dogma di Calcedonia dona consistenza al tempo, e lo trasforma in storia”.51

Cristo è presente nella storia – dinamicamente presente – in modo tale che si può parlare di tale presenza come Dasein,52 in riferimento ancora a Heidegger e all’esistenzialismo. La vera risposta a questa filosofia è, dunque, l’Essere di Cristo stesso.

In Lui, infatti, confluiscono due linee distinte: quella di Gesù, Figlio dell’uomo, riconosciuto come Messia, e quella del Figlio di Dio, cioè una cosa sola con Yahwe. Gli interventi divini che avevano caratterizzato l’Antico Testamento e le genealogie che riconnettono Gesù di Nazareth ad Adamo e ad Abramo, confluiscono nella formula dogmatica di Calcedonia, che parla del Cristo, appunto, vero Dio e vero uomo, ontologicamente vero Dio e ontologicamente vero uomo. Infatti, l’attenzione all’umanità che caratterizzava la scuola di Antiochia da sola non bastava, e nemmeno era sufficiente la prospettiva della salvezza evidenziata dalla scuola di Alessandria. Ci voleva, invece, una sintesi, se così si può dire – ma non in senso hegeliano – che diventasse fondamento ontologico della relazione tra la Trinità e l’uomo, ogni uomo:

Solo la determinazione della cristologia permette di comprendere il vero significato della teologia della storia.53

Infatti, l’unità che la caratterizza si fonda sull’unione ipostatica nella quale la storia stessa viene messa in contatto con l’unità che sgorga dalla Trinità. Ciò implica una comprensione “sacerdotale” della storia. Il suo senso più profondo, infatti, il suo mistero, è la restituzione al Padre del mondo e della storia interi portata a compimento dal Cristo:

Il Cristo riunisce in sé tutto. È centro e cuore della intera creazione. Eterno Sommo Sacerdote, è lui che tutta la creazione attraversa nel suo ritorno verso il Padre. Nell’eterno movimento di ritorno verso il Padre, Cristo porta tutto in qualche modo con sé, come in un corteo trionfale: restituisce così al Padre la creazione che era fatta per il Padre ma che se ne era allontanata.54

Il tema è caro ai Padri, e a Gregorio di Nissa in particolare, nel loro commento a 1Cor 15, 26: Cristo sottomette ogni cosa al Padre. Egli non è Sacerdote prima dell’incarnazione né grazie solo ad alcuni eventi concreti come il Battesimo o l’Ascensione. Ma è Sacerdote nell’unione ipostatica, ontologicamente Sacerdote, fin dal primo momento dell’Incarnazione.55

E proprio tale unione tra il tempo e l’eterno è il fondamento del mistero della storia, di tutta la storia, che è diventata una volta per tutte storia di Dio, nel senso che in Cristo, vero Uomo e vero Dio, tutta la storia è portata a Dio:

L’Incarnazione di Cristo significa dunque che qualche cosa ha inizio che prende possesso di tutto l’avvenire. Qui si pone in luce, si può dire, uno dei caratteri più paradossali del tempo cristiano. Con l’Incarnazione l’opera di Dio nella creazione è condotta dunque al suo termine.56

Nella lettura di Daniélou, allora, il mistero della storia dipende dal mistero di Cristo, cioè dal mistero della presenza di Dio in essa. In questo modo il mistero della storia è riflesso del mistero trinitario e della realtà delle missioni divine.

Trinità e storia

La dinamica trinitaria

Jean Daniélou non è un teologo dogmatico, per questo il suo pensiero trinitario non è formalizzato e tematizzato in modo sistematico. Eppure, l’intensità della sua connaturalità con i Padri e la profondità della sua comprensione del rapporto tra filosofia e teologia sono alla base di una ricchezza estrema anche da tale prospettiva. Ad esempio, sia in Dieu et nous del 1956, sia in La Trinité et le mystère de l’existence del 1968, si trovano pagine veramente pregevoli a proposito della Trinità. In particolare, quest’ultimo breve scritto costituisce degli esercizi spirituali predicati dal gesuita al Cercle Saint-Jean-Baptiste, da lui fondato. La densità dogmatica del pensiero è evidente.

Punto di partenza è l’inconoscibilità di Dio nella sua dimensione trinitaria, perché “La vita trinitaria non ha alcun bisogno di essere partecipata”57 e “Dio soltanto può introdurci nel mistero di Dio”.58 Si tratta dell’apofatismo, traduzione gnoseologica della distinzione dei livelli ontologici introdotta dal pensiero cappadoce e fondamentale per una corretta epistemologia teologica. Per questo la conoscenza autentica della Trinità si può raggiungere solo nell’umiltà:

Non c’è che una via d’accesso alla conoscenza del mistero di Dio, l’umiltà totale, che ci fa prendere coscienza della nostra intera e radicale impotenza.59

Per questo si parla propriamente di mistero della Trinità e per questo bisogna parlare di mistero della storia, in quanto il senso ultimo di essa è proprio nell’Essere trinitario. Infatti la creazione ne è riflesso, così come la storia si può pienamente contemplare solo alla luce dell’Eterno. Si tratta dunque di un limite che, paradossalmente libera, di un’oscurità che illumina:

Non che la incomprensibilità di Dio dipenda da qualche sua opacità o oscurità: dipende proprio, al contrario, dal fatto che Dio è pienezza di luce, pienezza di esistenza, pienezza di vita; dipende proprio dalla intensità della esistenza di Dio, dalla sovrabbondanza della sua vita. È al di là della nostra portata perché le nostre forze sono troppo limitate, gli occhi della nostra anima sono troppo deboli per poter sopportare quella luce. Mistero non vuol dire inintelligibilità in Dio: indica, al contrario, la pienezza dell’essere divino che è al di là della nostra portata.60

Infatti, “un Dio che fosse completamente intelligibile all’uomo non potrebbe certo essere il vero Dio”,61 invece egli è quell’inintellegibile che rende ogni cosa intellegibile: la catena di cause necessarie lungo la quale il pensiero filosofico faticosamente risale, si ferma di fronte al salto ontologico assoluto che separa il Creatore dalla creatura. Solo una autentica conversione permette di riconoscere nella contemplazione la grandezza della vita divina sotto il velo delle apparenze. Infatti il peccato trattiene sempre nella sfera più superficiale, quella di ciò che appare. Invece, grazie alla relazione personale con le tre Persone divine si scorge la realtà del creato stesso:

Santuario celeste, santuario ecclesiale, santuario interiore in cui la Trinità dimora: è il santuario in cui siamo misteriosamente introdotti dalla familiarità con Dio. Dio allora ci si manifesta nella sua interiorità. Quella realtà che da fuori ci appariva con il peso schiacciante della gloria – una gloria abbagliante – ci si rivela ora come la realtà delle Persone. La rivelazione – rivelazione del vangelo o luce interna della grazia – ci fa scoprire che l’abisso misterioso della vita divina ha un volto: non è una realtà impersonale, un assoluto filosofico, ma è qualcuno. Possiamo entrare in relazione con lui. Dio è colui cui possiamo dire ‘tu’: Tu sei il mio Dio; con cui possiamo stabilire quella relazione interpersonale che è l’amore; un Dio cui ci possiamo rivolgere e che ci ascolta; un Dio che in maniera del tutto trascendente, ma assolutamente reale, possiede eminentemente ciò che sul piano umano costituisce la vita personale, ciò che di un essere fa una persona con cui si può stabilire un rapporto. Possiamo allora scoprire nella profondità di Dio ciò che ci rende possibile la comunicazione con lui: quel complesso di relazioni che costituiscono l’essenza della vita spirituale specificamente cristiana.62

Anche questo testo presenta una grande profondità teologica, perché afferma che la ragione della possibilità di entrare in relazione con Dio, cioè il logos di questa relazione che fonda tutta l’economia e la storia della salvezza, è l’immanenza stessa di Dio con le relazioni eterne che la costituiscono. La relazione con Dio è possibile perché Dio in sé è relazione, dove l’espressione in sé ora non indica solo la sussistenza, ma anche l’immanenza divina, cioè il Mistero della sua vita di conoscenza e di amore. Il mistero della storia dell’uomo si fonda, dunque, sul mistero che è la storia della salvezza, anche nella sua dimensione sacramentale e liturgica, che a sua volta si fonda su quel Mistero fontale che è la Trinità stessa.

È proprio questa comprensione ontologica del dogma ciò che permette a Daniélou, come già prima era successo a Gregorio di Nissa, di centrare la sua attenzione teologica non solo sulla storia, ma in concreto sull’esistenza; non solo sulla storia generale, ma anche su quella personale. Il mistero della storia è il cuore dell’uomo e la sua relazione con il Mistero stesso che è Dio. Da qui nasce la possibilità di contemplare l’unità della storia e il suo valore in ogni momento, in ogni vita. Da qui deriva una concezione capace di riconoscere pienamente il valore delle religioni pagane senza ridurre il cristianesimo a una manifestazione tra le altre del divino e il dogma a un semplice momento di inculturazione. Da qui la necessità di recuperare il valore della filosofia come momento della ricerca della salvezza da parte dell’uomo e, quindi, preparazione all’incontro con Cristo e momento indispensabile del pensiero che nasce da questo incontro. Da qui una concezione della missione come dialogo con l’uomo concreto e con la cultura contemporanea.

Ontologia trinitaria

La forza della lettura teologica del gesuita francese sembra, dunque, essere la capacità di articolare il rapporto tra economia e immanenza, riproponendo l’architettura del pensiero cappadoce e nisseno in particolare:

l’economia è la manifestazione della teologia e attraverso questa epifania della vita trinitaria l’uomo intravede qualcosa della sua esistenza eterna.63

Il punto di partenza della considerazione della creazione, e quindi della storia, deve allora essere la vita intratrinitaria, concepita in senso propriamente dinamico:

Il movimento della Trinità è prima un movimento di comunicazione nel Figlio e poi di raccoglimento nello Spirito; il ritmo della vita trinitaria consiste in questo doppio movimento di dono e di ritorno.64

Tale “ritmo” immanente è la sorgente della comunicazione divina, che a sua volta è scandita dallo stesso ritmo, come aveva già intuito Ireneo. Quello che è essenziale è affermare la possibilità concreta di entrare in relazione nel tempo con ciascuna Persona divina:

Il fondo della rivelazione cristiana dice che la realtà assolutamente prima è quella delle persone in reciproca adesione e comunicazione; che la comunione delle persone è il fondo e l’archetipo di ogni realtà, cui tutto si deve di conseguenza configurare. Perciò la comunione umana è sospesa alla comunione trinitaria.65

Tale dialogo dell’uomo con la Trinità è il fondamento ultimo e più vero di tutto ciò che è ed in particolare della comunione umana, che viene riconosciuta come realtà ontologicamente più densa del reale. Si tratta qui proprio di un esercizio di ontologia trinitaria, in quanto la creazione viene letta alla luce della dimensione trinitaria del Creatore.

Per Daniélou, “Il mondo in cui viviamo è in realtà un mondo pieno della Trinità”66 in quanto “Ogni creatura è partecipazione all’essere del Verbo”.67 Per questo, “Nella Trinità ci si svelano le ultime profondità del reale, ci si svela il mistero dell’esistenza”.68

La storia e la creazione sono contemplate da dentro la Trinità, a partire dal Mistero di vita che lo contraddistingue, in modo tale che il di dentro della storia, degli eventi e delle vite degli uomini è radicato in alto, nell’eternità:

Le missioni divine sono un irradiamento – con ripercussione nel mondo creato – di ciò che prima si compie perfettamente ed interamente in Dio.69

La storia è, dunque, ancorata nel Cielo, per citare una bella immagine da Eb 6,19, ripresa da Rémi Brague.70 Ma la dottrina classica della corrispondenza tra le le missioni e le processioni è presentata da Daniélou con un accento originale, che probabilmente gli deriva dalla sua base patristica, perché pare mettere sempre in particolare evidenza la missione come partecipazione alla relazione eterna:

Tocchiamo così le radici stessa della vita spirituale che è sempre una misteriosa partecipazione – al di là della missione – alle relazioni eterne delle persone: questa è la realtà ultima, e la vita della grazia consiste nel partecipare misteriosamente alla eterna fecondità della vita di Dio.71

Così la totalità del disegno di Dio è la “storia delle missioni”, che sono un “riflesso delle relazioni eterne tra le Persone”:72

Bisogna sempre considerare le missioni delle Persone divine come un prolungamento delle relazioni eterne.73

Il mistero della storia è questo, la presenza della Trinità in essa. Il mistero dell’esistenza è il mistero della presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella nostra vita e in quella catena di vite che chiamiamo storia. Come la materia, così il tempo è da e per le Persone divine, in modo tale che come il mondo, così la storia è piena di Trinità. Per questo “Disprezzare la creazione è ingratitudine”.74 E tale profondità relazionale del reale riguarda anche la materia:

Il mondo materiale ha origine nella azione delle Persone divine ed è chiamato ad essere riassunto e trasfigurato dalle Persone divine.75

Il mondo creato, il tempo, la materia, la storia sono tutti impregnati di amore divino e sono luogo dove è possibile dare del ‘tu’ al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, perché le missioni sono il prolungamento delle relazioni eterne. L’uomo è chiamato nel tempo ad essere partecipe della generazione eterna del Figlio e della spirazione dell’Amore che unisce il Padre e il Figlio stesso:

Ma la rivelazione ci dice che Dio ha creato per associare le libertà create alla sua beatitudine, per introdurle nella sua gioia infinita, ha creato il mondo di Dio e degli uomini come irradiazione della Trinità; allora ci appaiono ammirabili sia l’origine sia il fine della creazione, che consistono nell’amore: un amore assolutamente disinteressato, dato che Dio non ha alcun bisogno di noi, ma siamo noi ad aver bisogno di lui. Nella creazione regna una gratuità assoluta, che ha la sua fonte in questo amore. Noi non esistiamo che nella misura in cui siamo amati. Esistere per noi, nella nostra realtà più intima, significa essere il termine di un atto di amore delle Persone divine che ci comunicano l’essere nella volontà di associarci alla loro vita.76

In una formula si potrebbe dire che dalla prospettiva cristiana il cogito ergo sum cartesiano non diventa solo un cogitor ergo sum, ma più in profondità un amor ergo sum, meglio ancora, un amamur ergo sumus, in quanto la comunione è la realtà più originaria in Dio e nel creato. E la divinizzazione intensifica tale dimensione di comunione, potremmo dire la eternizza in una dinamica che riprende l’epektasis nissena:

Le Persone divine vogliono comunicarci la loro vita sovrabbondante, secondo la misura della nostra capacità. Sappiamo bene quanto questa capacità sia piccola: ma si dilata a misura che la vita trinitaria ci si comunica, a misura che ne siamo invasi: gli spazi ristretti sono sempre quelli del nostro cuore. La vita trinitaria a poco a poco rende i nostri cuori più capaci, nel senso etimologico della parola, di una comunicazione più grande e più vasta, come si può constatare nei santi.77

L’eternità e il tempo non sono, dunque, in rapporto dialettico, ma proprio perché la Trinità è “Il fondo ultimo di ogni realtà”,78 all’uomo è possibile ora e sempre dare del tu all’Essere grazie a quel darsi del tu nell’Essere, che costituisce la vita intradivina. Si vede così come per Daniélou persona e ontologia si danno insieme. Egli prende sul serio il lavoro svolto dai Padri della Chiesa, in particolare nel sec. IV, per estendere la metafisica classica in senso relazionale e personale. È perfettamente conscio contemporaneamente della assoluta novità introdotta dalla rivelazione e della significatività del pensiero nato da tale novità per la ricerca filosofica dell’uomo. La radicale apertura verso la missione e la contemporaneità del teologo francese è, dunque, fondata anche nella sintesi tra ontologia e persona che caratterizza il suo pensiero e che lo rende capace di entrare in relazione con l’esistenza concreta dell’uomo.

Per questo sembra importante riconoscere la forza della proposta ontologica di Daniélou, che tanto bene conosceva il medio e il neoplatonismo. Con la sua consueta intensità espressiva e la coscienza di proporre considerazioni dirompenti, scrive:

Ma in realtà il paradosso è che il Trino è altrettanto primitivo dell’Uno e fa parte della struttura dell’Essere assoluto. Senza dubbio la chiave di volta della teologia cristiana, che la separa radicalmente da qualsiasi altra teodicea razionale, è che la Trinità delle Persone sia costitutiva della struttura dell’essere e che in questo modo l’amore sia altrettanto primo quanto l’esistenza.79

Il grande teologo francese parla anche esplicitamente di ontologia trinitaria, anticipando una terminologia che ora, grazie anche all’influsso di Klaus Hemmerle e delle sue Thesen,80 occupa un posto di primo piano nella ricerca teologica:

Tocchiamo così il fondo dell’ontologia trinitaria cristiana. Uno dei punti in cui il mistero trinitario illumina meglio le situazioni umane. Ci indica che il fondo stesso dell’esistenza, il fondo della realtà, la forma di tutto perché ne è l’origine, è l’amore, nel senso della comunità interpersonale. Il fondo dell’essere è comunità di persone. Chi dice che il fondo dell’essere è la materia, chi lo spirito, chi l’uno: hanno tutti torto. Il fondo dell’essere è la comunione.81

La forza espressiva nasce non solo dalla grande capacità del teologo francese, ma anche dalla sua profonda comprensione del dato biblico, che ispira le sue formulazioni:

Che siano uno, come noi siamo uno. Ciò ha un duplice significato: Noi siamo uno: semplice frase straordinariamente illuminatrice: non soltanto afferma il noi e l’uno, ma che l’uno è un noi. Nessuno prima di Gesù aveva detto che l’uno è un noi. L’uno, cioè l’assoluto, è un noi. L’uno è comunione fra i tre. È scambio eterno di amore. Non è di una stoffa qualsiasi: è amore. Il fondo dell’essere è l’amore fra le persone. Questo fondo dell’essere, stoffa dell’assoluto, è ciò di cui la creazione, in quanto comunione, è epifania.82

L’espressione l’uno è un noi può essere considerata una magnifica e geniale sintesi non solo della ontologia trinitaria e della dottrina cristiana su Dio, ma anche una chiave di lettura del reale e della storia, in quanto essa è il fondamento dell’unione tra il tempo e l’eterno:

Così l’uomo passa di gloria in gloria e tutta la storia della salvezza può essere considerata una rivelazione progressiva della Trinità ineffabile.83

L’esistenza storica dell’uomo è dunque segnata dalla presenza del Dio uno e trino nel tempo, che da dentro conduce l’uomo, nella libertà, a un’unione sempre più piena e a una relazione sempre più profonda con ciascuna Persona divina, in modo tale che il mondo stesso, materia inclusa, è per l’eternità e per la gloria. “Il tempo è gloria” ha scritto in Cammino San Josemaría Escrivá. Carisma e teologia si incontrano nella radicalità dello sguardo contemplativo, che spinge Daniélou a scrivere: “Non c’è che il Cristo: tutto deve divenire Cristo”.84

Conclusione

Il pensiero di Jean Daniélou si presenta, allora, nel suo nucleo più profondo, come una teologia che è una teologia della storia perché è una ontologia trinitaria. Questo grande figlio della Francia ha preso profondamente sul serio l’indagine metafisica dell’uomo, non come mero esercizio speculativo, ma come ricerca del vero e quindi della salvezza, di quella salvezza che è Cristo. Perciò tutti gli studi di Daniélou convergono nella lettura dell’essere creato, studiato già dai filosofi, alla luce della Rivelazione trinitaria in Cristo. L’intervento di Dio nella storia non solo rende noto, ma comunica, attraverso i misteri della vita di Cristo ai quali il nostro oggi è unito dai misteri sacramentali, la partecipazione al Mistero stesso di Dio, che è la sua Vita intratrinitaria. La storia dell’uomo ha un di dentro, ha una immanenza, perché attraverso le missioni nel tempo del Figlio e dello Spirito, inviati dal Padre, l’uomo stesso è unito all’eterna dinamica di generazione e d’amore che è la Trinità nella Sua immanenza.

Gli elementi dogmatici più fondamentali di tale pensiero sembrano essere tratti dal lavoro ontologico svolto dai Padri greci, in particolare Gregorio di Nissa, per ripensare la metafisica classica alla luce dell’evento dell’incontro con il Dio uno e trino. L’articolazione dei diversi piani dell’essere che ha caratterizzato il sec. IV, con gli strumenti dell’akolouthia e dell’epektasis messi in evidenza dagli studi nisseni di Daniélou, permettono di articolare il rapporto tra essere e tempo in una forma capace di rispondere alle domande avanzate dall’esistenzialismo moderno.

Così, il pensiero di Daniélou è caratterizzato da una vera e propria teologia della storia perché egli, alla scuola dei Padri della Chiesa da lui tanto amati, sviluppa una ontologia della storia, che riconosce insieme il valore dell’essere e del tempo, della sostanza e della relazione, dell’essenza e dell’esistenza. Ma il grande gesuita francese può sviluppare questa ontologia della storia perché ha tracciato, ispirato dalle sue fonti, un abbozzo di ontologia trinitaria. In essa egli presenta la creazione a partire dalla connessione tra le missioni divine e le relazioni eterne intratrinitarie. Il mondo è contemplato a partire da queste relazioni, quindi dalla reale presenza delle Persone divine nel tempo, dalla possibilità per l’uomo di autentico dialogo con Ciascuna di esse e dalla loro azione per attrarre ogni cosa alla comunione con il Padre.

Gli assi ontologici di tale teologia sono caratterizzati, dunque, da una duplice inversione rispetto alla metafisica classica, inversione che corrisponde alla struttura profonda che permette di superare l’identificazione di bene e immutabilità, da una parte, e di male e cambiamento, dall’altra:

  1. Il da sotto diventa da sopra;
  2. il da fuori diventa da dentro.

La possibilità di scalare il Cielo da sotto con il solo pensiero, che caratterizzava la concezione filosofica greca, viene sostituita dalla profondità del dono del Creatore uno e trino che scende fino all’estremo di farsi una cosa sola con la sua creatura. A questo asse verticale corrisponde, così, la trasformazione orizzontale, nella quale il rapporto con Dio non si gioca più da fuori, ma da dentro, da dentro l’uomo e da dentro il tempo. L’immagine della croce si staglia così come senso ultimo di ogni cosa e unico cammino per giungere al fondo più vero del reale. E tutto ciò da una prospettiva insieme cristologica e pneumatologica, che rompe ogni tentazione pelagiana o semipelagiana:

Dallo Spirito Santo procede l’inclinazione ad amar Dio che ama, che trasforma il nostro cuore, lo rende umile, paziente, benevolo, buono, ci unisce alle interne disposizioni del Cuore di Cristo. Fonte in noi di disposizioni nuove, che costituiscono propriamente la vita spirituale, cioè la vita dello Spirito Santo. Queste disposizioni nuove suscitano una nuova spontaneità: non costituiscono una legge esterna cui dovremmo obbedire, ma una forza interna che ci attira alle cose divine e trionfa della pesantezza della nostra carne.85

Da tale prospettiva si può, forse, dire che Daniélou è padre perché è figlio: lasciandosi generare intellettualmente dai Padri ci ha lasciato un pensiero che ci aiuta a vivere, a rinascere in questa crisi contemporanea, dominata dal diktat postmoderno “devi essere libero”. Ma posto che, nel dirlo, la nostra epoca ha reciso ogni legame e ogni relazione, essa ordina ciò che è impossibile. Ci viene detto di seguire il desiderio più profondo del cuore umano nello stesso momento in cui si tagliano tutte le strade che ne permetterebbero la realizzazione.

Qui si vede come proprio l’ontologia della relazione e, quindi, l’ontologia trinitaria, siano il cuore della questione, perché la libertà è questione di essere e di esserci. In un deserto si ha esserci senza essere, nel senso che si sta in una situazione dove potenzialmente si può andare dove si vuole, ma non si ha in atto nessun posto dove andare, si è persi nel nulla, in the middle of nowhere. La vera libertà, invece, è comunione, cioè quella dimensione che Daniélou chiama il fondo del reale e che si dà nella relazione. Questa non si vede, non si tocca, ma quando la si nega si entra in crisi, perché il deficit di essere così introdotto si manifesta nel sintomo doloroso della crisi radicale, che va dalla liquefazione dell’io all’incapacità di entrare in rapporto con il reale.

Tutto ciò rende il mondo disumano, perché solo pochi possono sopravvivere alla legge del più forte, alla furia dei superuomini nietzschiani. Invece Daniélou è sempre paternalmente preoccupato che anche i deboli possano credere, perché la società possa diventare popolo.86 Così, per rispondere alla domanda iniziale su cosa possono dirci Daniélou e Ratzinger di fronte alla crisi postmoderna, si può citare una delle frasi con le quali il teologo francese introduceva proprio La Trinité et le mystère de l’existence :

Alla radice della crisi attuale del mondo si trova la ricerca di Dio. Si tratta di rendere presente, nella civiltà tecnica, la dimensione della trascendenza, al di fuori della quale non esiste possibilità di un umanesimo.87

Opporre metafisica e teologia corre, paradossalmente, proprio il rischio di rinchiudere il pensiero della fede in un circolo ristretto, che non sa più parlare a chi non crede, perché non sa più pensare il mondo e la storia che le categorie che sono a loro proprie. Senza ontologia, il pensiero che cerca di entrare in contatto con l’esistenza e la persona appassisce e si disumanizza, come divertissement di una qualche élite prossima alla morte. Senza la filosofia dell’essere, la teologia si può rattrappire in un discorso sterile e forbito cui si ricorre pour épater les bourgeois, tradendo l’eredità dei padri. Lo sguardo trinitario e relazionale sul mondo, che accomuna Daniélou e Ratzinger, ci offre, invece, un pensiero che ci può aiutare a vivere il nostro tempo, con lo sguardo rivolto contemporaneamente al mondo e a Dio.

1“Zu einer Theologie und Philosophie der Geschichte kommt es vor allen Dingen in den Krisenzeiten menschlicher Geschichte” (J. Ratzinger, Die Geschichtstheologie des Heiligen Bonaventura, München 1959, 1).

2Cfr. P. Donati, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010.

3Cfr. R. Guardini, L’opposizione polare: saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia 1997.

4Cfr. G. Maspero, Il tempo superiore allo spazio (EG 222): un principio teologico fondamentale per l’agire cristiano, «PATH» 13 (2014) 405.

5Una bibliografia completa e attualizzata su Daniélou e la sua concezione della storia, si può trovare in F. Erlenmeyer, Das Geheimnis der Geschichte in Christus deuten, EOS, Sankt Ottilien 2016.

6J. Daniélou, L’essere e il tempo in Gregorio di Nissa, Archeosofica, Roma 1991, 9.

7Florian Erlenmeyer collega questo atteggiamento anche direttamente alla biografia di Daniélou e definisce la sua prosepttiva “existentiell-heilgechichtlich” (F. Erlenmeyer, Das Geheimnis der Geschichte, 323)

8Cfr. H. U. von Balthasar, Présence et pensée: essai sur la philosophie religieuse de Grégoire de Nysse, G. Beauchesne, Paris 1942 e Teologia della storia: abbozzo, Morcelliana, Brescia 1969.

9J. Daniélou, L’essere e il tempo, 11.

10Idem, nell’introduzione a M. Canévet, La colombe et la ténèbre: textes extraits des «Homélies sur le Cantique des Cantiques» de Grégoire de Nysse, Paris 1967, 13-14.

11J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1957, 11-12.

12Cfr. Idem, Akolouthia chez Grégoire de Nysse, Rev SR 27 (1953) 217-249 e L’être et le temps chez Grégoire de Nysse, Leiden 1970, 18-50. Per una bella e sintetica introduzione, si veda J.A. Gil-Tamayo, voce Akolouthia, in L.F. Mateo-Seco, G. Maspero (Edd.), Gregorio di Nissa. Dizionario, Città Nuova, Roma 2007, 49-55.

13J. Daniélou, Saggio sul mistero, 264.

14Idem, in Grégoire de Nysse. La vie de Moïse, SCh 1, Paris 1968, 24.

15C. Kannengiesser, J. Fontaine (eds.), Epektasis: mélanges patristiques offerts au cardinal Jean Daniélou, Beauchesne, Paris 1972.

16Cfr. ibidem, p. v.

17J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique: doctrine spirituelle de saint Grégoire de Nysse, Aubier-Montaigne, Paris 1953.

18Cfr. Idem, in Gregorius Nyssenus, From Glory to Glory: texts from Gregory of Nissa’s mystical writings, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood (NY) 1961, 59.

19“Il désigne une véritable commaunauté de «nature». Toutefois il comporte un certain nombre de distinctions que n’offraient pas les emplois non-chrétiens du mot. Appliqué au λόγος, comme il l’est déjà chez saint Paul (Col 1, 15, Cfr. Sap 7, 26), il ne désigne pas une participation déficiente, mais pure relation d’origine dans la parfaite égalité de la nature: c’est un sens nouveau, lié au dogme trinitaire” (Idem, Platonisme et théologie, 53).

20Ibidem, 299.

21Ibidem, 292.

22Ibidem, 299.

23Ibidem, 303.

24Cfr. ibidem, 305.

25Idem, in Gregorius Nyssenus, From glory to glory, 52.

26Cfr. ibidem, 46-56.

27Idem, Geschichtstheologie, LThK, 795

28Idem, «La typologie de la semaine au IVe siècle», Recherches de science religieuse 35 (1948) 383.

29Cfr. Idem, Saggio sul mistero, 274.

30Cfr. Idem, «Saint Irénée et les origines de la théologie de l’histoire», Recherches de science religieuse 34 (1947) 229.

31Anche Ratzinger riconosce il ruolo dello studio dei Padri della Chiesa nel recupero di una grammatica teologica che potesse dare autentico valore alla Heilsgeschichte: “Für die katholische Theologie handelt es sich dabei um ein ziemlich junges Problem, auch wenn die dahinterstehende Sache einfach von der Struktur des Christlichen her, das als Botschft von Gottes Handeln in der Geschichte auftrat, immer in irgendeiner Form anwesend war und im Zueinander von οἰκονομία und θεολογία, von dispositio und natura, sogar im Zentrum des Bedenkens der christlichen Wirklichkeit bei den Kirchenvätern steht”. (J. Ratzinger, Heilsgeschichte und Eschatologie, in Theologie im Wandel, München 1967, 68)

32J. Daniélou, Origène, La Table ronde, Paris 1948

33Cfr. Idem, Sacramentum futuri, Études sur les origines de la typologie biblique, Beauchesne, Paris 1950 e Bible et liturgie, la théologie biblique des sacrements et des fêtes d’après les Pères de l’Église, Cerf, Paris 1951.

34Cfr. Idem, Les symboles chrétiens primitifs, Seuil, Paris 1951.

35Idem, Saggio sul mistero, 91.

36Ibidem, 91-92.

37Ibidem, 12.

38Ibidem, 13.

39Ibidem.

40Ibidem.

41Cfr. ibidem, 14.

42Cfr. ibidem, 16-17.

43Cfr. Idem, Christologie et eschatologie, in Das Konzil von Chalkedon III, (A. Grillmeier  H. Bacht Eds.), Würzburg 1954, 269-286.

44Idem, Saggio sul mistero, 19.

45Cfr. Idem, Orazione problema politico, Arkeios, Roma 1993, 119-121.

46Cfr. Idem, Miti pagani, mistero cristiano, Arkeios, Roma 1995, 30-34.

47Cfr. Idem, Geschichtstheologie, LThK, 796.

48Idem, Saggio sul mistero della storia, 20.

49Cfr. ibidem, 24-25.

50Ibidem, 94.

51Ibidem, 202.

52Cfr. ibidem, 203.

53Ibidem, 208.

54Idem, La Trinità e il mistero, 63.

55Cfr. Idem, Saggio sul mistero della storia, 212.

56Ibidem, 209.

57Idem, La Trinità e il mistero, 41.

58Ibidem, 30.

59Ibidem.

60Ibidem, 32.

61Idem, Dio e noi, Rizzoli, Milano 2009, 55.

62Idem, La Trinità e il mistero, 34-35.

63Idem, Dio e noi, 122.

64Idem, La Trinità e il mistero, 42.

65Ibidem, 37.

66Ibidem, 17.

67Ibidem, 58.

68Ibidem, 9.

69Ibidem, 67.

70Cfr. R. Brague, Ancore nel cielo. L’infrastruttura metafisica, Vita&Pensiero, Milano 2012.

71J. Daniélou, La Trinità e il mistero, 52.

72Idem, Dio e noi, 122.

73Idem, La Trinità e il mistero, 67.

74Ibidem, 50.

75Ibidem, 13.

76Ibidem, 44.

77Ibidem.

78Ibidem, 9.

79Idem, Dio e noi, 120.

80Cfr. K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria per un rinnovamento della filosofia cristiana, Città Nuova, Roma 1986. Si veda anche P. Coda, A. Clemenzia, J. Tremblay, Un pensiero per abitare la frontiera, Città Nuova, Roma 2016.

81J. Daniélou, La Trinità e il mistero, 37.

82Ibidem, 38-39.

83Idem, Dio e noi, 121.

84Idem, La Trinità e il mistero della storia, 45.

85Ibidem, 72.

86Idem, L’orazione, problema politico, 7.

87Idem, La Trinità e il mistero, 7.