Vai al contenuto

Ror Studies Series | Storia e mistero

Verità e crisi della storia in Jean Daniélou

Leonardo Lugaresi

Associazione PATRES

Scarica l’articolo in pdf

Νῦν κρίσις ἐστὶν τοῦ κόσμου
(Gv 12.31)

Rileggendo oggi, a più di sessant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, un libro famoso come il Saggio sul mistero della storia,1 che Jean Daniélou considerava “fondamentale” nella sua bibliografia,2 non si può fare a meno di riconoscere che si tratta di un testo esemplare per il tipo di approccio al pensiero biblico-patristico che presenta e, proprio per questo, straordinariamente ricco di spunti di riflessione più che mai attuali sul problema della presenza cristiana nel mondo contemporaneo. Siamo di fronte, infatti, ad un libro di teologia della storia che è sì animato da una forte sensibilità nei confronti delle istanze dell’uomo del XX secolo,3 ma è anche totalmente nutrito, se così posso esprimermi, di linfa patristica e proprio in forza di questo alimento intellettuale non sente il bisogno, per fare i conti con il presente, di adottare e quindi di dipendere dalle categorie di quella stessa cultura contemporanea con cui vuole tuttavia misurarsi seriamente. È appunto questa sua coraggiosa inappartenenza all’orizzonte culturale del proprio tempo che lo rende perfettamente attuale anche oggi, in un contesto che da tanti punti di vista risulta diversissimo da quello in cui è stato concepito, i primi anni Cinquanta del secolo scorso (basti pensare a che cosa rappresentava il marxismo nella cultura di allora e a che cosa è oggi). Spiritualmente contemporaneo dei Padri, Jean Daniélou ci appare pertanto molto più capace di parlare all’uomo di oggi di tanti teologi che negli stessi anni si sforzavano di essere “aggiornati” inseguendo il volatile “spirito del tempo”.

Un modo biblico-patristico di pensare il presente

Il primo motivo di interesse, anche sotto il profilo metodologico, della posizione di Daniélou è dunque questo: egli, da studioso, indaga, medita e assimila in modo molto profondo una “entità culturale” che proviene dal passato, e che potremmo chiamare pensiero biblico-patristico, ma le riconosce pieno diritto di cittadinanza nell’arengo del dibattito culturale contemporaneo. Ciò significa per lui due cose: innanzitutto leggere in profonda continuità, come espressioni successive di un unico organismo spirituale che vive e si sviluppa nella storia, i contenuti dell’Antico, del Nuovo Testamento e della Tradizione patristica. Il che è essenziale, ai fini di un’adeguata comprensione cristiana della storia, perché si tratta della sola opzione che, corrispondendo pienamente alle esigenze del concetto autenticamente cattolico di Rivelazione,4 permette di evitare il rischio, altrimenti sempre incombente, di qualsiasi forma di riduzione “biblicistica” del cristianesimo (sola Scriptura),5 da cui conseguirebbe inevitabilmente quello che, con Daniélou, possiamo chiamare “lo svuotamento protestante della storia”. Con questa espressione, egli si riferisce al fatto che

la teologia protestante della storia tende a identificare la storia sacra con quella che la Scrittura ci riporta e a non vedere nella Chiesa la continuazione dell’azione di Dio esprimentesi infallibilmente nel magistero della Chiesa e irresistibilmente nell’efficacia sacramentale. In questa prospettiva […] la venuta di Cristo avrebbe immobilizzato la storia. Tale è la posizione barthiana che costituisce così una specie di parallelo post-cristiano della gnosi. In questa prospettiva solo la risurrezione di Cristo ha importanza […] Ma nessuna salvezza si realizza nella storia stessa. Questa non rappresenta un incremento di valore, né perciò di progresso, per cui si può dire ch’essa è svuotata.6

Schiacciata tra l’evento della risurrezione (sempre più lontano nel tempo) e l’eschaton (sempre più vicino, ma sempre indefinito), la storia intermedia perde significato e consistenza. Cattolicamente, invece, la storia “ha un contenuto reale che è la crescita del Corpo mistico sotto l’azione dello Spirito” (p. 21), cioè la missione, che è la ragion d’essere della chiesa. La missione si palesa così come il vero contenuto della storia.

In secondo luogo, Daniélou si rapporta a questo pensiero biblico-patristico non come ad un retaggio del passato, un contenuto storiografico che si deve studiare, mettendolo a fuoco alla giusta distanza e stando bene attenti a non compromettersi per salvaguardare la scientificità della ricerca – per poi ricavarne al massimo degli spunti di riflessione e di comparazione da utilizzare all’interno di un “discorso moderno” che ha i suoi fondamenti altrove – bensì come ad un sistema di pensiero pienamente vitale e attivo, a cui si può aderire e di cui si può fruire come uno strumento perfettamente idoneo per confrontarsi con i problemi e le idee del mondo di oggi.7 Dalla profonda familiarità con quel pensiero, studiato sì con rigore scientifico nelle sue espressioni storiche ma al tempo stesso amato e rivissuto personalmente, si sviluppa la straordinaria attitudine di Daniélou a pensare in modo biblico-patristico il presente, che mi pare sia il tratto che più avvicina la sua personalità intellettuale a quella di Joseph Ratzinger, e la distingue al tempo stesso da molte altre, forse oggi prevalenti nel panorama dell’accademia teologica (anche cattolica).8 In altre parole, mi pare si possa dire che, guardando quel panorama, è difficile fare a meno di rilevare un discrimine che ne divide il campo: da una parte ci sono coloro i quali ritengono che, dopo Kant e dopo Hegel (ma poi anche dopo Marx, dopo Freud, dopo Nietszche e, perché no?, dopo ogni pensatore che di volta in volta sembri epocale alla moda culturale del momento), nessuna teologia possa più farsi se non introiettando le categorie, gli schemi e le forme di pensiero di questi esponenti, sempre definiti “imprescindibili”, della modernità e della post-modernità; dall’altra c’è chi invece – pur senza ovviamente ignorare o trascurare tutto ciò che il pensiero moderno e post-moderno abbia da dire – crede nella piena pertinenza del pensiero biblico-patristico così com’è (anche se certamente da noi riletto con la coscienza e gli strumenti culturali degli uomini del XXI secolo) al mondo contemporaneo e ai suoi problemi. Quel sistema di pensiero infatti – ci dicono Daniélou e Ratzinger – ha un’intatta capacità di corrispondere alle sfide del presente e anzi proprio la sua “alterità” rispetto alla cultura dominante può renderlo profondamente interessante, e direi persino affascinante, per l’uomo di oggi.9

Attualità del “momento patristico” per il cristianesimo odierno

Ma perché in particolare il “momento patristico” del pensiero cristiano, tanto remoto nel tempo della sua genesi e della sua fioritura, dovrebbe essere così importante oggi? Quale sarebbe il “privilegio” che lo rende tanto prezioso per fondare oggi una posizione cristiana culturalmente adeguata all’incontro con la società contemporanea? Una prima risposta che darei, riallacciandomi a quanto sopra accennato, è che esso è l’espressione di un cristianesimo profondamente missionario, anzi, per dire ancor meglio, del cristianesimo più missionario di tutta la storia. Quello dei Padri, infatti, è un cristianesimo totalmente missionario nel senso che non ha una cristianità dietro o sotto di sé, da conservare e da difendere: per i cristiani dei primi secoli non c’è nessuna terra cristiana da cui partire per andare a evangelizzare il mondo pagano, nessun ovile già recintato; non esiste quindi per loro il problema della “chiesa in uscita” a cui ci richiama papa Francesco, perché la condizione del cristiano dei loro tempi è strutturalmente quella dello straniero, del “senza patria”, totalmente immerso in un mondo che gli è estraneo, se non ostile, perché è totalmente non-cristiano, ma dal quale, tuttavia, i cristiani non vogliono affatto fuggire perché sanno che è lì che sono chiamati a vivere la propria fede.

Daniélou ha colto pienamente la grande attualità di questo dato. È interessante, in questo senso, vedere, per esempio, come sia proprio questa coscienza, che gli viene direttamente dal cristianesimo dei Padri, ad ispirare il suo approccio ad una questione che, quando scriveva il Saggio sul mistero della storia, era di scottante attualità come quella della presenza cristiana nel mondo operaio. Lontano da ogni sociologismo e da ogni pastoralismo, egli non si perita di definire senza mezzi termini “la situazione dell’operaio cristiano incomprensibile, contraddittoria, impossibile”, ma afferma che questa è l’essenza della posizione cristiana nel mondo: “non è questa forse la situazione cristiana realizzata all’estremo?”.10 E proprio su questo punto gli risulta estremamente pertinente il confronto con le origini cristiane: “bisogna che l’operaio cristiano accetti di vivere in questa lacerazione, in questa presenza, in questa rottura. Ma questa era appunto la condizione dei primi cristiani che vivevano in un mondo pagano”.11

Un altro fenomeno che si lega sempre al paradosso della condizione del cristiano nel mondo – paradosso che i lunghi secoli della cristianità occidentale avevano offuscato e quasi messo in oblio – e che appare, alle soglie della seconda metà del XX secolo, quasi profetico agli occhi del teologo patristico Daniélou, è quello del ritorno dei contemplativi in seno al mondo.12 Anche in questo caso la chiave di lettura gli è fornita dal riferimento a quella fase pre-monastica degli asceti cristiani presenti nei primi secoli (fase che in realtà conosciamo ben poco), a cui seguì dopo il IV secolo una lunghissima storia monastica in cui i contemplativi sono stati sempre in qualche modo separati dal resto del popolo cristiano; un tempo che ora, dice Daniélou, forse è destinato a chiudersi per ridare spazio a forme “nuove e antiche” di presenza dei contemplativi nel tessuto sociale.

Il cristianesimo dei Padri, d’altro canto, è anche un cristianesimo “greco” – o meglio “mediterraneo”, nella sua triplice componente ebraica, greca e latina (come Daniélou ha puntualizzato meglio di chiunque altro)13 – e, si noti bene, è solo in quanto tale che può definirsi, secondariamente e criticamente, anche “europeo”. L’assunzione dell’ellenismo, come ha molto opportunamente (e speriamo non invano) ricordato agli uomini del XXI secolo la storica lezione di papa Benedetto XVI a Ratisbona, è un dato permanentemente acquisito dal cristianesimo, nonostante tutti i processi di de-ellenizzazione a cui esso può andare incontro nella sua storia,14 e questo carattere “greco” del cristianesimo è oggi più che mai centrale nel compito che la duplice grande sfida lanciata dal mondo contemporaneo ai cristiani ci impone: da un lato quello di allargare (e direi quasi di rieducare) la ragione asfittica di un Occidente scientificamente e tecnologicamente ipersviluppato ma che sembra ormai aver perso ogni volontà e capacità di riferimento alla questione della verità; dall’altro quello di difendere i diritti della ragione umana (vorrei dire dell’umana ragionevolezza) nei confronti del fanatismo ideologico-religioso, soprattutto di matrice islamica, oggi tanto aggressivo e minaccioso.

La posizione di Daniélou, su questo, collima perfettamente con quella di Ratzinger. È chiaro ad entrambi che la chiesa non può identificarsi con nessuna civiltà, però

il suo contatto con ogni civiltà costituisce per questa un apporto eterno. […] Così la Chiesa porta impresso per l’eterno il segno della sua origine semitica, e la parola di Dio è legata per sempre alla lingua ebraica. Così la Chiesa è unita per sempre alla civiltà latina e alla situazione storica che ha fissato a Roma il seggio di Pietro. E così pure vi è un ellenismo eterno della Chiesa.15

Facendo sua un’espressione di Florovsky, Daniélou può dunque affermare che “l’ellenismo nella Chiesa non è una tappa”16 e rivendicare per sé, nel grande cantiere della chiesa del XX secolo in cui gli apporti delle diverse civiltà sono chiamati a convergere in una visione sempre più autenticamente “cattolica”, il compito di cooperare “rinnovando, in seno alla Chiesa romana, la corrente dell’ellenismo cristiano”.17

Vale la pena di soffermarmi su questo punto, per chiarire meglio perché, nella prospettiva di un Daniélou riletto nel 2015, il carattere ellenico del pensiero patristico ha una funzione critica nei riguardi dell’Europa. Oggi il rapporto tra cristianesimo ed Europa è radicalmente messo in discussione, da una parte perché l’Europa, come continente, sembra aver voltato decisamente le spalle al cristianesimo, sembra averlo ormai rifiutato e forse si accinge addirittura a perseguitarlo con crescente ostilità; dall’altra perché il cristianesimo sente il bisogno di affrancarsi da un legame troppo stretto con la cultura europea, per aprirsi alle altre culture e vivere fino in fondo la sua dimensione cattolica, cioè universale. Da questo punto di vista, è sensata l’osservazione che piuttosto che insistere sul richiamo alle “radici cristiane” (ormai quasi completamente recise) dell’Europa, bisognerebbe cogliere l’opportunità di “de-europeizzare” il cristianesimo. Sorge però immediatamente una domanda: quale altra cultura, a parte quella mediterranea-europea che al cristianesimo ha dato la forma per il primo millennio, si è dimostrata in grado di supportare adeguatamente la dimensione cattolica e quindi la missione universale della chiesa? Possiamo affermare – pur con tutto il rispetto per i tentativi e le generose aspirazioni di tanti missionari e teologi – che dall’Asia, dall’Africa e perfino dalle stesse Americhe (nella misura in cui sono “altre” rispetto all’eredità europea) ci sia venuto un contributo culturale paragonabile a quello mediterraneo-europeo? Non pare che ancora all’orizzonte si profili niente di simile.

Allora la questione potrebbe essere posta in altri termini: per “de-europeizzarsi”, cioè per liberarsi dalla senescenza mortale dell’Europa di oggi, il cristianesimo, anche in Europa, forse può (e deve) percorrere un’altra strada, che lo porta sì lontano ma non geograficamente: si tratta infatti di riandare alla “pre-Europa”, cioè a quella matrice mediterranea sia dell’Oriente che dell’Occidente cristiano (cioè, con buona pace di tutti, dell’unica esperienza storica di impianto profondo e duraturo del cristianesimo in una civiltà) rappresentata dall’età patristica. Andremo ai Padri, dunque, non con lo spirito di chi resta a casa a contemplare la galleria degli antenati, ma con quello di chi fa un viaggio in terra straniera per cercare le proprie origini. I Padri ci interessano proprio perché sono “altri da noi” (da noi in quanto europei del XXI secolo), e per ciò stesso contestano vigorosamente, con ciò che sono e ciò che pensano, il nostro modo di essere e di pensare. Il cardine su cui poggerà la nostra critica intellettuale e la nostra liberazione morale dal “pensiero morto” dell’Europa di oggi sarà dunque quel loro pensiero “pre-europeo”, o se vogliamo, “criticamente europeo”. In altre parole, si torna all’inizio perché in quell’inizio c’è il criterio per giudicare tutto quello che ne consegue.

Mi pare che questo potrebbe essere un modo per rilanciare, in una prospettiva che tiene conto dei cambiamenti avvenuti in questi trent’anni, la grande proposta ermeneutica contenuta nel magistero di san Giovanni Paolo II sull’Europa (con la sua idea forte che la crisi dell’Europa è la crisi del cristianesimo),18 e anche un modo per tornare ad essere, in quanto cristiani europei, modérément modernes, come ci invita a fare, con ottimi argomenti, Rémi Brague in un suo libro recente.19

La verità della storia è la sua crisi

Questa osservazione sulla valenza critica del pensiero biblico-patristico rispetto alla cultura della modernità occidentale, che pure da esso ha preso le mosse, si salda molto bene con la tesi fondamentale che vorrei ora enunciare rispetto alla concezione della storia in Daniélou, tesi che può essere sintetizzata così: la verità della storia, nella prospettiva teologica che egli delinea, si fonda e consiste nel giudizio che Dio, il quale si rivela all’uomo agendo nella storia, col suo stesso agire pronuncia su di essa. Da ciò consegue che tale verità si manifesta nella crisi stessa della storia. Crisi, infatti, intesa in senso cristiano significa giudizio.20 I termini del titolo di questa relazione, “verità e crisi della storia”, vanno dunque presi non come se fossero in antitesi ma in sinergia: la verità della storia emerge attraverso il giudizio con cui l’agire di Dio in essa continuamente la mette in crisi. Brachilogicamente si può dire: la verità della storia è la sua stessa crisi.

L’intero assetto del mondo, infatti, è fondato sull’economia divina che continuamente lo crea e lo mantiene in essere, ma che al tempo stesso mette in crisi tutto ciò che nel mondo non le corrisponde. Perché “c’è una costruzione (οἰκοδομὴ) del diavolo e c’è una costruzione di Dio” e, rispetto alla prima, la bontà di Dio si manifesta appunto nello “sradicare, distruggere e annientare”, come dice Origene commentando Geremia.21 Da questo assunto si ricava quella che è la principale chiave di lettura della meditazione di Daniélou sulla storia: il rapporto con Dio che interviene nella storia è per l’uomo fondante e destabilizzante al tempo stesso, perché tutti gli aspetti della sua vita individuale e collettiva, che pure dipendono per la loro stessa esistenza dal beneplacito divino (come ogni cosa creata), vengono dall’iniziativa divina sempre di nuovo messi in questione e giudicati. C’è dunque nella storia un’ambivalenza di fondo che riguarda tutte le istituzioni e tutte le forme della civiltà umana che si avvicendano nel corso dei secoli: esse sono al tempo stesso da un lato fondate in un ordine, quello dell’essere, che riposa sulla volontà creatrice di Dio e dall’altro vengono da Lui messe continuamente in discussione attraverso le vicende della storia e sottoposte alla sua krisis.

Tutto questo vale, come si è detto, non solo per la storia ma per l’intero cosmo. Nella prospettiva ermeneutica della teologia della storia non c’è, sotto questo profilo, opposizione tra cosmo e storia: “Per la tradizione cristiana”, osserva in proposito Daniélou, “la storia della salvezza non ha inizio con l’elezione di Abramo, ma con la creazione del mondo”.22 Si noti, per inciso, come questa impostazione del rapporto tra cosmo e storia sia antitetica a quella prevalente nella mentalità contemporanea, che postula invece una sorta di innocenza della natura, estranea per definizione al dramma, esclusivamente umano, della storia. Probabilmente anche per molti cristiani di oggi, peccato e redenzione sono categorie che riguardano solo l’uomo e la storia, mentre la natura non ha bisogno di essere salvata perché è giusta e innocente, ma deve solo essere protetta dalle offese dell’uomo. Nella prospettiva biblico-patristica vigorosamente ripresa da Daniélou, invece, “la resurrezione di Cristo è un’azione creatrice” perché, come ricorda Paolo nella Lettera ai Romani (8,19-21) anche la creazione è stata sottomessa alla caducità e alla schiavitù della corruzione e, come dice Ireneo, “tramite il Verbo di Dio, tutto è sotto l’influenza dell’economia redentrice, e per tutto il Figlio di Dio è stato crocifisso avendo tracciato questo segno di croce su tutte le cose”.23 Di nuovo qui ci imbattiamo in uno spunto patristico che risulta prezioso nel confronto culturale con il mondo contemporaneo, perché se si perde la consapevolezza che anche il mondo della natura è bisognoso di redenzione quanto il mondo della storia esso diventa facilmente un idolo e si pone in alternativa a Cristo come una sorta di luogo innocente in cui anche l’uomo, assimilandosi agli animali e alle piante, può trovare rifugio. Viene di qui la pericolosa deriva neopagana che caratterizza correnti importanti dell’opinione pubblica occidentale nel segno dell’animalismo e dell’ecologismo. Anche su questo il giudizio di Daniélou è nettissimo:

Se non dimostriamo come l’ordine cosmico sia dominato dalla croce di Cristo, sia sottomesso alla sua azione sovrana, v’è pericolo che la storia sacra si perda nella storia naturale, che il Cristo si dissolva nel divenire cosmico.24

Rispetto alle religioni naturalistiche di ieri e di oggi, la rivelazione biblica compie un irreversibile salto di qualità: Dio non si rivela più solamente nella regolarità dei cicli cosmici, ma anche e soprattutto nella singolarità degli avvenimenti storici. Questo cambia radicalmente anche il modo di concepire la natura, poiché “in questa prospettiva il concetto di creazione prende un senso nuovo. Esso diventa un avvenimento storico, la prima azione di Dio nella storia”.25 Nasce così un nuovo tipo di simbolismo religioso, quello biblico, che è un simbolismo storico, “fondato cioè sulla corrispondenza tra i momenti diversi della storia sacra. Questo è il simbolismo che viene designato con il nome di tipologia […] Senza togliere nulla al valore unico degli avvenimenti divini, essa conferisce loro una intelligibilità propria che li sottrae all’arbitrio”.26

Il simbolismo storico (tipologico) non lascia fuori di sé il dominio cosmico, ma si propone come un’interpretazione totale della realtà, proprio per quello che si è detto sopra, cioè che la creazione diviene la prima tappa dell’azione storica di Dio. Questa è la base per il recupero dei simboli della religione cosmica operato dal cristianesimo nei primi secoli. “Ma questa utilizzazione dei simboli cosmici nella religione storica non è però priva di pericoli. Essa rischia di condurre all’assorbimento dell’elemento storico nell’elemento cosmico. Quel che fa appunto l’allegorismo”.27

La teologia critica della storia come chiave di lettura dei fenomeni storici

Questa prospettiva ermeneutica offre al nostro autore una chiave di interpretazione dei fenomeni storici estremamente feconda, che gli permette di rileggere in maniera penetrante molti fatti che rischiamo spesso di concettualizzare in maniera banale e scontata. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ma per limitarci a uno solo possiamo riferirci al contenuto, drammaticamente attuale, del capitolo su “Deportazione e ospitalità”.28 Il fenomeno delle deportazioni e/o delle migrazioni dei popoli viene letto da Daniélou in una chiave che va molto al di là delle categorie storico-economiche e sociologiche che solitamente vengono impiegate per comprenderlo. Esso rappresenta una crisi non solo dell’assetto politico e demografico della società, ma, ad un livello molto più profondo e universale, dimostra che la condizione dell’uomo sulla terra è ontologicamente quella di una “instabilità permanente”. La stabilità delle civiltà e dei popoli è solo apparente: gli uomini “sono in realtà dei senza patria”.29 Questo livello di coscienza del fenomeno delle deportazioni/migrazioni consente al nostro autore di gettare uno sguardo acutissimo sul presente (il suo, dei primi anni Cinquanta ma ancora di più il nostro, del 2015) e di osare uno spunto di giudizio così “politicamente scorretto” (anche nella chiesa!) che vale la pena di riportarlo integralmente.

Il radicarsi in una terra non costituisce la vocazione prima dell’uomo, ma corrisponde alla condizione fissata da Dio all’uomo peccatore. Tale ambiente naturale, sarà pericoloso misconoscerlo. Per questo tutti i tentativi di internazionalismo fondato sull’unità della scienza o sulla religione dell’umanità sono colpiti dal giudizio portato da Dio su Babele, e presentano un carattere d’idolatria. Essi sono un rifiuto da parte dell’uomo di accettare la condizione che Dio gli ha dato. Sono uno sforzo per ricostruire da solo una unità che non può venire se non da Dio. Non sfociano che allo sradicamento e alla distruzione. Nel quadro presente le patrie sono la condizione normale della vita umana.30

Non è questa la sede per farlo, ma si pensi solo per un attimo a quale prezioso lavoro culturale in ordine a una revisione critica di certi miti del cosmopolitismo illuminista, dell’internazionalismo socialista, dell’ideologia globalista delle organizzazioni sovranazionali si potrebbe svolgere a partire da questo giudizio.31

Ma anche le patrie, prosegue Daniélou, possono diventare un idolo (come sapeva bene chi era appena uscito dalla catastrofe dei nazionalismi europei del XIX-XX secolo) e di nuovo in questo senso l’esperienza della deportazione/migrazione ne rappresenta la crisi, cioè una forma dolorosa ma salutare di correzione.32 C’è dunque una sorta di strutturale ambivalenza delle istituzioni della storia umana, che Daniélou coglie con molta finezza e mette in risalto anche parlando dell’ospitalità: qui l’ambivalenza è innanzitutto quella insita nella figura dello straniero, segnalata dal “fatto linguistico sorprendente” che “in molte lingue, la stessa radice serv[e] a designare l’ospite e il nemico”33 (si pensi in latino alla coppia hospes/hostis) e il momento “critico” della civiltà, anzi il “passo decisivo” per la sua formazione avviene quando si smette di considerare lo straniero solo come nemico e, invece di ucciderlo, lo si accoglie come ospite: “quel giorno si può dire che qualcosa è mutato nel mondo” (p. 75). Partendo di qui, Daniélou arriva a formulare una definizione di civiltà, di alta caratura teologica e al tempo stesso di forte spessore politico. La civiltà è

essenzialmente un ordine di cose, in cui l’uomo è rispettato e amato, e in cui è tanto più amato quanto più è debole, isolato, infelice. Al contrario, ogni ordine di cose in cui il debole, lo straniero è disprezzato, respinto, soppresso, non è una vera civiltà, quand’anche vi si trovassero tutte le raffinatezze della tecnica.34

Perché diciamo che questa definizione ha una natura teologica? Perché subito dopo Daniélou spiega come nel cristianesimo si capisca che l’ospite è sempre un “angelo”, cioè un misterioso messaggero di Dio. L’ospite per eccellenza è Cristo. Questo è il motivo di fondo che spiega il carattere “istituzionale” dell’ospitalità nel cristianesimo primitivo. E, più profondamente ancora, perché la condizione di ospite è reciproca: qui sulla terra è Cristo ad essere “straniero”, ma quando saremo di là saremo noi “stranieri” e verremo accolti: “Venite benedetti dal Padre mio […] perché ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25, 34-35). Ecco dunque una nuova ambivalenza.

La stessa problematica viene affrontata, da un’altra angolazione, a proposito della divisione delle lingue: Essa, come è noto, per la Scrittura è una conseguenza del peccato e, come tale, forma l’oggetto di una riflessione teologica, in ambito giudaico e poi patristico, legata alla dottrina degli angeli delle nazioni, un tema di cui Daniélou si è occupato e che ha attirato l’attenzione di un altro grande patrologo come Erik Peterson, che, pur provenendo da una storia assai diversa dalla sua, presenta, a mio avviso, delle significative affinità di posizione culturale con lui (e con Joseph Ratzinger).35 La mentalità comune oggi parte invece dall’assunto che la pluralità delle lingue sia di per sé un bene originario, una ricchezza; infatti deploriamo la scomparsa delle lingue minoritarie, esattamente come ci preoccupiamo della biodiversità a rischio. Tuttavia, allo stesso tempo, ogni giorno ci scontriamo con i problemi e le difficoltà posti dalla diversità linguistica. La nostra risposta a questa contraddizione è l’esaltazione e la promozione della conoscenza di altre lingue, il plurilinguismo come valore in sé e non solo come strumento pratico. Nella visione della Scrittura e del pensiero patristico, invece, se il monolinguismo è un’occasione di male (la torre di Babele), il plurilinguismo è la punizione/correzione di questo male. Si potrebbe dire: è un bene proprio in quanto è un limite. Nel giudaismo, e poi nel giudeo-cristianesimo e di lì anche nella successiva tradizione patristica, la questione della diversità delle lingue (e delle culture) si lega, come abbiamo detto, alla dottrina degli angeli delle nazioni, che viene ad un certo momento superata quando si dice che, con l’avvento di Cristo, la vecchia economia angelica è finita: il mondo in cui il governo degli uomini era affidato agli angeli delle nazioni non c’è più, perché tutto è posto nelle mani del Figlio di Dio. Gli angeli buoni salutano con favore questo passaggio e si sottomettono a Cristo,36 gli angeli cattivi invece fanno resistenza. La questione che si apre, a questo punto, è capire come si pone, nella nuova prospettiva aperta dalla universale signoria di Cristo, la pluralità delle nazioni, delle culture e delle lingue in seguito alla destituzione delle potenze angeliche ad esse preposte. Un fatto è certo, e Daniélou lo coglie molto bene:

il Cristo inaugura una sfera nuova di esistenza, in cui tutte le antiche distinzioni sono abolite. All’economia antica fondata sulla differenziazione delle nazioni, delle lingue e delle culture è sostituito un ordine nuovo in cui tutto è unificato nel Cristo.37

La divisione linguistico-culturale delle nazioni, che perdura anche dopo l’avvento di Cristo, è dunque al tempo stesso una conseguenza del peccato e una disposizione di Dio per l’umanità decaduta che conserva (ma in che misura?) il suo valore: sono perciò impraticabili, da un punto di vista cristiano, sia l’attaccamento esclusivo ed assoluto alla propria identità particolare sia la pretesa di assolutizzare l’aspirazione all’unità del genere umano. La nostalgia dell’unità è comprensibile e la tensione ad essa lodevole, ma solo nella misura in cui si è consapevoli che non può essere realizzata (e tanto meno imposta) dall’uomo ma, ultimamente, solo da Dio: per questo Daniélou non teme di affermare che “ogni tentativo per ricostruire con mezzi umani l’unità linguistica dell’umanità presenta un carattere ambiguo”.38 È questo un tema che avrebbe bisogno, ovviamente, di essere trattato in maniera molto più approfondita, ma abbiamo voluto farvi un cenno, per quanto sommario e inadeguato, allo scopo di fornire un altro esempio della ricchezza di spunti di riflessione che il Saggio sul mistero della storia può offrire al lettore.39

La collera di Dio come fattore di crisi della storia

La visione “critica” della storia di Daniélou si delinea molto chiaramente e con tutta la sua forza là dove egli afferma che la storia delle civiltà non è un progresso continuo (secondo il modello dell’evoluzionismo), né una successione di momenti discontinui ed eterogenei (alla Spengler), ma è costituita da un seguito di kairoi, di crisi decisive, che sono ogni volta il crollo e la condanna di una civiltà che ha peccato per eccesso d’hybris e il rinnovamento della Chiesa attraverso questa purificazione. Questi kairoi sono al tempo stesso la ripresa del kairos per eccellenza che è la passione e risurrezione di Gesù e l’anticipazione del kairos finale, ossia il giudizio universale. Così si trovano riconciliati il punto di vista di Bultmann sul giudizio come realtà sempre attuale e il concetto del giudizio finale: per l’individuo il giudizio è un perpetuo presente, ma bisogna d’altra parte che tutte le realtà del mondo conoscano questa crisi che le condanna e le salva al tempo stesso. Così l’imminenza e la dilazione del giudizio sono ugualmente vere: la storia è un perpetuo giudizio del mondo, e la Parousia ne sarà soltanto il momento supremo.40

Nella sua pars destruens, questo continuo processo di critica della storia implica un tema che a me pare venga solitamente trascurato, mentre è assolutamente centrale nella prospettiva di Daniélou, il quale vi dedica alcune pagine tra le più belle del Saggio sul mistero della storia:41 è il tema dell’ira di Dio, da lui definita come “il modo più sorprendente” e più misterioso con cui la trascendenza di Dio si manifesta nella storia. Vale la pena che anche noi ci soffermiamo un po’ a considerarlo, perché si tratta, come è noto, di un argomento ormai quasi proibito, essendo insopportabile per la mentalità moderna almeno quanto lo era per la tradizione filosofica greca, come Daniélou stesso osserva, accostando suggestivamente, a questo proposito, i nomi di Simone Weil e di Marcione come esempi di questo rifiuto.42

Il Dio solo buono di Marcione, infatti, è un Dio che, fino al momento in cui inopinatamente si rivela agli uomini in Cristo, non ha alcun rapporto con la storia umana, totalmente consegnata al Dio iroso e vendicativo dell’Antico Testamento, quel Dio della giustizia senza bontà che ha creato il mondo e lo ha governato per millenni, il Dio degli Ebrei che, appunto, non ha nulla a che fare con il Dio rivelato da Gesù Cristo. Questa totale estraneità fra i due déi, che è essenziale nel pensiero di Marcione, rende impossibile alla sua teologia pensare (unitariamente) la storia. La novità della rivelazione di Cristo, infatti, nella prospettiva del marcionismo (e di tutte le ideologie che ne sono derivate) si pone come qualcosa di assoluto, privo di rapporti con tutto ciò che sta prima. Come osserva acutamente Jean-Louis Chrétien

L’incarnation du Christ à un moment précis du temps prend son sens pour le christianisme par une théologie de l’histoire, mais il ne peut y en avoir pour Marcion, puisque l’histoire est totalement étrangère au Dieu supérieur. En écrivant contre Marcion, les auteurs chrétiens ne défendent pas seulement la nature de leur foi dans le Christ, mais aussi bien la signification de l’histoire humaine, l’idée que le temps ne soit pas le lieu insensé de l’échec et de la décheance, soudain traversé par un éclair de sens qui nous appellerait à sortir du temps.43

L’evento di Cristo, così irrelato, diviene astratto: è come un punto che non si collega a nulla di ciò che lo precede, ma a ben vedere neanche a ciò che viene dopo, perché ciò che Marcione rimprovera alla chiesa è appunto di essersi allontanata dal vero messaggio di Cristo, di avere falsificato le Scritture, rendendo così necessaria la riforma, o piuttosto la rivoluzione operata da Marcione stesso. Neppure tra Marcione e Cristo c’è continuità, se ci si pensa: per attingere al vero Gesù, il teologo deve rompere con la falsa tradizione che sta alle sue spalle, la deve negare per fare un salto all’indietro fino a Cristo. È l’archetipo dell’impossibilità, per il pensiero rivoluzionario, di pensare comprensivamente la storia: la storia, dopo la rivoluzione (dopo ogni rivoluzione, a ben vedere), deve essere riscritta.44 Al di fuori di un’economia della rivelazione, l’epifania isolata e momentanea del Dio buono che si manifesta in Cristo è consegnata ad una irrimediabile fragilità, legata al sospetto del suo “carattere accidentale”. L’incarnazione perde così la sua centralità nella storia umana (“Gesù Cristo centro del cosmo e della storia”, per rievocare le prime parole della Redemptor hominis), perché non c’è nessuna tipologia che permette di far convergere verso di essa gli eventi che la precedono e che la seguono.

A fronte di tutto ciò, appare fondamentale invece, nella prospettiva dei Padri (che è, come si è detto, anche quella di Daniélou), la rivendicazione dell’indissolubile rapporto tra giustizia e bontà in Dio, di cui proprio la collera – non per nulla tante volte messa in rilievo non solo nei libri dell’Antico Testamento ma anche nel Nuovo – è l’espressione più profonda, per quanto a prima vista sconcertante.

La collera è una passione, una creatura di Dio, che è buona in se stessa. […] La collera non è dunque il risentimento di un amor proprio ferito. È il rifiuto di venir a patti con ciò che non può essere ammesso. Così, in Dio, essa è l’espressione della sua incompatibilità con il peccato. Ma bisogna forse andare più innanzi. Nel suo fondo stesso, il θυμός greco, l’ira latina non esprimono neppure, direttamente, una relazione a qualcosa. Essa è semplicemente l’espressione della vitalità di un essere, del modo in cui si afferma. […] Così, nella sua essenza più profonda, la collera di Dio è l’espressione dell’intensità dell’esistenza divina, della violenza irresistibile con la quale travolge tutto quanto si manifesta. In un mondo che continuamente si allontana da lui, Dio rivendica, talvolta, con violenza la sua esistenza.45

Dio esiste in modo così forte ed intenso che “di fronte alla violenza dell’esistenza divina l’uomo prende coscienza della nullità della propria esistenza”.46 E questa presa di coscienza, che fa giustizia di tutte le mistificazioni a cui l’uomo si abbandona, diventa possibile perché la vita divina, in tutta la sua sovrabbondante forza, si impatta con la storia, purificandola nel fuoco dell’amore e dell’ira e rendendola vera: è questa, propriamente, la crisi divina della storia.

Daniélou, infatti, nel passo che stiamo esaminando, con un’intuizione geniale collega il tema della collera divina a quello del “Dio che viene”: “Jahvè è in realtà il Dio che viene, ἐρχόμενος. È un Dio che interviene, che fa irruzione nell’esistenza degli uomini”,47 e questo determina tutto il modo di considerare la storia, sia in quanto risposta dell’uomo all’intervento divino (qui è estremamente interessante la sottolineatura che Daniélou fa del carattere non meramente morale bensì essenzialmente storico della penitenza),48 sia con riguardo ai “momenti critici” della storia stessa, cioè a quegli snodi della vicenda umana in cui gli assetti consolidati delle civiltà vengono messi in discussione e si produce una destabilizzazione degli equilibri esistenti:

Qui appunto è il significato delle grandi catastrofi storiche e cosmiche: di essere un violento richiamo rivolto ad una umanità che tende a bastare a se stessa, a dimenticare la sua condizione creata. I grandi flagelli storici sono un passaggio di Dio il quale strappa l’umanità alla sua vanità e la getta nello stupore.49

Le crisi della storia, in questa concezione, sono come delle “fessure, attraverso cui filtra una luce che viene d’altrove” (p. 177). Guardata con gli occhi della fede, la collera di Dio svela il suo senso intimo che è l’amore. La misteriosa e paradossale identità di collera e amore giunge al suo apice nella passione di Cristo: “il Golgota è il luogo dove la collera e l’amore si manifestano contemporaneamente in tutta la loro intensità”.50

Il senso profondo di questa ambivalenza nel rapporto tra Dio e la storia si coglie ancora meglio se la si mette a contrasto con il dualismo radicale, ontologico, che caratterizza in modo essenziale e genetico lo gnosticismo. Esso, secondo Daniélou, è estraneo al giudaismo e al giudeo-cristianesimo, ma rappresenta la radicalizzazione di una certa tendenza dualistica che aveva preso piede nel tardo giudaismo.51 Nel quadro di questa concezione, è come se Dio abbandonasse, per così dire, il mondo a se stesso. Rispetto all’intuizione religiosa fondamentale del giudaismo (Dio creatore), è come si fosse introdotta una “stanchezza” (che è dell’uomo, ma che l’uomo proietta su Dio, attribuendogliela) rispetto alla vicenda del mondo con tutte le sue irrimediabili imperfezioni. Separato da Dio, il mondo si può abbandonare alla sua deriva: la crisi (cioè il continuo giudizio che al tempo stesso tiene in piedi il mondo e lo “smonta”) è invece, paradossalmente, l’unica cosa che mantiene credibile il rapporto tra Dio e il mondo. Alla domanda che l’uomo di oggi tante volte si pone: “ma che cosa fa Dio per il mondo che va così male?” la risposta è appunto: “lo mette in crisi”.

La permanente inizialità della storia e la critica alle filosofie della storia

A tutto questo si lega strettamente un altro aspetto che Daniélou rileva con grande nettezza, quello dell’attualità, o forse meglio ancora dell’inizialità della storia, come lui dice. Per il pensiero greco, come è noto, l’essere è immobile. Il movimento stesso viene concepito in modo da ridurlo all’immobilità, come ciclo: nulla avviene, tutto è. Rispetto a questo paradigma si ha, con il cristianesimo, una rottura completa, con la categoria di evento. Ma l’evento, per essere tale, deve compiersi ora. Se è passato, non è più un avvenimento ma è un avvenuto, un accaduto, cioè una cosa. Questo ora è il solo punto in cui l’eternità della vita divina (che, si noti bene, è anch’essa movimento, in quanto relazione d’amore fra le tre persone divine, ma che si compie eternamente ora e non conosce passato né futuro) si incontra con il tempo della storia.52

Ne deriva la permanente inizialità della storia. Che è anche l’inizialità perenne del cristianesimo come evento, che non diventa mai fatto storico del passato, pena la sua scomparsa. Daniélou osserva che la rottura epistemologica portata da questa coscienza del carattere eventuale della storia è così sconvolgente che il pensiero patristico ha faticato ad assimilarla.

Solo con la Città di Dio di S.Agostino il cristianesimo prende veramente coscienza della concezione della storia nella sua paradossale originalità: la storia santa è fatta di inizi assoluti che restano poi eternamente acquisiti. […] Ma la nozione di realtà che cominciano e non finiscono, è uno scandalo per la ragione umana e appare come specificamente cristiano. […] Gregorio di Nissa ha dato la definizione di questa visione della storia quando ha scritto che “essa passa da inizio a inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine” (Hom. Cant.; P.G., XLIV, 1043 B).53

Non c’è dunque, nella teologia della storia di Daniélou, un “inizio iniziale”, unico ed isolato, in illo tempore, e poi una successione di fatti che di quell’inizio sono semplicemente la conseguenza o l’applicazione, in una sorta di dispiegamento le cui tappe si distanziano cronologicamente dall’origine (“il passato”) senza mai avere il carattere dell’inizialità. Tutta la storia è invece costituita da eventi che, come tali, sono tutti unici e, nel senso che si è appena cercato di chiarire, iniziali. Ma questi eventi non sono isolati bensì in relazione gli uni con gli altri, ed è proprio dal fatto che la storia è, per Daniélou, una successione di eventi unici, che deriva a un doppio titolo il carattere critico della verità storica. Da una parte, infatti, l’unicità di ciascun evento storico consiste proprio nel suo non essere (completamente) assimilabile ad alcun factum del passato o del futuro e nel suo possedere, di conseguenza, un carattere di essenziale alterità. Perciò nel suo accadere, in quanto altro da ciò che lo precede, l’evento (ogni evento) apporta necessariamente un quantum di crisi di ciò che gli preesiste. A prescindere dall’intenzionalità critica di chi lo pone in essere, l’evento critica, col suo solo darsi, la concatenazione di fatti storici precedenti a cui va ad aggiungersi.

D’altro canto, nessun evento è veramente tale, come abbiamo visto prima a proposito dell’errore di Marcione, se resta assoluto e autoreferenziale. È la relazione, costituita dal loro necessario disporsi in una sequenza, che li rende intellegibili e al tempo stesso li giudica. Dunque, la verità della storia non sarà né nella sua mera fatticità, data dall’insieme dei fatti bruti a cui il positivismo storico la vuole ridurre; né in una qualsivoglia forma di interpretazione spirituale totalizzante che dai fatti in definitiva prescinde, come avviene in ogni forma di gnosticisimo storicistico; essa potrà essere scorta solo tramite un paziente lavoro di ricostruzione del senso che viene indicato dalla loro successione (nel duplice movimento verso Cristo e da Cristo). Per usare le categorie familiari al Daniélou studioso dell’esegesi patristica: la verità della storia non sta né nella lettera, né nell’allegoria, ma nella tipologia.

Siamo dunque tornati, in conclusione, ad un’altra idea forte della visione di Daniélou, quella della tipologia come chiave di intellegibilità della storia. Che cosa può permettere all’uomo di comprendere gli avvenimenti che Dio fa compiere nella storia? Nel momento in cui accadono, il fatto di poterli collegare ad altri che li precedono e li prefigurano, suggerendone il senso; dopo che sono accaduti, il fatto di poter riconoscere in essi la figura di altri avvenimenti che li seguono e, a posteriori, li dotano di senso. Si può dire che l’evento non si dà mai come fatto isolato, ma sempre in relazione e solo così può essere compreso.

Mai definitivamente compreso, tuttavia, perché ogni nuovo evento, con la valenza critica che ha nei riguardi della catena in cui si inserisce, allarga e ridisegna le maglie dell’interpretazione storica. Da questo punto di vista, Daniélou ha buon gioco nel denunciare il carattere mitico di ogni filosofia della storia,54 che, con la sua pretesa di comprensione totale della storia, gli appare come una “laicizzazione della dottrina provvidenziale” che “reca l’impronta della difficoltà fondamentale di questa. […] La filosofia laica della storia, la dottrina del progresso si presenta dunque come un puro mito”.55

Il limite di ogni filosofia della storia è, in fondo, quello stesso che la riflessione patristica aveva colto come limite essenziale della posizione filosofica: la parzialità. “La verità che si mostra nella filosofia greca è parziale (μερικὴ)” diceva già Clemente Alessandrino,56 e la colpa della filosofia è la pretesa di ambire ad una totalità che non le compete. È la philautia, cioè l’autoreferenzialità, la pretesa di ridurre tutto al proprio principio particolare.57 L’incapacità di tenere conto di tutti i fattori in gioco, tra cui quello che impedisce di “chiudere i conti” della storia, cioè l’intervento libero e misterioso del Dio trascendente nella storia, genera una pretesa di comprensione della totalità della storia che è menzognera. Se il principio della storia le è immanente non si esce dalla prigione dello storicismo. Una vera teologia della storia, invece, rompe questo cerchio, perché pensa la storia come vera relazione tra Dio e l’uomo (perciò sempre come teo-dramma, direbbe Hans Urs von Balthasar); un Dio che fa la storia ma al tempo stesso la trascende. Il provvidenzialismo teologico pretende di sapere che cosa Dio farà della storia; la filosofia laica della storia elimina Dio ma mantiene la stessa ipoteca sul senso totale della storia. La teologia della storia parte invece dall’assunto che “il giudizio è la manifestazione di quel che le cose sono agli occhi di Dio, ossia di quel che esse realmente sono”, sa che “solo questa luce del Giudizio illumina veramente la storia […] che fuori di essa resta senza significato”,58 ma sa anche che noi uomini questo giudizio non finiamo mai di conoscerlo. Per questo la nozione di crisi è essenziale alla verità della storia. Perché la verità della storia non è un discorso sulla verità, è la Verità che, rivelandosi, mette in crisi, cioè giudica, la storia.

1J. Daniélou, Essai sur le mystère de l’histoire, Ed. du Seuil, Paris 1954. Nel presente contributo le citazioni sono tratte dall’edizione italiana: Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1963, d’ora in poi indicato semplicemente come Saggio.

2Cf. Idem, Memorie, trad.it. SEI, Torino 1975 (= Et qui est mon prochain?, Éditions Stock, Paris 1974), 119.

3Dichiarata sin dalla prefazione, che si apre con queste parole: “I periodi di crisi come quello che attraversa oggi il mondo conducono gli uomini a interrogarsi sul significato [del] loro destino. Ci si spiega così perché mai il problema del significato della storia sia al centro delle preoccupazioni del pensiero contemporaneo” (p. 9).

4Nel senso autorevolmente definito da Dei Verbum 8-10, là dove proclama che “la sacra tradizione e la sacra Scrittura” – si noti: in quest’ordine! – “costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa” (10).

5Riduzione che sempre avviene ogni qual volta si considerano gli scritti primitivi su Gesù separandoli dalla corrente viva della Tradizione ecclesiale. Benedetto XVI, con la sua trilogia su Gesù di Nazaret, ha indicato proprio qui un nodo cruciale dell’attuale crisi della fede, cercando di aiutare la coscienza cristiana a uscire dal vicolo cieco in cui l’esegesi storico-critica assolutizzata e, per così dire, abbandonata a se stessa la conduce.

6Saggio, 20.

7Come egli stesso limpidamente dichiarava, nel famoso articolo Les orientations présentes de la pensèe religieuse, pubblicato in «Études» 79 (1946) 5-21, riferendosi alla nuova impostazione della collana Sources Chrétiennes rispetto alle preesistenti raccolte di fonti patristiche: “il y a plus à demander aux Pères. Ils ne sont seulement témoins véritables d’un état de choses révolu; ils sont encore la nourriture la plus actuelle pour des hommes d’aujourd’hui, parce que nous y retrouvons précisément un certain nombre de catégories qui sont celles de la pensée contemporaine et que la théologie scolatique avait perdues” (p. 10). Su questo articolo, nel contesto del dibattito sulla nouvelle théologie alla metà del XX secolo, cfr. J.-C. Petit, La compréhension de la théologie dans la théologie française au XXe siècle. Pour une théologie qui répond a nos nécessités: la nouvelle théologie, «Laval théologique et philosophique» 48 (1992) 415-431. Va detto che la profonda unità tra studio storico della tradizione patristica e impegno culturale e spirituale nella vita della chiesa e del mondo contemporaneo, che Daniélou ha testimoniato nel corso della sua esistenza, è a sua volta il frutto di quel nesso vitale tra teologia e santità che ha caratterizzato la storia del pensiero cristiano fino alla Scolastica e la cui perdita successiva è stata denunciata da Hans Urs von Balthasar, Teologia e santità, in Verbum caro. Saggi teologici, I, trad.it. Morcelliana, Brescia 19753, 200-229, come la svolta che ha fatto passare “dalla teologia prostrata in ginocchio a quella seduta a tavolino” (p. 228). Riallacciandosi a Balthasar, coglie bene questo aspetto dell’opera di Daniélou l’utile sintesi di M. Nicholas, Jean Daniélou’s Doxological Humanism. Trinitarian Contemplation and Humanity’s True Vocation, James Clarke & Co., Eugene (OR) 2012.

8Sull’essenza patristica del pensiero teologico di Daniélou si veda l’ottimo saggio di M.-J. Rondeau, Jean Daniélou théologien, in J. Fontaine (dir.), Actualité de Jean Daniélou, Cerf, Paris 2006, 127-154.

9Come l’esperienza del magistero di Benedetto XVI ha dimostrato: la sua è stata una parola totalmente intrisa di cultura biblico-patristica, ma assolutamente capace di raggiungere e conquistare l’uomo di oggi (qualunque uomo) se solo avesse avuto la possibilità e la disponibilità di mettersi in ascolto. La prova è che, tra chi l’ha ascoltata, tanti, anche lontani dal cristianesimo e dalla chiesa, ne sono stati colpiti e provocati non a un’emozione superficiale ed effimera ma ad un giudizio, cioè ad un diverso modo di vedere se stessi e il mondo.

10Saggio, 85.

11Saggio, 88. Questo approccio, che evidenza il carattere paradossale e, in un certo senso, incongruo della presenza cristiana seriamente vissuta nel mondo, per cui essa “non corrisponde a nessuna realtà esistente”, noi lo possiamo applicare a molte altre nuove situazioni, come ad esempio quelle create dalla Rete, che spesso vengono esaltate o demonizzate dai cristiani in modo unilaterale e approssimativo.

12Cfr. Saggio, 88-89.

13Basti pensare alla sua maggior impresa scientifica nell’ambito della storia del cristianesimo antico, cioè l’Histoire des doctrines chrétiennes avant Nicée, che si articola appunto in una trilogia ebraico-greco-latina, e tenere nel giusto conto il fatto che uno dei più significativi apporti di Daniélou alla ricerca scientifica sulle origini cristiane, sia stato appunto la rivendicazione dell’importanza e della durevole influenza della dimensione giudeo-cristiana, da lui compiuta nel primo volume di questa trilogia, Théologie du Judéo-Christianisme, del 1958. Questo affondo, originale e ancor oggi denso di validi spunti storiografici benché la successiva ricerca abbia messo in discussione molte sue affermazioni, si integra con gli altri due volumi: il non meno ricco Message évangélique et culture hellénistique aux IIe et IIIe siècles, pubblicato nel 1961, e Les origines du christianisme latin, comparso nel 1978, che completa il giro d’orizzonte mediterraneo del pensiero patristico preniceno.

14Benedetto XVI, Discorso ai rappresentanti della scienza. Università di Regensburg 12 settembre 2006: “L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco. […] Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa. […] Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”.

15Saggio, 50-51.

16Saggio, 51.

17Saggio, 52.

18Cf. il discorso Ai partecipanti al V simposio del consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (CCEE), 5 ottobre 1982: “3. La Chiesa e l’Europa. Sono due realtà intimamente legate nel loro essere e nel loro destino. Hanno fatto insieme un percorso di secoli e rimangono marcate dalla stessa storia. L’Europa è stata battezzata dal cristianesimo; e le nazioni europee, nella loro diversità, hanno dato corpo all’esistenza cristiana. Nel loro incontro si sono mutuamente arricchite di valori che non solo sono divenuti l’anima della civiltà europea, ma anche patrimonio dell’intera umanità. Se nel corso di crisi successive la cultura europea ha cercato di prendere le sue distanze dalla fede e dalla Chiesa, ciò che allora è stato proclamato come una volontà di emancipazione e di autonomia, in realtà era una crisi interiore alla stessa coscienza europea, messa alla prova e tentata nella sua identità profonda, nelle sue scelte fondamentali e nel suo destino storico. L’Europa non potrebbe abbandonare il cristianesimo come un compagno di viaggio diventatole estraneo, così come un uomo non può abbandonare le sue ragioni di vivere e di sperare senza cadere in una crisi drammatica. È per questo che le trasformazioni della coscienza europea spinte fino alle più radicali negazioni dell’eredità cristiana rimangono pienamente comprensibili solo in riferimento essenziale al cristianesimo. Le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana”.

19R. Brague, Modérément moderne, Paris 2014.

20Sul concetto di crisi come giudizio, mi permetto di rinviare a quanto ho scritto in L. Lugaresi, «An deus de sola bonitate censendus sit». Qualche riflessione su ira divina e crisi dell’uomo in ambito patristico, in A.M. Mazzanti (a cura di), Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico, Bonomia University Press, Bologna 2015, 33-69, qui pp. 33-39.

21Cfr. Origene, hom. Ier. 1,15-16 (SCh 232, pp. 230-236), a commento delle parole di Geremia 1,10: “per sradicare, distruggere e annientare” e “per costruire e piantare”.

22Saggio. 38.

23Ireneo, Demonstratio apostolicae predicationis, 34 (P.Or. xii, p. 773), citato da Daniélou a p. 39.

24Saggio, 40.

25Saggio, 152.

26Saggio, 152-153.

27Saggio, 156.

28Saggio, 69-82.

29Saggio, 70

30Saggio, 70.

31Revisione critica che sarebbe quanto mai necessaria: molto probabilmente se si chiedesse a tanti “buoni cristiani” di oggi se l’unità mondiale è un bene, molti risponderebbero senza esitare che lo è in modo assoluto. Invece da un punto di vista cristiano dipende se l’unità è nel nome di Cristo oppure no. Un’unità senza Cristo, o contro Cristo, non potrebbe che essere violenta e basata sulla menzogna, come quella anticristica del dialogo di Soloviev o de Il padrone del mondo, di Robert H. Benson.

32Saggio, 73: “La deportazione assume un senso positivo. Invece di essere un male, diventa un mezzo di bene. […] Ma anche quando l’esilio diventa un bene, anche quando è compiuto volontariamente per ideale missionario, resta il fatto che la dispersione è sempre il marchio del peccato e che l’umanità è fatta per essere riunita. Solo che tale riunione […] è la riunione escatologica di tutti gli uomini nel Cristo”.

33Saggio, 74-75.

34Saggio, 77.

35Su qualche aspetto del confronto tra Peterson e Ratzinger cfr. L. Lugaresi, Paradossi patristici: il popolo cristiano come “non-nazione”. Una nota a margine di alcuni scritti di Erik Peterson e di Joseph Ratzinger, «Hermeneutica» N.S. 2013, 159-172.

36Anzi, come dice Origene, Hom. in Lucam 13,1, salutano con gioia e quasi con sollievo la nascita di Gesù perché “la moltitudine dell’esercito celeste ormai non era in grado di dare aiuto agli uomini e vedeva che non poteva compiere l’opera che le era stata affidata, senza colui che veramente poteva salvare e aiutare anche le stesse guide affinché gli uomini fossero salvati”.

37Saggio, 64. Anche qui varrebbe la pena di sviluppare, a partire da questa intuizione, una riflessione sul cambiamento di paradigma culturale introdotto dall’avvento del monoteismo cristiano rispetto ai politeismi pagani, che si potrebbe sintetizzare con la formula: da un’economia delle differenze ad un’economia dell’unità. La signoria di Cristo, destinato a sottomettere ogni cosa a Dio “tutto in tutti” (cfr. 1Cor 15,25-29), segna la fine, si direbbe, di tutti i “regimi particolari”, delle “eccezioni culturali” e delle “etiche della situazione”, in quanto “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti [sono] uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). L’opera di cristianizzazione del mondo pagano compiuta dalla chiesa dei primi secoli va appunto nella direzione di una ricomposizione della molteplicità “politeistica” che lo caratterizzava sotto un principio unitario, non più politico (l’unico imperium) ma teologico. Un esempio particolarmente significativo di questa tendenza è costituito dal secolare sforzo di demolizione dell’imponente sistema degli spettacoli che tanto rilievo aveva nella vita urbana tardoantica come momento fondamentale di integrazione sociale ma anche come “spazio ludico” distinto e per certi versi opposto alla vita ordinaria, in cui vigono regole e codici di comportamento particolari. Uno dei motivi conduttori della polemica cristiana contro gli spettacoli è proprio che non può esistere nessuno “spazio esente” in cui non valga l’unica legge divina e non si può dunque accettare e anzi applaudire a teatro quello che nella vita quotidiana si deplora. Cfr. L. Lugaresi, Il teatro di Dio. Il problema degli spettacoli nel cristianesimo antico (II-IV secolo), Brescia 2008. Di esempi se ne potrebbero naturalmente fare altri, dall’avvio del lunghissimo (e faticoso) percorso destinato a condurre alla parità di trattamento etico tra uomo e donna; al quasi altrettanto difficile superamento della divisione tra schiavi e uomini liberi eccetera. Non è questa, ovviamente, la sede per approfondire storicamente il discorso: piuttosto possiamo domandarci che ne è, nell’attuale momento storico della chiesa, della consapevolezza “cattolica” che Cristo è uno ed è lo stesso per tutti, sempre e dovunque.

38Saggio, 66.

39Il riferimento al tema dell’angelologia, caro al nostro autore, è cruciale anche per altri aspetti. Nel passaggio dal giudaismo al cristianesimo, visto come passaggio dall’angelologia alla cristologia (cfr. J.Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, trad.it. EDB, Bologna 1974, 180-195), varrebbe la pena di riflettere sull’idea, di origine giudeo-cristiana, dell’angelo preposto alla terra che diventa geloso dell’uomo. Il “principe di questo mondo” (cfr. p. 190) proprio nel suo essere tale, diviene perciò nemico dell’uomo. Ne consegue che qualsiasi ordine puramente e integralmente mondano, anche se in quanto ordine potrebbe rivendicare una sua positività, nella misura in cui rimane chiuso alla sovranità di Cristo è radicalmente antiumano.

40Saggio, 42-43. È in questa prospettiva che va collocata la forte e tempestiva attenzione di Daniélou nei confronti delle “crisi emergenti” nella vita della chiesa e della società del suo tempo, espressa, sin dal titolo, in tanti suoi interventi più o meno “occasionali”: si vedano, ad esempio, contributi come Crisis in Christian Theology, «Catholic Mind» 60 (June 1962) 19-28; La crise actuelle de l’intelligence, Paris 1969; La crise de la pensée théologique, in G. Buis et alii, Les crises de la pensée scientifique dans le mond actuel, Desclée de Brouwer, Paris 1971, 37-56; Crise de l’église, crise de l’homme, Centre d’Études Politiques et Civiques, Paris 1972; La crise de la morale, «La Nouvelle Revue des Deux Mondes» 1 (1972) 40-49; Crise ou rerenaissance religieuse, «La Nouvelle Revue des Deux Mondes» 2 (1973)112-120, e altri se ne potrebbero citare.

41Saggio, 166-182.

42Cfr. Saggio, 168: “Oggi [la collera di Dio] appare insopportabile ad una Simone Weil che, come un tempo Marcione, contrappone il Dio d’amore del Nuovo Testamento al Dio di collera dell’Antico”.

43J.L. Chrétien, Lueur du Secret, L’Herne, Paris 1985, 76. Da vedere tutte le pp. 65-83, dedicate a Marcione.

44È ancora Chrétien, Lueur, 78, a notare il paradosso: “Marcion, figure extrême de l’antijudaïsme, laisse inaltéré l’Ancien Testament et, se voulant pur chrétien, effectue sur les écritures chrétiennes une manipulation que nul, ni avant ni après lui, ne leur a jamais fait subir”.

45Saggio, 169.

46Saggio, 170. Come sempre, Daniélou coglie subito l’elemento di confronto con la realtà del mondo contemporaneo: “Si può dire che quest’idea dell’intensità dell’Essere divino sia qualcosa di cui gli uomini del nostro tempo hanno perso quasi totalmente il senso. […] hanno svuotato Dio della sua sostanza fino a farne quella specie di astratto fantasma che si libra in non so quale cielo metafisico e del quale, com’è naturale, il primo venuto si libera […]” (ibid.).

47Saggio, 171.

48Saggio, 172: “La penitenza non è soltanto la necessità extratemporale di moderare in noi la vita carnale per permettersi l’espandersi della vita superiore, ma essa ha un carattere essenzialmente storico […] è direttamente in rapporto con la venuta di Jahvè. È l’atteggiamento da assumere per il fatto che Jahvè sta per venire”.

49Saggio, 177.

50Saggio, 179. Alla fine del libro, nel capitolo sullo zelo (pp. 342-358), Daniélou torna sulla collera divina, come espressione della sua gelosia: Dio, proprio perché ci ama profondamente, non tollera infedeltà in coloro che ama. C’è nella collera divina un aspetto che noi tendiamo a dimenticare: il non rassegnarsi al male. “Noi ci rassegniamo troppo facilmente alle macchie della Chiesa, alle mediocrità del cristianesimo; vi ci facciamo troppo l’abitudine; mentre un’anima che ha dello zelo non si adatta a nulla” (p. 351).

51Cfr. Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, 104-105: “Questo dualismo ontologico è estraneo al giudaismo e al giudeo-cristianesimo. Tuttavia anche qui si può porre il problema di una origine giudaica. […] il problema del male si trova al cuore del pensiero giudaico della metà del primo secolo, alle prese con la dominazione romana. I migliori si chiedono se Dio non li abbia abbandonati, come si vede nel IV Esdra, L’elemento proprio dello gnosticismo consiste nel forzare questa tendenza sino ad un dualismo ontologico per il quale il mondo degli angeli, del cosmo e dell’Antico Testamento è non solo secondario, ma estraneo al Padre”.

52Cfr. la perfetta formula sintetica di p. 227: “Una parola riassume il Nuovo Testamento: l’hodie”.

53Ibidem, 13.

54Cfr. Saggio, 116-118.

55Saggio, 116-117.

56In Strom. VI, 10, 82,2, citato da Daniélou in Message évangelique, 68.

57Cfr. Message evangelique, 67-69.

58Saggio, 115.