Ror Studies Series | Storia e mistero
Saggio introduttivo
Nota sull’interpretazione della “beatitudine” dei “puri di cuore” (Mt 5,8) di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Gli agganci del suo pensiero con quello di Ireneo di Lione1
Réal Tremblay
C.Ss.R. (Alfonsiana, Roma)
Non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello; i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Ap 22,3-4.
Da quando la teologia esiste, pagine e pagine di esegesi e di riflessioni teologiche sono state scritte su questa sesta “beatitudine” del Discorso della montagna della versione matteana. Molte considerazioni sono state oggetto di questa “beatitudine”, buone e meno buone, soprattutto in rapporto con la virtù della purezza. Credibili o no, Joseph Ratzinger/Benedetto XVI non utilizza alcun risultato di questi studi. Opta piuttosto per un breve commento al testo sacro, farina del suo sacco, che inserisce nel primo tomo della sua opera Gesù di Nazaret.2 Dall’apparenza piuttosto banale a una prima lettura, questo commento si rivela, a una seconda lettura, di grande profondità e di vasta portata.
Nelle poche pagine che seguono, mi propongo di seguire lo sviluppo del pensiero dell’autore e di trarne profitto per una teologia morale di tipo cristico e filiale.
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È nota l’importanza che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI attribuisce al “cuore”.3 È qui servito a piacimento. In questo commento, si interessa subito a precisare il senso del termine “cuore”. Esso è l’organo con cui si può vedere Dio. In questo caso, la ragione non è sufficiente. Affinché l’uomo possa aver accesso a Dio, tutte le forze della sua esistenza devono agire di concerto. La volontà deve essere pura, come deve esserlo anzitutto il “fondo affettivo dell’anima” che orienta la ragione e la volontà. Con “cuore” si intende per l’appunto questa combinazione interiore delle forze di percezione dell’uomo, che implica anche la giusta compenetrazione del corpo e dell’anima che appartengono alla creatura umana nel suo insieme. La disposizione affettiva fondamentale dell’uomo dipende precisamente da questa unità dell’anima e del corpo e dal presupposto che l’uomo accetti insieme il suo essere corporeo e il suo essere spirituale, che sottometta il corpo alla disciplina dello spirito, senza isolare la ragione o la volontà, ma ricevendo se stesso da Dio e così riconoscendo e vivendo la corporeità della sua esistenza come ricchezza per lo spirito. “Il cuore – la totalità dell’uomo, conclude il nostro autore, deve essere pura, intimamente aperta e libera perché l’uomo possa vedere Dio”.4
Si pone allora la questione: come diventa puro l’occhio interiore dell’uomo? La tradizione mistica dell’ascesa verso Dio attraverso un “itinerario” di purificazione ha cercato di rispondere a tale domanda. Ma la lettura delle “Beatitudini” deve farsi in un contesto biblico. In questo contesto, si trova il Sal 24, espressione di un’antica liturgia di ingresso al santuario. Ora, i versetti 3 e 4 suonano così:
3Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? 4Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno.
Il salmo spiega in molti modi il contenuto di questa condizione per avere accesso a Dio. Un presupposto indispensabile è che gli uomini debbano cercare Dio, ricercare il suo Volto (v. 6). Ma anzitutto e come contenuto delle “mani innocenti” e del “cuore puro”, vi sono le esigenze di non mentire e di non pronunciare falsi giuramenti. Così dunque l’onestà, la sincerità, la giustizia verso il prossimo e la società sono comportamenti che possiamo etichettare come etica sociale, ma che, in realtà, affondano le loro radici nel fondo del cuore.
Il Sal 15 sviluppa ancor più questa prospettiva cosicché si può dire che il contenuto essenziale del Decalogo è molto semplicemente la condizione di accesso a Dio con l’accento messo anzitutto sulla ricerca interiore di Dio, sul fatto di essere in cammino verso di lui (prima Tavola) e poi sull’amore fraterno e la giustizia verso gli individui e la comunità (seconda Tavola). Non è nominata alcuna condizione che scaturisce specificamente dalla conoscenza della rivelazione, ma si parla della ricerca di Dio, di indicazioni essenziali della giustizia che una coscienza vigilante, tenuta desta precisamente con la ricerca di Dio, detta a ciascuno.
Sulla bocca di Gesù, questa “beatitudine” acquisisce tuttavia una profondità inedita. Essa fa parte per così dire della sua “natura specifica”. “Vedere Dio”, porsi faccia a faccia davanti a lui in un continuo scambio interiore è “vivere l’esistenza da Figlio”. In tal modo, l’espressione acquisisce una forte valenza cristologica.
Da ciò deriva che vedremo Dio quando entreremo “nei sentimenti di Cristo” (cfr. Fil 2,5). La purificazione del cuore si realizza nella “sequela di Cristo”, nella nostra unione con lui nel senso paolino del termine: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Qui, continua il nostro autore, appare un nuovo dato. L’ascesa verso Dio avviene effettivamente nella “discesa” dell’umile servizio, nell’abbassamento dell’amore che “è l’essenza di Dio” e, in tal modo, forza veramente purificatrice, che rende l’uomo capace di percepire e vedere Dio. In Gesù Cristo, Dio stesso si rivela abbassandosi. E l’autore cita Fil 2,6-9:
Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.
Queste parole segnano dunque una svolta decisiva nella storia della mistica. Mostrano la novità della mistica cristiana che deriva dalla novità della rivelazione in Gesù Cristo.
Dio discende, fino alla morte sulla croce. E proprio così si rivela nella sua autentica divinità. L’ascesa a Dio avviene nell’accompagnarlo in questa discesa.5
La liturgia dell’ingresso nel santuario del Sal 24 riceve così un nuovo senso: il cuore puro è il cuore amante che entra in comunione di servizio e di obbedienza con Gesù Cristo. L’amore è il fuoco che purifica e unisce ragione, volontà, sentimento; è ciò che unifica l’uomo in se stesso in virtù dell’azione di Dio così da farne il servitore dell’unità di coloro che sono divisi. Così l’uomo fa il suo ingresso nella dimora di Dio e può vederlo. È esattamente quello che significa essere “beato”.
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Il cuore puro che vede Dio e che è detto beato in questa “beatitudine” è, propriamente parlando, il cuore stesso del Signore in quanto è il Figlio.
Per avere un cuore tale, il credente dovrà raggiungere Gesù, unirsi a lui, salire verso di lui, diventare figlio come lui.6
Ma questa purificazione del cuore nell’unione al cuore del Figlio si realizzerà praticamente in una discesa con lui verso il mondo, in un servizio radicale dei fratelli fino all’abisso dell’amore crocifisso. Salire in Dio, è discendere con lui verso gli uomini. L’“essenza divina è amore”.
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Studiando altrove il senso che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI attribuisce alla scena giovannea della trasfissione di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34) e così il senso che dona allo sguardo gettato su di lui, sguardo che dona ai credenti un “cuore che vede”, mi ponevo questa domanda:
A motivo delle sue radici, non si potrebbe adottare l’espressione un “cuore che vede” come un compendio, insieme significativo e attraente, per designare e concepire una morale fondamentale che, secondo le indicazioni del Vaticano II, riconosce Cristo come centro della riflessione etica?7
Alla luce dell’interpretazione che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI dà qui alla sesta “beatitudine” del Discorso della montagna di Gesù, si può dire che l’intuizione un po’ audace di allora riceve ora un sostegno fondato. È nel cuore del Cristo-Figlio che si realizza la visione di Dio che beatifica, ed è lì che sgorga, per i suoi, la sorgente di questa immersione nell’intimità di Dio (“centro”, fondamento). Ma questa ascesa in Dio si compie necessariamente nell’abbassamento totale della croce per gli altri. Infatti, “Dio è amore” (cfr. 1Gv 4,16) e la condizione di possibilità dell’ascensione verso Dio è la discesa verso i fratelli, la pro-esistenza radicale in loro favore (“etica”, agire morale).
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All’inizio degli anni 70 concludevo, all’università di Ratisbona, un dottorato sulla manifestazione e visione di Dio secondo sant’Ireneo di Lione8 sotto la direzione dell’allora professor Joseph Ratzinger. Questo tema della visione di Dio è stato dunque ripreso dal maestro stesso alla luce del Discorso della montagna nella versione matteana. Questo legame tra maestro e discepolo, ai miei occhi non è banale. Lungi da me il pensare che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI abbia avuto all’orizzonte del suo pensiero i risultati della mia ricerca scrivendo le pagine qui studiate sulla beatitudine dei cuori puri che vedono Dio. Sarebbe una pretesa gratuita. Ma mi piace sottolineare in questo caso che, a dispetto delle epoche e dei contesti culturali diversi, il pensiero di Ireneo e quello di Ratzinger si incontrano nell’essenziale. Vorrei rapidamente illustrare questo.
Mentre gli gnostici chiudono il cielo agli uomini considerando il loro “Padre supremo” del Pleroma invisibile e inaccessibile – per loro la salvezza consiste precisamente nel “conoscere” che l’Essere supremo della sfera eonica sfugge alla presa di tutti9 –, Ireneo apre il cielo agli uomini. Se è vero che, secondo lui, il Padre di Gesù è in sé di una grandezza inaccessibile, questo Padre, per amore, si dà a vedere agli uomini che lo amano. Ascoltiamo Ireneo stesso:
Dunque i profeti preannunciavano che Dio sarebbe stato visto dagli uomini, come dice anche il Signore: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5,6). Ma, secondo la sua grandezza e la sua gloria indicibile nessuno può vedere Dio e restare vivo [Es 33,20], perché il Padre è inconoscibile; invece secondo il suo amore, secondo la sua umanità e secondo il potere che ha su tutto, egli concede persino questo a coloro che lo amano: di vedere Dio, cosa che preannunciavano i profeti. Perché ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio (Lc 18,27). Da se l’uomo non potrà certo vedere Dio, ma lui se vuole, si farà vedere dagli uomini, da chi vuole, quando vuole e come vuole.10
Dio si dà a conoscere nel suo Figlio secondo la bella espressione di Ireneo: “La Realtà invisibile che si vedeva nel Figlio era il Padre”, e il suo indispensabile complemento: “la Realtà visibile nella quale si vedeva il Padre era il Figlio”.11
Ireneo completa altrove il suo pensiero aggiungendo altri elementi essenziali. Al momento della venuta del Figlio, Dio “è visto per mezzo del Figlio secondo l’adozione”,12 cioè per una parentela d’essere con il Figlio che apre sul Padre e che dona di “partecipare al suo splendore” vivificante. “Tale è il motivo per cui colui che è inconoscibile, incomprensibile e invisibile si offre in modo visibile, comprensibile e conoscibile agli uomini”.13
È dunque entrando nello spazio dell’essere filiale di Gesù che il credente acquisisce gli occhi che gli permettono di tuffarsi nel cuore del mistero paterno al quale dovrà ancora adattarsi contemplando il Figlio nel suo “Regno” che precede il “Regno del Padre”.14 C’è bisogno di sottolineare che non si tratta in questo caso di una semplice osservazione di Dio, né di uno sguardo su Dio, ma di uno sguardo in Dio che produce rapporto, unione, parentela divina? Ireneo non nomina qui, come in Ratzinger, il “cuore”, questo organo sintesi di rassomiglianza con il Figlio che rende adatti a penetrare ciò che vede, ma si appoggia soprattutto sulla vista legata alla fede che genera rapporto, unione alla persona contemplata.
Ireneo è molto trinitario nella sua teologia della visione di Dio. Il Padre è il vertice di tutto. In un testo splendido, mostra che è lo Spirito del Figlio che, prima in “caparra” e poi in “pienezza”, svelerà all’uomo risorto nel suo corpo e nella sua anima tutto lo splendore del volto paterno e la sua identità di immagine e somiglianza con Dio:
Se dunque al presente, avendo ricevuto questa caparra, noi gridiamo: “Abba, Padre”, che sarà quando, essendo risuscitati, lo vedremo faccia a faccia, quando tutte le membra genereranno come uno zampillo, un inno d’esultanza, glorificando colui che li avrà risuscitati dai morti e avrà donato loro la vita eterna? Se infatti la caparra, sviluppando l’uomo da tutte le parti, gli fa dire “Abba, Padre”, cosa farà la grazia tutta intera dello Spirito, quella grazia che verrà donata da Dio agli uomini? Ci renderà simili a lui, e compirà la volontà del Padre: infatti renderà l’uomo immagine e somiglianza di Dio.15
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Il pensiero di Ratzinger fondamentalmente non si distanzia da questa teologia ireneana della visione di Dio. Senza forzare indebitamente le cose, si potrebbe dire che essa la contiene in germe, tenendo conto della sua riflessione di tipo più cristologico ed etico.
Ecco un esempio che illustra bene, mi sembra, questa affermazione. Quando Ireneo parla della Croce “impressa nell’intera creazione”,16 e vi vede “il Verbo di Dio unito alla carne e crocifisso, (che) ricapitola in lui gli uomini e manifesta loro il potere che esercita di modo invisibile sopra tutta la creazione”,17 Ratzinger lo segue. Nella logica della Croce, considera la condizione di possibilità della visione di Dio per i “cuori puri” come una discesa diaconale, una presenza pro-esistente, una venuta tra gli uomini per servire. In questo caso il pensiero si fa certamente più concreto, ma il nocciolo è in definitiva lo stesso.
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Sarebbe sicuramente esagerato di voler uguagliare in tutto e per tutto il pensiero di Ratzinger con quello di Ireneo sulla dottrina in questione e su altre analoghe. Ma mi sembra che oltre agli accostamenti già ricordati, un punto di incontro (centrale in entrambi gli autori) sia inconfutabile: l’uomo Gesù può vedere Dio ed essere beato perché il suo Cuore è quello di un Figlio e i credenti potranno godere dello stesso favore divenendo mediante lui e in lui dei figli. L’“Abisso” inaccessibile del Pleroma gnostico non entra qui in considerazione. Da lui emanavano, pensavano gli eretici, degli Eoni che erano in ultima analisi delle degenerazioni che lo isolavano nella sua grandezza impenetrabile e lo rendevano inoperante, mentre il vero Dio, quello dei nostri due teologi, è un Dio tri-personale che, per l’Amore che è (cfr. 1Gv 4,6), apre il suo Cuore alla sua creatura di carne ed ossa e gli dona di partecipare alla sua intimità.
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Concludendo, vorrei ringraziare gli organizzatori di questo colloquio per avermi fornito l’occasione di rendere omaggio, in questa fase della mia vita di teologo, ai due grandi dottori dell’esistenza cristiana che mi hanno aiutato ad approfondire un tema capitale per la vita morale dei credenti e, come ha mostrato H.U. von Balthasar, per la teologia in generale.18 Dar seguito a questa riflessione sulla visione, è quello che ho tentato di fare, come un direttore d’orchestra che fa emergere, nello svolgimento dello spartito che segue l’ouverture, le linee melodiche che si trovano abbozzate o suggerite. Spero di avervi contribuito.19
1Questo testo è già apparso, con leggere modifiche, nel mio recente libro Chiamati alla comunione del Figlio. Aspetti teologici e etici della vita filiale, LUP, Città del Vaticano 2016, 185-195.
2J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 118-121 (Orig. J. Ratzinger/Benedikt XVI, Jesus von Nazareth. Erster Teil: Von der Taufe im Jordan bis zur Verklärung, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2007, 123-127).
3Nella sua tesi di dottorato, L. D. Albóniga ha trattato tale questione con profondità ed esaustività: El Logos tiene un corazón. El amor, identidad ad dinámica de la existencia en Benedicto XVI y su significado para la teología moral fundamental, Agape Libros, Buenos Aires 2014, 377-463. Cfr. Anche la grande opera di C. Bertero, Persona e comunione. La prospettiva di Joseph Ratzinger (Corona Lateranense, 58), Lateran Press University, Città del Vaticano 20152, passim (vedere le voci: “Abba”; “Fraternità”; “Preghiera”; “Preghiera di Gesù”; “Immagine e somiglianza”; “Relazione”). Cfr. infine i miei lavori sull’argomento in R. Tremblay, Prendete il mio giogo. Scritti di teologia morale fondamentale, (Saggi per il nostro tempo, 22), Lateran University Press, Città del Vaticano 2011, 261-301.
4J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, 118 (orig., Jesus, 124).
5Ibidem, 121. Trascrivo qui l’originale tedesco per desiderio di una più grande fedeltà al pensiero dell’autore. Sottolineiamo tra le altre cose l’uso dei termini Abstieg e Aufstieg per significare alla lettera rispettivamente “discesa-abbassamento” e “salita”: “Gott steigt ab, bis zum Tod am Kreuz. Und gerade so offenbart er sich in seiner wahren Göttlichkeit. Der Aufstieg zu Gott geschieht im Mitgehen bei diesem Abstieg”. Jesus, 126.
6Un’affermazione analoga se trova in sant’Agostino: “Solo enim corde videtur Verbum: caro autem et oculis corporalibus videtur. Erat unde videremus carnem, sed non erat unde videremus Verbum: factum est Verbum caro, quam videre possemus, ut sanaretur in nobis unde Verbum videremus”. 1 Epist. Joan., tr. 1, 1 (SCh., 75, 112).
7R. Tremblay, Regarder le Christ transpercé, «Studia Moralia» 45 (2007) 81-82.
8Idem, La manifestation et la vision de Dieu selon saint Irénée de Lyon (MBTh., 41), Aschendorff, Münster 1975.
9Si potrebbe trovare una certa attualizzazione delle “gnosi” nel libro recente di S. Abad-Gallardo, J’ai frappé à la porte du Temple… Parcours d’un franc-maçon en crise spirituelle, Téqui, Paris 2015, 112s.
10Ireneo di Lione, Contro le Eresie IV, 20, 5 (traduzione di A. Cosentino, Città Nuova, Roma, 2009, vol. 2, 215-216). Si crederebbe udire un’eco di questo brano ireneano in questo testo di san Pietro Crisologo: “Come lo sguardo umano avrebbe potuto abbracciare Dio, che il mondo nei suoi limiti non riesce a comprendere? La forza dell’amore non considera che cosa voglia, che cosa debba, che cosa possa. L’amore ignora il discernimento, è privo di ragione, non conosce misura; l’amore non ricava conforto dall’impossibilità, non trova un rimedio nella difficoltà”. Pietro Crisologo, Terzo discorso sulla nascita del Signore, Sermone 147, 6 [Sermoni, a cura di Gabriele Banterle et al., Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova, Milano – Roma 1997, (vol. 3 dei Sermoni), 149.151].
11Ireneo di Lione, Contro le Eresie IV, 6, 6 (traduzione di Cosentino, ibidem, 64). Questa traduzione è modificata secondo quella di A. Rousseau della collana “Sources Chrétiennes” 102/2, 450.
12Ibidem IV, 20, 5 (traduzione di Cosentino, ibidem, 216).
13Ibidem.
14Su questo punto, cfr. Tremblay, La manifestation, 149-156.
15Ireneo di Lione, Contro le Eresie V, 8, 1 (traduzione di Cosentino, ibidem, 325).
16Ibidem V, 18, 3 (traduzione di Cosentino, ibidem, 360). In Irénée de Lyon, Adversus Haereses, V, 18, 3 (SCh., 153, 244.246), A. Rousseau traduce così: “fichée, enfoncée dans la création entière”.
17Tremblay, La manifestation, 109.
18Cfr. H.U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. Bd. II: Fächer der Stile. Teil 1: Klerikale Stile, Johannes Verlag, Einsiedeln 1969, 29-94.
19Per una visione di insieme, cfr. R. Tremblay, Fonder la vie morale des croyants dans le Fils. Quelques éléments d’histoire et vue d’ensemble, in J. Mimeault–S. Zamboni–A. Chendi (a cura di), Nella luce del Figlio. Scritti in onore di Réal Tremblay nel suo 70o genetliaco, EDB, Bologna 2011, 35-41.